Nel gennaio del 1994, quando stava preparando la sua “discesa in campo” politico, Silvio Berlusconi incontrò la redazione de Il Giornale, di cui dal ’79 era azionista di maggioranza, e nel rendere note le sue intenzioni evidenziò come si attendesse un sostegno attivo per le proprie campagne. Indro Montanelli, che aveva fondato Il Giornale e lo aveva diretto, si dissociò e lo abbandonò proclamando la propria indipendenza politica. Ci fu poi lo scontro epico con Benedetti per il controllo di Mondadori, e il grande strascico di interminabili dibattiti su come i mass media potessero o no essere controllati da personaggi di rilevanza politica, per via dell’influsso che si presume essi abbiano sugli elettori. E di converso, il problema è quale sia il grado di indipendenza dei giornalisti a fronte dei potentati economici da cui dipendono.
Il problema resta senza soluzione — ma questa fondamentalmente risiede nella coscienza, sia dei giornalisti, sia dei singoli elettori.
Simile problema si è presentato negli Stati Uniti, e con grande forza, nel contesto della elezione presidenziale del 2016: quasi tutti i grandi media schierati contro Donald Trump, eppure questo vinse. A dimostrazione di come non necessariamente l’opinione di questi influisce sui lettori che sono evidentemente mossi da altre considerazioni (del resto se così non fosse, qualsiasi dittature potrebbe perpetuarsi in eterno…).
Trump è presentato come estraneo all’establishment, di cui i mass media sono parte rilevante — e lui stesso non perde occasione per sottolineare questa sua particolarità, e di accusare i grandi mezzi si comunicazione di diffondere notizie false e tendenziose (oggi dette fake news) a lui avverse.
Come già ebbimo a evidenziare (https://www.frontiere.eu/charlottesville-e-trump-neoliberismo-e-impeachment/), l’estraneità di Trump all’establishment è null’altro che la parte più succosa della sua demagogia e, come qualsiasi proposta demagogica, è priva di fondamento.
Richiamiamo un articolo comparso il 10 settembre 2017 su il Guardian che mostra come il Wall Street Journal, ovvero la voce della finanza statunitense, segua una linea di sostegno per Trump sin dall’inizio della sua “discesa in campo” nel 2016, in virtù dello stretto legame che intercorre tra questi e Rupert Murdoch, proprietario della testata, nonché il maggiore editore a livello mondiale (https://www.theguardian.com/media/2017/sep/10/the-wall-street-journals-trump-problem).
Murdoch è al vertice di un gruppo editoriale che include le catene televisive Fox, Sky, la maggioranza assoluta dei media australiani, i giornali britannici The Sun, The Times, e negli USA il New York Post oltre al Wall Street Journal.
Ma tra i media che hanno sostenuto la campagna elettorale di Trump e continuano a sostenerne l’attività, va citata anzitutto la catena di telecomunicazione e comunicazione internet Sinclair Broadcast Group, proprietaria di circa duecento stazioni locali che raggiungono il 40 per cento delle famiglie statunitensi.
Cui si aggiungono ovviamente i siti Web della “destra alternativa” quali Breitbart, che sono quelli che per chiarezza di schieramento politico più hanno attirato l’attenzione dei commentatori.
Nel complesso, Trump non è mai stato l’outsider della cui aura viene ammantato nell’arena politica.
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