di Stefano Mavilio
INCIPIT
Da molti anni, ormai, la professione dell’architetto gode di un certo disinteresse se non addirittura discredito da parte della pubblica opinione; fenomeno in merito al quale non posso esibire statistiche quanto piuttosto la mia personale esperienza professionale. Diverse le cause: dalla inopinata e morbosa attenzione dei media alle archistar, che farebbero vendere certe paginette a stampa di pessimo gusto, alla protervia di certuni che si sentono pervasi della divina autorità sventolando la loro presunta bravura agli incolti; dal disinteresse dei cosiddetti intellettuali, che fecero la fortuna della disciplina nel dopoguerra (da allora l’edilizia è dei palazzinari), per finire all’uso di un linguaggio a dir poco disonesto, che si finge colto e invece è arruffato, ignorante e truffaldino 1. Si aggiunga che da quando la poetica del bello è divenuta autoreferenziale, all’insegna del “siamo tutti creativi!” riesce difficile distinguere il “sacro dal profano”.
PER UNA POETICA DELL’ASCOLTO DEL VISIBILE
Mi chiede un amico di dedicare qualche riga al tema del linguaggio degli architetti che, vuoi per gioco, vuoi come rimprovero bonario, chiamiamo spesso “architettese”, parola talmente usata che è entrata a far parte dei dizionari della lingua italiana. Una rapida ricerca sul web, infatti, mi riporta – quasi identica ovunque – la seguente definizione: <Architettese> Modo di esprimersi, lessico, spesso ostico per i profani, tipico degli architetti 2. Del resto, “il vizio degli architetti di parlare in modo balordo è evidentemente antico, se già nel XVI sec. Philibert de l’Orme rappresentava il cattivo architetto privo di occhi e di mani ma con la bocca per parlare a vanvera”3.
Mi incalza l’amico: “(…) tu stesso accennasti al problema dell’architettese, inteso come modo di esprimersi autoreferenziale. Il che consegue bensì alla formazione disciplinare ma anche all’abitudine dei progettisti di rivolgersi alla propria platea interna composta da colleghi. La presunzione è che l’architetto <sa meglio> il che è senz’altro vero ma la questione è che l’architettura non è per l’architetto”. E suggerisce: “se pensassi a qualcosa come l’architettura dell’ascolto? O l’ascolto come fondamento per il progetto?”.
Non sono certo che la poetica dell’ascolto sia il punto della questione ma certamente esiste una poetica dell’ascolto, che più propriamente ho inteso chiamare “poetica dell’ascolto e del visibile”.
E non mi riferisco all’acustica plastica di Le Corbusier, secondo la quale fu plasmata, a suo dire, la cappella di Ronchamp e che consisterebbe nell’incontro dei quattro orizzonti con i quattro “prospetti” della chiesa4. Mi riferisco piuttosto alla capacità di saper vedere l’architettura, che già è una idea complessa e probabilmente non di facile ascolto (sic!). Ascoltare con gli occhi, probabilmente, è ciò che fa chiunque, di fronte a un edificio, a prescindere dalle conoscenze che egli abbia della disciplina. Fenomenologia inconsapevole ma che possiamo provare ad indagare.
Certo assai più varrebbe a tale proposito, una seria e accurata indagine delle categorie professionali che ci tutelano: un questionario da distribuire in Fiera, o una inchiesta da esperire sui quotidiani. Ritengo che otterremmo risultati sorprendenti.5
Non potendo ora sviluppare tale ricerca, se non con l’immaginazione, provo a mettermi nei panni dell’ingenuo cittadino che, posto di fronte a un qualunque edificio, bello o brutto che sia, provi ad esprimersi in volgare. Dunque mi immagino a guardare due costruzioni in Roma: il Colosseo e la cosiddetta “Nuvola”. Del primo certamente direi: “bello” anche se non saprei motivarne il giudizio. Forse perché tale giudizio è iscritto nella storia dell’arte da sempre, anche se quel fabbricato ai miei occhi ingenui pare soltanto un’inutile montagna di pietre e mattoni. Ma la montagna, direbbe lo studioso di simbologia, è pregna dell’archetipo dell’ascensione, dell’unione della terra al cielo e forse – inconsciamente – tale valore permane anche senza che me ne renda conto. Posso dunque dire, da profano e senza ricorrere all’architettese, che il Colosseo è bello perché evocativo, possente, denso di storia patria (con buona pace dei morti ammazzati).
Mi reco poi in “periferia” e mi pongo all’ascolto della “Nuvola”. Che cosa vedo? Un’immane scatola di ferro e vetro. Gioia di tutti gli appassionati di high-tech, parola assai usata e dunque familiare anche a me, ingenuo cittadino, che me ne compiaccio. Ma il primo giudizio permane: è pur sempre una scatola di ferro e vetro. Cosa mi dice, secondo la poetica dell’ascolto visuale? Nulla! Non è evocativa, non ha proporzioni che stimolino il mio inconscio pitagorico; potrebbe forse indurmi a entrare, sospinto dalla curiosità di scoprirne lo scopo per vedere quella che effettivamente si chiama “Nuvola” della quale, dall’esterno, poco vedo e nulla posso dire; ma, ammesso che riuscissi ad entrare, sarei nuovamente al cospetto del nulla o, se volete, di un inutile e costoso gioiello sintetico, del quale ai più sfugge il senso e la destinazione.
GLI STRUMENTI
Per farle breve. Quali sono gli strumenti del profano di fronte a un edificio? Certamente, non avendo tutti studiato la storia dell’arte (retoricamente mi chiedo: serve a qualcosa, se anch’essa è scritta in “architettese”?) e non avendo maturato altri strumenti che non siano il buon senso, devo ricorrere a ciò che vedo (anche questa è una poetica dell’ascolto visuale).
Un esempio che pare illuminante. Quante volte sfogliando le cosiddette riviste di Style (rigorosamente con la “y”), vedo cucine immense, di glaciale freddezza, delle quali dovrei apprezzare il “minimalismo” e la “purezza delle forme”? Quante di queste cucine vedo poi nelle case degli amici? Nessuna. Vedo piuttosto ambienti piccoli, odorosi, familiari, pittoreschi, nei quali si scorge chiaramente l’idea di ambiente familiare, che da sempre caratterizza una cucina domestica. Ecco individuato un primo errore della vulgata architettonica. L’aver preteso che i “minimalismi” e la “purezza delle forme” appartengano al gusto dell’ingenuo. Una errata politica della comunicazione affligge la società che di tali spazi fruisce. Siamo certi che tutti vogliano tali squisitezze? E se – puta caso – tali squisitezze fossero suggerite solo a “chi se le può permettere” (una cucina di 50 metri quadri è pari al taglio medio di una appartamento popolare), siamo certi che “chi se le può permettere” le apprezzi veramente, oppure sarà semplicemente indotto ad apprezzare lo status symbol (sempre con l”Y”) sol perché deve mostrarsi facoltoso? Rammento che l’equazione ricco e facoltoso=fine intellettuale, è decaduta da tempo, essendo la ricchezza concentrata nelle mani dei “cafonal”.
Dunque per farla breve direi che esistano due livelli di lettura del fenomeno architettura-architettese. Quello alto (in realtà infimo), che induce a comportamenti obbligati e quello basso, che ancora si chiede: “a chi giova?”. Il giudizio – diciamo più semplicemente il parere – dell’ingenuo cittadino, purtroppo per le archistar e per le riviste patinate, vive ancora di archetipi consolidati da millenni e quindi difficilmente sradicabili. Il focolare domestico, al quale visivamente e linguisticamente parlando riferisce l’ingenuo, è preferibile alle case zen-sushi. Perché, piaccia o meno, l’architettura parla, da sempre, al nostro inconscio. E – soprattutto – pur essendo immaginata dagli architetti, come dice con sapienza l’amico, non è per gli architetti6. Evviva gli archetipi e la cucina di nonno Aldo. Dunque: abbasso le case che non sappiano parlare al cuore dell’ingenuo!
p.s. Rileggendo questo breve testo, scritto di getto, senza troppi ripensamenti, mi accorgo che pone più questioni di quante ne risolva. Il parere dei colleghi giungerebbe gradito.
NOTE:
1 A tale propositocfr. Derrida J., Adesso l’architettura, 2008, passim.
2 Lemma Architettese, https://dizionari.repubblica.it/Italiano/A/architettese.html
3 cfr. Architettese, http://www.unipe.it/progettistisidiventa/LEZIONI/Architettese.pdf
4 “Per riconoscere la presenza di un fenomeno acustico nel dominio delle forme, bisogna essere, non un iniziato delle parole tabù, ma l’artista, l’essere sensibile alle cose del’universo. L’orecchio può vedere le proporzioni. Si può <ascoltare> la musica della proporzione visuale.” (Le Corbusier, Il Modulor II, Milano 1974, pag. 148). Cfr anche: Casali V., Le Corbusier: acustica – forma – suono, in: Progettazione di chiese: il problema dell’acustica, Bari, 1-3 giugno 2006.
5 Altrettanto interessante, in quel questionario, sarebbe chiedere all’ingenuo cittadino cosa egli intenda per bello e brutto, categorie assai maltrattate, nell’epoca in cui siamo tutti creativi, esperti ed artisticamente consapevoli. Quante volte mi è capitato nella pratica professionale di sentirmi dire dai clienti “anche io sono creativo !” La qual cosa dovrebbe farci ulteriormente riflettere sul significato ulteriore della parola creativo. Ma non è questo il luogo.
6 Interessanti e appassionanti a proposito del drammatico iato fra ciò che l’architetto vuole per il suo cliente e ciò che il cliente vorrebbe dall’architetto, sono le seguenti pagine: Marie Jaoul, Infanzia nella Maison Jaoul, in: L’Architecture d’Aujourd’hui, n. 204, 1979, pp. 85-86].
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Caro Stefano leggo il tuo accorato articolo e penso che i nostri sforzi debbano andare nella direzione di colmare quel solco che noi architetti abbiamo spesso artatamente scavato tra chi abita e chi progetta. Perché è proprio qui il problema. La cultura non è autopoietica per definizione, per progredire ha bisogno di conflitti e i conflitti non portano grandi incarichi. Se chi cucina non comunica con chi mangia, anche a costo di critiche feroci, mangeremmo sempre la stessa zuppa. E proprio della zuppa noi architetti dobbiamo tornare a occuparci e questo molto prima di capire come sarà la scodella. Ma parlare della zuppa significa condividere ingredienti, conoscerli, spesso coltivarli personalmente. Saper rendere concrete anche le utopie è il nostro compito, che significa condividere programmi cosa che si può fare con un linguaggio comprensibile e con i fatti. Sono comunque tanti i colleghi che la hanno fatto e lo fanno.
Grazie, arch. Mavilio, per questo scritto di buon senso che espone una nevrosi: il linguaggio dell’architettura non è più lingua comune. Senza lingua comune, capìta e soprattutto parlata, dunque costruita, da tutti, l’architettura non può più essere civica. Non può cioè contribuire a definire e costruire un comune progetto e quella comune felicità che dà ossigeno alla felicità individuale. Al massimo può decorare i mondi privati (e l’un contro l’altro in conflitto) dei pochi così assillati dal possesso da sacrificargli il meglio della vita, comprese le odorose cucine degli amici. Mi piacerebbe prendere un caffè con lei.M