Si assiste a un certo ritorno dell’antisemitismo che nel mondo occidentale sembrava definitivamente sopito. Questo cavalca le descrizioni che si leggono comunemente sui giornali in merito a quanto avviene a Gaza: immancabilmente le azioni militari dello stato di Israele assumono contorni deteriori e così, implicitamente, termini come esercito dello stato ebraico”, “esercito di Tel Aviv”, aerei o carri armati con “la stella di Davide” sono usati in senso negativo. I reportage assumono i toni di una condanna. Tutto questo si inserisce nella logica della dissoluzione del mondo occidentale, che da tempo è in atto in vario modo — e in vario modo rappresentata nell’universo massmediale.

La propaganda 

Una tendenza tipica della sfera pubblicitaria è quella di ripetere ossessivamente un concetto per farlo diventare “familiare” così che chiunque lo possa sentire come proprio pur senza avere una vera conoscenza della materia. Un altro efficace sisitema di convincimento è quello di presentarsi come minoranza oppressa: a questa va automaticamente la simpatia delle persone che tendono a soccorrere i malcapitati divulgando il messaggio in cui si denuncia la loro condizione di oppressi. Questo fenomeno viene riutilizzato da soggetti che desiderano essere considerati “modellatori dell’opinione pubblica”, impossessandosi di luoghi comuni, come usano alcuni giornalisti che elaborano le notizie per essere graditi al loro pubblico di riferimento. 

Il moderno influencer è colui che raccoglie un elevato numero di seguaci attraverso chat e media, mezzi mediante i quali è capace di indurre desideri e condizionare i comportamenti dei propri followers. Tale fenomeno non è che un’evoluzione del mestiere dei sofisti, utilizzando però quello che l’informatica ci ha concesso: immediatezza, velocità di reazione, ampiezza della platea. Da parte loro, i followers possono contare su una “presenza” assidua del loro referente in qualsiasi posto si trovino. Questa relazione modifica del tutto il significato del rapporto diretto, e così anche le relazioni a distanza diventano fiduciarie e viene dimenticata la necessità di basare su prove provate le affermazioni che si propalano. Nella retorica degli influencer, presa sempre come espressione “personale”, i confini tra le discipline trattate svaniscono: possono essere indifferentemente di natura commerciale, culturale, politica… Rimangono però sempre subalterne allo scopo puro e semplice di farsi leggere.

Simile facilità nella raccolta di consenso si ottiene con i Flashmob, le mobilitazioni-lampo, spesso solo apparentemente improvvise, in uno spazio pubblico fisico o in uno spazio virtuale nella rete informatica. Il fattore della velocità di reazione, combinata al concetto di solidarietà e condivisione non lascia tempo ad alcun contraddittorio che anzi appare superfluo. L’opinione di una folla detta legge, la massa “crede” di essere “espressione della democrazia”. È convinta di aver ragione perché si sente forte del numero e le persone che vi sono intrappolate non capiscono quanto le folle siano sempre facilmente manipolabili. Il senso di appartenenza reprime il libero pensiero della persona.

Il successo economico e commerciale è oggetto di ammirazionie. E così succede che, nonostante diversi proprietari o gestori di multinazionali di energia, finanza, informatica, catene commerciali, siano considerati alieni ai valori e alle necessità sociali, e facilmente trovino chi è disposto a sostenerli come se fossero profeti di una nuova era. Il caso eclatante è quello di Elon Musk.

Questo mondo alla rovescia ha potuto consolidarsi proprio col dissiparsi delle tendenze ideologiche che operavano sul lungo periodo: oggi tutto ruota attorno all’utile inmediato per ottenere il quale ci si uniforma attorno a luoghi comuni. Me Too”, “Black Lives Matter”, “Notinimmyname”, sono solo alcuni emblemi delle lotte alle discriminazioni che giustamente vanno abbattute. Ma il problema è che queste lotte sono divenute oggetto di manipolazione, per cui chi aderisce a quegli slogan diviene strumento nelle mani di Opinion Leader e Influencer, che a loro volta devono la propria fortuna alla facilità con la quale tali temi fanno presa sull’opinione pubblica: un serpente che si mangia la coda!

Riscrivere la storia?

Me Too” è sfociato presto nel pettegolezzo, in beghe giornalistiche, giudiziarie, economiche, in ritorsioni e vendette. Lo stesso è avvenuto con Black Lives Matter che ha finito per rivendicare il diritto di correggere e riscrivere il passato: un’assurdità per tentare di annientare (è quanto è avvenuto con molti monumenti dedicati a Cristoforo Colombo) la cultura e suoi simboli — per quanto questi rimarranno comunque indelebili. Proprio per questo sarebbe stato opportuno, semmai, cercare nuovi significati mediante i quali si possa giungere a un cambio culturale, invece di distruggere quanto già consolidato. Aggiungere, non togliere: così da permettere il confronto tra le sensibilità che nel tempo possono cambiare.

Ma tutta questa ondata denominata “canchel culture”, cultura della cancellazione, è potuta accadere perché la convivenza civile è oggi  condizionata dai ritmi dalla comunicazione, e la quantità dell’informazione risente della logica dell’approssimazione che a sua volta influenza anche il linguaggio e il modo di rapportarsi. A dimostrazione di tutto questo consideriamo la sorprendente audizione al Congresso americano delle tre rettrici Claudine Gay dell’università di Harvard, Liz Magi della Penn university e Sally Kornbluth del MIT. Al di là delle odiose circostanze che hanno portato a tali audizioni, il contenuto delle cose chieste e delle relative risposte, ampiamente analizzate e commentate, facevano apparire normale quello che evidentemente rappresentava una discriminazione dei generi, benché alla rovescia. Si pretendeva un equilibrio artificioso tra neri e bianchi, femmine e maschi, e, così come in passato i rettori erano solo uomini, per “compensazione” le attuali tre rettrici sono donne. E tutto questo avviene nel tempio della democrazia americana, nella testimonianza di tre tra le più blasonate università a livello mondiale.

A Gaza

Sullo sfondo di tutto questo, ecco quanto accaduto il 7 ottobre 2023 e la conseguente rappresaglia israeliana a Gaza. Solo in futuro se ne potranno capire e analizzare bene i contorni. Intanto quel che quella guerra ha fatto emergere è la dimostrazione dei cambiamenti profondi avvenuti nella società occidentale: trasformazioni che lasciano il sistema politico e le istituzioni accademiche e culturali succubi e vulnerabili agli attacchi dei regimi sovversivi. 

L’incontro avvenuto al Congresso statunitense, di fatto non è stato convocato per affrontare le problematiche emerse con i movimenti Pro Palestina diffusi negli atenei americani, ma faceva parte di un match politico ad uso elettorale. La tecnica retorica utilizzata delle parti è stata unica: i politici, “gli inquirenti”, si sono presentati aggressivi, cercando di divulgare le loro scelte di parte, le rettrici si limitavano ad essere il più “politiclly correct” con argomentazioni che però mancavano proprio di quello! Gli organi d’informazione sapientemente si sono arroccati nelle loro posizioni, e hanno documentato quello “show” per sostenere ognuno la propria parte.

Nasce Pro Pal

Se una giusta causa va misurata per il numero di aderenti, è palese che il movimento Pro Palestina su quel fronte è riuscito a potenziare la percezione di essere un movimento di massa, e per questo la sua causa sarebbe per antonomasia “giusta”. Forte di ciò, la contestazione ha dimostrato da subito poco interesse al confronto, arroccandosi intorno a pochi simboli e slogan, e insistendo nel ripeterli. Le manifestazioni si sono svolte in modo non dissimile dai comportamenti degli ultras nei campi da calcio, i sit-in trasformati in kermesse, in happening, luoghi di socializzazione, attirando anche “rinforzi” estranei al loro ambiente, secondo una ritualità che si ripete sovente in altre simili situazioni.

L’effetto trascinatore è stato ed è forte, da subito però è parso evidente che non si manifestasse con tale successo solo per condivisione ideologica. L’adesione al movimento e la sua estensione a macchia d’olio nel mondo occidentale è stata impressionante, e si è subito insediato tra i giovani e prevalentemente negli atenei. La simultaneità del fenomeno, l’accendersi di molti focolai in tanti luoghi, lontani e diversi, fa emerge il dubbio che, più che spontaneo, sia il frutto di una macchinazione. 

Da Pro Pal a antiebraico

Infatti in brevissimo tempo Pro Pal, da movimento di sostengo alla causa palestinese è divenuto movimento di opposizione contro “gli ebrei” e i simboli che li identificano: attentando alla loro stessa presenza, incitando al loro isolamento in tutti luoghi dove sono presenti. Una riprova che i messaggi “contro”, uniti a ben elaborate strategie d’attacco associate a immaginari vittimistici sono molto efficaci!  

L’antisemitismo storico, di origine religiosa, nelle società occidentali oggi non avrebbe fatto presa, in quanto il pubblico occidentale si è da tempo allontanato da quelle idee. E allora hanno escogitato di fomentare una reazione contro “un potere”: il potere degli ebrei. Nonostante siano minoranza, la percezione della loro presenza è stata ingigantita in alcune università americane delle quali per motivi storici, culturali e sociali, gli ebrei sono parte integrante.

Non è negabile il legame di ogni ebreo, a prescindere da dove si trovi, allo stato d’Israele. Per molti non è più che un vincolo sentimentale, “ideale”, e comunque è un legame che s’esprime in modo variegato, pieno di sfaccettature, sofferto in quanto intessuto da contaminazioni di vario genere. La bassissima percentuale di presenza ebraica nelle popolazioni rende quantomeno improbabile che questi possano nutrire l’intenzione di “dominare il mondo”: e tuttavia questa è una delle affermazioni ricorrenti! La notorietà d’Israele come “Startup Nation” e il sionismo (che, va ribadito, non è che il movimento risorgimentale del popolo ebraico, nato a fine Ottocento in Europa) sono divenuti occasione per i Pro Pal di reiterare le vecchie idee anti giudaiche, attribuendo a Israele inclinazioni imperialiste e coloniali: proprio quando ancora il mondo occidentale deve ancora fare i conti col proprio passato imperialista e colonialista…

Contro la libera università

Il messaggio dominante nel movimento Pro Pal è una richiesta di boicottaggio, politico, economico. Plateale è quello di fermare ogni rapporto di ricerca azzerando gli scambi di ogni centro di studi con Israele: rivendicazione particolarmente sentita proprio perché il movimento è forte nelle istituzioni universitarie. Apparentemente le armi spianate dalla contestazione sono pacifiche, di desistenza – sembrerebbe un movimento ispirato al Mahatma Gandhi – invece le rivendicazioni presentate sono formulate come intimidazioni: chi non è con noi è contro di noi! In Italia abbiamo visto monumenti imbrattati, luoghi messi alla gogna e rappresentanti istituzionali, come alcuni rettori, attaccati con un impeto che sfiora la violenza. Vengono contestati tanti programmi di cooperazione, e non si risparmiano neppure quelli impegnati a sviluppare percorsi di pace e dialogo. In questo clima si sta fomentando una nuova caccia alle streghe, arrivando al punto di seminare paura nelle singole persone, intimando studenti, minacciando organizzazioni, istituzioni, aziende solo in quanto ebraiche, o presunte tali.  

E questi movimenti Pro Pal si considerano pacifisti! Ma il pacifismo non può essere inteso come sinonimo della non belligeranza. I conflitti sono rivendicazioni che hanno origini pregresse, presentano sfaccettature, contrapposizioni che nella fase acuta diventano roccaforti: divengono chiusure e certezze di parte. Ma bisogna scalfirle. È evidente che lo schierarsi decisamente con una delle parti in causa si trasforma in rigida militanza: ma questo contraddice il senso del rifiuto della guerra. Al contrario, così la si fomenta, invece di sostenere la mediazione e l’eventuale risoluzione pacifica delle controversia. Il pacifismo non può essere selettivo, e non dovrebbe ricorrere a mezzi irruenti e violenti per reclamare e propagare le proprie convinzioni. 

Opinione o manipolazione?

Dovremmo domandarci se l’ondata Pro Pal sia un autentico movimento d’opinione o non sia invece una formidabile azione di manipolazione che ha messo in evidenza altro. L’ondata anti giudaica verso la quale la contestazione anti israeliana ha virato, va considerata come il sintomo rivelatore di una fragilità esistenziale, generalizzata, maturata nel mondo occidentale, a prescindere dal caso specifico di Gaza. Bisognerebbe allora ricondurre le azioni del movimento Pro Pal alla loro asserita pretesa di promuovere la pace in Palestina. Distinguendo e separando tale obiettivo dagli altri interessi che vi si sono sovrapposti e che hanno portato a virare verso un nuovo antisemitismo. Solo in questo modo si potrebbe servire effettivamente la causa della pace! È dunque urgente aprire un percorso culturale, educativo e normativo che possa agire in profondità per riconciliare le democrazie al loro interno. Per ricondurre il mondo “virutale” a quello reale. E far sì che la politica torni a essere fondata sull’onestà intellettuale e sulla cultura.

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