Da oltre due mesi gli iraniani scendono in piazza per protestare contro il regime degli ayatollah, incapaci di affrontare la drammatica crisi economica e chiusi a qualunque richiesta di maggiori libertà. Per la prima volta, le donne non solo partecipano alle dimostrazioni ma hanno un ruolo determinante nella rivolta che ha fatto centinaia di vittime. Il crudele regime teocratico è in grande difficoltà ma non ci sono ancora elementi oggettivi per parlare di rivoluzione.
La sollevazione popolare è iniziata dopo che Mahsa Amini, una ragazza curda di 22 anni, era morta in seguito alle percosse ricevute dalla polizia religiosa il 16 settembre 2022. A differenza di altre proteste simili, però, la morte di Mahsa è coincisa con una delle peggiori crisi economiche dalla nascita della Repubblica islamica nel 1979. La mancanza di qualunque libertà sociale e politica, a cui si somma una dura politica di discriminazione verso le donne, insieme alla diffusa corruzione, l’alta inflazione e una vasta disoccupazione hanno creato una miscela esplosiva di rabbia e sete di giustizia.
La situazione è stata ulteriormente esacerbata dall’impatto della pandemia di Covid-19,
oltre alla caparbia decisione della Guida Suprema Alì Khamenei di tenere in piedi il programma nucleare che ha fatto scattare pesanti sanzioni internazionali che hanno colpito pesantemente i livelli di vita della popolazione. In un contesto un contesto così drammatico, la morte della ragazza curda ha fatto da detonatore scatenando le dimostrazioni più intense e sanguinose degli ultimi anni. La differenza sostanziale con il passato è che stavolta le donne hanno un ruolo attivo e propositivo e lo slogan curdo “Donna, vita, libertà” è diventato il grido di battaglia delle proteste, diffuse in tutto il Paese e non solo nelle grandi città.
Donne e uomini marciano insieme
Da sempre il regime teocratico ha risposto alle dimostrazioni di piazza con l’accusa che si trattava di fanatici sobillati dall’estero, oppure di curdi che intendevano strumentalizzare le proteste per ottenere il riconoscimento di un loro Stato autonomo. Finora, la strategia del divide et impera ha funzionato, anche perché per la maggioranza degli iraniani il problema principale è quello di mettere insieme il pranzo con la cena. Il ministero del Lavoro iraniano ha reso noto che 30 milioni di cittadini vivono in “povertà assoluta”, mentre secondo la semiufficiale Agenzia iraniana per le notizie sul lavoro il 70 per cento della popolazione (quasi 85 milioni) vive sotto la soglia di povertà. Gli iraniani scendono in piazza non solo perché non hanno nulla nel piatto ma perché percepiscono di essere stati tagliati fuori da qualunque forma di miglioramento sociale e non vedono un futuro per i loro figli. In pratica, ritengono che ormai non hanno più molto da perdere.
In passato, le donne avevano spesso protestato pubblicamente contro l’uso obbligatorio dell’hijab, il lungo velo con cui devono coprirsi accuratamente il capo, ma queste loro iniziative non avevano suscitato risposte sociali. Anzi, in molte occasioni le coraggiose che avevano osato porre il problema delle libertà femminili erano state arrestate e costrette a confessare che qualcuno, dall’estero, le aveva convinte a fare un gesto sconsiderato. Mentre allora la questione del velo era stata vista come una “cosa soltanto femminile”, adesso uomini e donne, ragazzi e ragazze marciano insieme e gridano slogan che mettono al centro le rivendicazioni delle donne e, oltre all’abolizione dell’obbligo del velo, chiedono le libertà politiche di cui non hanno mai goduto.
I giovani iraniani di oggi non hanno vissuto il clima eroico della rivolta contro lo Shah che portò all’instaurazione della Repubblica islamica, percepita da molti cittadini di allora come la lotta coraggiosa contro l’odiato imperialismo americano. La rivoluzione del 1979 ha creato un rigido sistema di potere guidato dagli ayatollah, sostenuti dai Guardiani della rivoluzione, un potente corpo militare che controlla settori fondamentali dell’economia. In cima alla piramide c’è un’elite che, al riparo della difesa della virtù e della repressione del vizio, si è arricchita smodatamente, mentre la classe media è quasi scomparsa e la maggioranza dei cittadini fa la fame. Le nuove generazioni, e soprattutto le ragazze che subiscono una doppia repressione, vogliono studiare, viaggiare, divertirsi, ballare, vestirsi come gli pare senza essere costretti a rispettare le imposizioni di una teocrazia decrepita e reazionaria. È terribile dirlo, ma Mahsa Amini è stata massacrata di botte a 22 anni perché una ciocca dei suoi capelli sporgeva dall’hijab. Questo è inaccettabile.
Ecco perché il ragazzo e la ragazza che, la sera del 15 novembre, si sono baciati in mezzo alla strada a Shiraz hanno compiuto non soltanto un gesto di amore ma anche un atto rivoluzionario di protesta contro il fanatico bigottismo del clero sciita. La foto, di autore sconosciuto, al pari dei due ragazzi, è stata scattata lungo il viale Moali Abad, dove erano in corso manifestazioni per ricordare il “novembre di sangue”, chiamato così per le centinaia di vittime fatte dalla repressione governativa durante le proteste per l’aumento del prezzo del carburante nel 2019. Forse non è casuale, ma la città di Shiraz, nell’Iran centro-meridonale, è conosciuta per essere la culla della grande tradizione poetica iraniana e per aver dato i natali a Hafez, il più grande poeta del Paese.
Un alto prezzo di sangue
Poiché la rabbia e le dimostrazioni non accennano a placarsi, il numero delle vittime è in continua crescita, anche perché la polizia, l’esercito e i basij, una milizia volontaria creata da Khomeini all’indomani della rivoluzione, sparano contro la folla con armi automatiche, a volte da moto in corsa, facendo decine di vittime ogni volta. La violenza del potere è concentrata soprattutto nelle aree al confine con l’Iraq e la Turchia, dove vive la maggior parte dei curdi iraniani, circa 10 milioni di persone. La repressione è stata particolarmente violenta nella città di Mahabad, nell’Iran nord-occidentale, dove il 19 novembre è arrivato un convoglio di squadristi che ha iniziato una vera e propria battaglia contro la popolazione causando un numero imprecisato di morti.
Nel suo ultimo rapporto, la Human Rights Activists News Agency, che ha la sua sede negli Stati Uniti, afferma che dal 16 settembre al 18 novembre, sono stati uccisi almeno 402 dimostranti, di cui almeno 58 erano minori. Secondo la stessa fonte, gli arrestati sono stati 16.813, di cui 524 erano studenti. Tra le persone private della libertà ci sono decine di giornalisti, artisti, registi e personalità pubbliche. Il 20 novembre 2022 sono state arrestate due note attrici Katayoun Riahi e Hengameh Ghaziani, colpevoli entrambe di essersi mostrate senza velo, in solidarietà con le proteste. Finora, i tribunali islamici hanno condannato a morte cinque persone, accusate di essere collegate in vario modo alle proteste. I capi di accusa parlano di “inimicizia verso Dio” e “corruzione sulla terra”. In una dichiarazione resa all’agenzia francese AFP, Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore dell’Iran Human Rights, un’organizzazione con sede in Norvegia, ha affermato che gli arrestati “non hanno avuto l’assistenza di un avvocato durante gli interrogatori, sono stati sottoposti a torture fisiche e mentali per ottenere false confessioni, che sono poi state usate come base per emettere le condanne”.
Ci sono crepe ma la diga regge ancora
Il 21 novembre 2022, con grande coraggio personale e con tutti gli occhi del mondo puntati su di loro, i calciatori della nazionale iraniana si sono rifiutati di cantare l’inno nazionale ai campionati mondiali del Qatar, prima dell’incontro con gli inglesi, in solidarietà con i dimostranti che perdono la vita in Patria. Il gesto è nobile ed encomiabile, soprattutto perché proviene dal mondo del calcio professionistico, che non brilla certo per coraggio civile e probità. Rappresenta anche un segnale molto forte del malessere profondo che attraversa la società iraniana in tutte le sue articolazioni ma non va letto come un’indicazione che la vittoria contro il regime degli ayatollah è vicina. I rivoluzionari che rovesciarono lo Shah erano organizzati in una fitta rete che ruotava intorno alle moschee, erano operativi dalla metà degli anni Sessanta e poterono contare sugli errori clamorosi dell’intelligence americana e dei servizi segreti francesi che, avendo piazzato alcuni agenti nell’entourage di Khomeini, si erano illusi di poter controllare la situazione.
La Repubblica islamica è certamente un regime totalitario ma non si basa su un “uomo solo al comando”, come era avvenuto per il tunisino Zine El Abidine Ben Ali, o l’egiziano Hosni Mubarak, entrambi rovesciati dalle manifestazioni di piazza. La teocrazia al potere a Teheran non controlla soltanto l’apparato repressivo e il sistema dell’informazione ma anche settori fondamentali dell’economia, con addentellati profondi all’interno della società e con importanti agganci internazionali. L’Iran esercita la sua influenza politica e militare nell’Iraq, devastato dalla follia incompetente delle varie amministrazioni statunitensi, in Siria dove è intervenuto nello scontro con l’Isis e dove continua a colpire le basi curde, nel Libano grazie ai solidi collegamenti con gli Hezbollah, nella Striscia di Gaza e negli stessi Territori occupati, tramite l’altalenante rapporto con gli estremisti di Hamas.
Non possiamo poi dimenticare che è Teheran è uno dei fornitori dei droni con cui viene
bombardata quotidianamente l’Ucraina. La collaborazione militare ha avuto una funzione importante nel rinsaldare i legami economici e strategici con l’indebolito signore del Cremlino. I rapporti con la Cina sono buoni e potranno ancora migliorare, visto l’interesse iraniano a esportare idrocarburi nel Paese del Dragone e la volontà di Pechino di essere presente in un’area ancora fondamentale da un punto di vista energetico. Chi, come il presidente francese Macron, parla di rivoluzione dovrebbe usare un linguaggio più prudente perché le forze che hanno tutto l’interesse a puntellare la teocrazia iraniana sono ancora molto influenti. Se una rivoluzione senza leader ha l’indubbio vantaggio di complicare la vita ai repressori, per far cadere un regime c’è bisogno di personaggi con carisma e programmi in modo da diventare un punto di riferimento per l’intera popolazione. E nessuno con queste caratteristiche è ancora emerso.
Visti i fallimenti del passato, forse sarebbe meglio che l’Occidente, senza dichiarazioni roboanti e vuote prese di posizione, aiutasse gli iraniani con strumenti di comunicazione in grado di scavalcare la censura del regime, consentendo ai giovani di prendere in mano il proprio destino e cominciare a elaborare nuove idee sul tipo di società che vorranno costruire, una volta superato l’obbrobrio antistorico della teocrazia. Anche il movimento femminista internazionale può dare un contributo notevole per tenere viva l’attenzione sulla coraggiosa battaglia delle donne iraniane. L’unica cosa che non dovremmo fare è voltarci dall’altra parte quando ragazze e ragazzi vengono massacrati per aver chiesto quello che noi ci troviamo servito ogni giorno, senza aver fatto molto per meritarlo.
Galliano Maria Speri
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