Di Paolo Luca Bernardini*
In memoria di Lynn M. Gunzberg (1944-2002)
Per tanti aspetti, e aldilà di ogni provocazione, una periodizzazione della storia, e non solo della letteratura italiana, che inizi con Dante o poco prima, e termini sulla soglia della Prima guerra mondiale, offre preziosi stimoli al pensiero. In fondo, se si considera la vicenda dell’unificazione come l’estensione dei domini sabaudi, originariamente limitatissimi e (vagamente) francesi, come ha fatto di recente Norman Davies in Vanished Kingdoms (2011), vale la pena chiamare l’Italia “Sabaudia” perlomeno dal 1861 fino al 1945, o al referendum o addirittura all’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il primo gennaio 1948. Ma se si considerano altri fattori, ad esempio l’uscita dalla civiltà agraria e dall’economia ad essa legata, l’alfabetizzazione della maggioranza della popolazione, e senz’altro il trapasso dalla monarchia alla repubblica, allora lo “Antico Regime” italiano volentieri lo estendiamo fino al secondo dopoguerra, quando l’Italia divenne industriale e gli “italiani” vennero sistematicamente scolasticizzati e divennero, chi più chi meno, padroni (ma anche spesso servi) della “lingua dove il sì suona”. Qualora poi si affronti la questione di un tema letterario – gli ebrei nella letteratura italiana, ad esempio – ovviamente la periodizzazione deve flettersi alla storia della lingua, iniziare quando la lingua nasce, e perché conclude la propria parabola anch’essa alla fine della Seconda guerra mondiale; quando l’italiano “standard” in qualche modo sostituisce, o quantomeno condiziona, anche la lingua letteraria, l’oggetto, per l’appunto, degli studi di storia della letteratura. E quando – forse – la secolare o millenaria vicenda della discriminazione dell’ebreo, la giudeofobia religiosa prima, l’antisemitismo (razziale, biologico), dopo, sembra essersi interrotta, pur restando vivo, all’inizio di questo terzo millennio, un sottile, pervasivo antisemitismo. Che si manifesta in forme nuove, non necessariamente letterarie.
Umberto Fortis, studioso degli ebrei veneziani e non solo, autore di una varietà di lavori in ambito ebraistico, compreso un fondamentale testo sull’ebraico-veneziano, questo pidgin estinto o in via di estinzione – ma su tutti mi piace qui ricordare il libro su Sara Copio Sullam del 2003, “La bella ebrea.” Sara Copio Sullam poetessa del ghetto di Venezia nel ‘600 (Zamorani) – ha appena pubblicato una vasta rassegna (Belforte, Livorno 2021, pagine 229, euro 25,99), dal titolo Immagini dell’ebreo nella letteratura italiana. Un excursus tra narrativa e teatro secc. XIV-XIX. Opera eminentemente divulgativa – per concludere il discorso sulle periodizzazioni – cita, all’inizio, il IV Concilio Lateranense del 1215, con un Innocenzo III animato da un singolare spirito anti-giudaico, nell’età in cui la lingua italiana dava i primi vagiti; quando finisce l’antisemitismo in Italia? Dopo l’esplosione dell’odio razziale con la Shoah? E allora anche qui una periodizzazione che leghi all’Antico Regime pratiche che dovrebbero essere assenti nel nuovo, si può parlare di una lunga vicenda che nasce nel 1215 e termina nel 1945. Ma le cose purtroppo non sono così semplici. Aldilà di questo – e il discorso ci porterebbe ben oltre i limiti della discussione di un libro – il tema dell’ebreo nella letteratura italiana è di una vastità scoraggiante. Quale ebreo, innanzi tutto? L’ebreo “classico”, l’ebreo biblico, l’ebreo contemporaneo, l’ebreo leggendario (ad esempio l’ebreo errante, cui Fortis dedica pochi cenni ma che è presente in modo sostanziale nella letteratura italiana, soprattutto ottocentesca, ma non solo), il converso, la donna ebrea, e poi il popolo o l’individuo, o il “gruppo” come quello degli ebrei di Trento che furono accusati (dunque, “ebrei omicidi”) dell’assassinio rituale di Simone, poi fatto santo? Si tratta come si vede bene di una varietà che spaura, e che deve essere affrontata per forza settorialmente, ad esempio proprio analizzando l’evoluzione dell’ebreo errante, o – ma sono solo alcuni degli infiniti esempi possibili – della traduzione biblica (in questo caso la figura dell’ebreo è mediata, ma pur sempre presente), o ancora dell’epopea biblica così fondamentale nel contesto italiano, si pensi solo a Verdi, ma prima di lui ad Alfieri, e tanti altri.
Il libro di Fortis ci porta in un mondo ove l’ebreo è oggetto di pregiudizi che paiono universalmente radicati, al di là della letteratura italiana. E ci conduce anche in un mondo poco noto, quello dell’ebreo (non biblico, ma contemporaneo) sulle scene e nelle opere, spesso non messe in scene per eccesso di anti-ebraismo, del teatro italiano. L’ebreo usuraio, l’”ebreo di Mestre” modello del Shylock di Shakespeare – a riprova forse dell’italianità di William Shakespeare, nom de plume per Giovanni Florio, come sembra essere oramai chiaro – a figure così sinistre da non poter neanche essere rappresentate. Ed è l’immagine negativa dell’ebreo che alla fine prevale su quella positiva – che è positiva alla fine solo nella misura in cui l’ebreo si converte, a parte rari casi. Ed è col D’Annunzio ben noto di Più che l’amore, rappresentata per la prima volta nel 1906, che il libro di Fortis si conclude: “Occorre tuttavia giungere, alla fine di questo pur frammentario percorso, alla penna di Gabriele D’Annunzio per trovare un’immagine tanto cruda e ripugnante dell’ebreo e dell’usuraio che può affiancare, sia pur su un versante diverso, il Simeòn Lewy di Boito: non più la redenzione nella conversione, come il Fiorenzo della Invernizio, né l’autodistruzione dell’usuraio polacco, ma la soppressione macabra dell’ebreo (…) Rappresentata per la prima volta al teatro Costanzi di Roma nell’ottobre del 1906, la tragedia sembra voler identificare proprio nella figura dell’usuraio ebreo quanto di codardo e di volgare, di avido e di materialistico qualifica il mondo che il superuomo calpesta e condanna come ‘altro’ da sé, come opposto alla sua superiore, quanto velleitaria attestazione di grandezza e di forza: l’usuraio è insomma l’immagine anche fisicamente repellente di ogni corruzione e di ogni vigliacca debolezza: una sorta di superuomo alla rovescia.” (p.200s).
Manca nel volume di Fortis una conclusione, che avrebbe tirato le somme di una lunga navigazione nella letteratura italiana da Dante a D’Annunzio. Evidenziando ad esempio come la letteratura, spesso inconsapevolmente, anticipi posizioni e attitudini ideologiche e culturali, e spesso anche linguistiche. Quand’è ad esempio, e con che significato originario, il popolo ebreo viene definito “razza”? Nel 1606 ne Lo schiavetto, Giovanni Battista Andreini fa spesso riferimento, negativo, alla “razza”: “…Ne [da Lo schiavetto] emerge un’immagine che rivela al pubblico un mondo fatto solo di raggiri e di inganni, abilmente mascherati, ma tanto più credibili, perché presentati attraverso le parole dei mercanti stessi, quasi in un ricercato processo di autodefinizione, di amara conoscenza di sé stessi. “Tu sai che se’ stimato il più vituperoso giudeo che sia di qua e di là da i monti Caspi”, dice esplicitamente uno dei mercanti all’amico; e rincara la dose, riprendendo la tradizionale volontà di ingannare i cristiani (Goìm): “E come a lo Gohim ho giurato di fraccarla, scappi se può”. Più chiaramente mirata a destar una sorta di compiaciuto risentimento nel pubblico appare tuttavia la violenta rivalità e ostilità interna espressa dalle parole di un secondo mercante: “Poiché non v’è razza al mondo più invidiosa della giudaica”, enfatizzata da una triplice aggettivazione in figura di climax, dalla forte connotazione negativa: “Razza scomunicata, dannata, indiavolata!” (p. 80ss).
Gli “abrei porc”, che dimorano “a ca’ dal Dmoni” si trovano poi in una piccola pièce del 1672, “L’aspra vendetta di Minghetto e Tugnol” rappresentata a Reggio Emilia, in Casa Pagani, dove si parla apertamente di “razza maldeta”. Se dal Barocco si passa all’Illuminismo, ebbene non si modifica di molto l’immagine dell’ebreo, forse si stempera un poco in un atteggiamento di maggiore “curiositas”. Anzi, proprio quando le idee di uguaglianza e libertà, “libres et égaux!” nelle esclamazioni dei rivoluzionari francesi, entrano con Napoleone in Italia, la letteratura anti-ebraica ha protratti trionfi, non tutti molto noti. Ad esempio molto significativo quel che accade nel 1798, mentre i muri dei vari ghetti cadono in tutta l’Italia conquistata dai francesi: “La rappresentazione di commediole aventi per protagonisti Luna e Baruccabà, quali Lo sposalizio della Signora Luna, del bolognese Andrea Nelvi, celebrato interprete del ruolo di Baruccabà, o Il matrimonio ebraico, messo in scena a Ferrara dalla Compagnia Colleoni (nel 1798) e portato, otto anni dopo, a Lucca, suscitò a tal punto l’entusiasmo popolare, da destare atti di accesa intolleranza contro gli abitanti ebrei delle singole città. Il popolino fu spinto ad assalire i vecchi portoni del ghetto, causando perciò tumulti in molti centri italiani, ad Alessandria come a Mantova, a Bologna come a Modena o a Ferrara. Le reazioni delle varie comunità per protestare contro siffatte provocazioni furono numerose, anche se, nella maggior parte dei casi, infruttuose, nonostante l’intervento e la censura da parte delle autorità competenti…” (p. 121). La gloria del mondo biblico, la miseria del mondo contemporaneo, l’incapacità di intuire una continuità tra ebraismo biblico ed ebraismo moderno, anzi, l’attenzione pervicace nel distinguere quei due mondi, un popolo grandioso e un popolo deicida, un popolo generoso e un popolo di avidi usurai: tutto questo accompagna il trattamento dell’ebreo nella letteratura italiana. Sembra, per tanti aspetti, che la letteratura italiana rimanga in ritardo rispetto a quella europea – si pensi a Lessing – ma anche rispetto agli scritti politici e teorici, alla D’Azeglio (Gli ebrei sono uomini!). Certamente, le eccezioni ci sono, e provengono anche da penne illustri, prima di tutto l’Ippolito Nievo genio morto giovanissimo e non mai abbastanza celebrato, nel suo Emanuele, e oltre: “È quanto avviene, ad esempio, in una scena del romanzo Beatrice Cenci del Guerrazzi, spesso ostile nei confronti degli ebrei: ad aiutare Luisa Cenci, sconvolta per la morte del marito, accorre, pur disprezzato come un cane, solo l’ebreo Giacobbe, le cui parole diventano esemplari: “Nati a soffrire e a morire, anche noi, che voi maledite, abbiamo un cuore qui dentro. Se più volete da me,domandate, vi prego, e le creature di Dio divise dalla ingiustizia sieno almeno riunite dal dolore”. Lo stesso avviene in un testo di Giovanni Prati intitolato Sara…” (p.145).
Ma non sono questi testi ad essere quelli maggiormente popolari. Maggior successo ottiene ad esempio un Vittorio Bersezio, nel suo – per altri aspetti davvero straordinario – La plebe, pubblicato a Torino nel 1867-1869. Ecco la descrizione dell’ebreo che vi si trova: “Era il ritratto dell’avarizia e della viltà, colle sembianze d’una sordida miseria. […] Il naso adunco in quel volto osseo e magro, a zigomi sporgenti ed occhi incassati, ricordava il becco d’un uccello da rapina; la bocca sdentata rientrava nelle mascelle incavando ai due lati della faccia un avvallamento pieno di rughe; piccolo, a spalle strette, a petto incurvato, a membra gracili, Jacob camminava a corti passi, senza far rumore, guardando in terra dove sembrava sempre cercar qualche cosa, respirando in modo particolare, quasi affannoso, tra il sospiro ed il gemito. Parlando aveva la voce debole e rauca e quell’accento tra gutturale e nasale che è carattere del popolo israelita, esagerato nella feccia di quella povera razza dispersa.” (cit. qui, pp. 179s). L’immensa produzione di Bersezio dovrebbe essere analizzata per tanti rispetti, anche quello per la visione dell’ebreo, ed essa getta comunque una luce obliqua sul suo Piemonte alfiere e realizzatore dell’Unità d’Italia (Bersezio fu anche deputato del Regno nei banchi della sinistra nella IX e X legislatura.)
Quando l’ebreo perde – nella letteratura italiana – i tratti stereotipici negativi che gli sono stati attribuiti fin dall’inizio? Non è una domanda che abbia facile risposta. Come del resto a ben vedere gran parte delle trattazioni di ebrei nella letteratura italiana forse vanno lette come ironiche, sarcastiche, come esagerazioni da non prendere alla lettera, come antifrastiche, paradossali. Proprio partendo, magari da Dante, con cui questo libro inizia: “Se mala cupidigia altro vi grida, / uomini siate, e non pecore matte, /si che ’l Giudeo di voi tra voi non rida”! (Par., V, 79-81). Che significato ha il “riso dell’ebreo”, e chi è veramente quest’ebreo, rappresenta il popolo o un individuo, e irride i cristiani o il loro atteggiamento momentaneo? L’ebreo non si fa forse censore, in quanto estremamente osservante dei propri riti, rispetto al lassismo del cristiano, che invece per cupidigia li viola? Non richiamano queste parole di Beatrice quelle celebri dell’Inferno: «Considerate la vostra semenza:/ fatti non foste a viver come bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza». (Inf. XXVI, 118-20), che pronuncia Odisseo, non a caso – e qui ritorna, sottilmente, la metafora porcina – ai suoi già tramutati in maiali da Circe, ovvero in “bruti”, e ora tornati umani? L’unico riferimento agli ebrei contemporanei nella Commedia, così sottilmente sfuggente, così allusivo, anticipa tutta l’ambiguità – anche laddove la giudeofobia e l’antisemitismo sembrano certi – del trattamento dell’ebreo nella letteratura italiana a venire. Fino a quando?
Umberto Fortis
Immagini dell’ebreo nella letteratura italiana. Un excursus tra narrativa e teatro secc. XIV-XIX.
Belforte, Livorno 2021, pagine 229, euro 25,99
*Professore, Dipartimento di Scienze Umane e dell’Innovazione per il Territorio, Università dell’Insubria
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