di Axel Famiglini
Gli eventi che hanno caratterizzato la politica internazionale degli ultimi giorni hanno messo in luce i risultati emersi a seguito di lunghi mesi di manovre diplomatiche sotterranee e di accordi politici stretti a vario livello, i quali, nella loro dimensione fenomenica, sono stati presentati di fronte agli occhi dell’opinione pubblica con dirompente drammaticità, nonché accompagnati dal generale sconcerto di commentatori ed analisti politici.
Non si conoscono, ovviamente, i dettagli delle trattative occorse durante un tempo certamente non breve e allo stesso modo non sono note le reciproche offerte e le relative contropartite poste sul tavolo dei negoziati per opera delle parti in causa. Tuttavia ciò che è apparso fin da subito chiaro è che la maggior parte dei colloqui posti in essere fra i soggetti politici coinvolti fosse avvenuta nel più totale silenzio degli attori geopolitici in gioco. Purtroppo le conseguenze di quanto sta venendo alla luce dallo scacchiere mediorientale (e non solo) avranno serie ripercussioni per l’intera stabilità internazionale, nei fatti generando passo dopo passo un terremoto geostrategico di portata epocale.
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Spiace in tal senso constatare come il sostanziale tradimento dei Curdi siriani operato con colpevole noncuranza dall’amministrazione Trump abbia di fatto sancito, pur nell’estrema complessità degli equilibri internazionali in atto, la sostanziale affermazione dell’entente russo-iraniana in Medioriente nonché la “Waterloo” occidentale ed araba nella regione.
Spiace ancor di più constatare che la principale pedina di questa drammatica sconfitta sul piano strategico, militare e diplomatico sia incarnata dal volubile presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.
Le dimissioni del Segretario alla Difesa USA, James Mattis, stanno purtroppo a testimoniare il sostanziale fallimento dell’establishment politico “a stelle e a strisce” nel contenere la caotica ed incostante irruenza di un presidente americano totalmente estraneo agli affari di Stato e più che altro interessato ad affermare la propria persona in seno ad un contesto politico-amministrativo inizialmente a lui del tutto ostile ed alieno.
Essere riuscito ad incastrare in maniera così precisa i pezzi di un “puzzle” assai complicato da organizzare e completare testimonia senza ombra di dubbio l’ormai raggiunta capacità del presidente americano di piegare ai propri fini settori determinanti degli apparati della macchina statale americana, indubbiamente posti in complice diretta connessione con i più importati attori internazionali in gioco e coordinati da un’ideologia di fondo e da una condivisione di intenti che francamente è difficile da ascrivere ad un mero anonimo e solitario ideologo gravitante attorno alla Casa Bianca. I risultati a cui si è pervenuti e che si stanno rendendo manifesti in questi giorni richiedono una capacità di analisi e di pianificazione strategica che vanno ben al di là della buona volontà del “Comandante in Capo” residente a Washington e delle buone intenzioni dei suoi ministri più accondiscendenti. Tutto ciò lascia pensare che quanto accaduto possa testimoniare una collaborazione attiva di più parti che abbia visto ognuna di esse fornire il proprio contributo fattivo per il raggiungimento di un condiviso esito conclusivo della crisi siriana che però, comunque vada, conoscerà vincitori e vinti, manipolatori e manipolati, nonché re e pedine.
La sconfitta delle forze ribelli siriane a Damasco e nel sud della Siria ha in gran parte privato i Paesi del Golfo persico delle ultime irrinunciabili leve militari con le quali supportare la propria azione di contrasto sul piano diplomatico nei confronti dell’Iran e del regime di Assad. La crisi della rivoluzione siriana, seguita all’intervento russo nella regione, aveva già richiesto da tempo sia all’Arabia Saudita che ai suoi partner regionali un cambio di strategia. Ciononostante né Riyad né i suoi alleati sono riusciti ad intravedere una positiva via d’uscita da una impasse logorante, salvo, nel migliore dei casi, quella di una sostanziale accettazione della necessità di una qualche forma di gestione dell’inevitabile capitolazione finale. La Turchia, dal canto suo, dopo essere stata lasciata da sola dagli alleati arabi ed occidentali a seguito della grave crisi verificatasi con la Russia di Putin dovuta all’abbattimento nel 2015 di un velivolo militare russo, ha dovuto individuare un proprio percorso di azione al fine di non vedersi costretta a sedere al tavolo delle trattative dal lato degli sconfitti e parimenti con lo scopo di evitare che il separatismo curdo cogliesse l’attimo e prendesse il sopravvento entro i propri confini nazionali. I rovesci militari, gli errori strategici, l’assenza di un coordinamento e di una chiara unità di intenti non hanno fatto altro che alimentare le reciproche incomprensioni e recriminazioni fra Turchia, Arabia Saudita, Qatar e gli altri Paesi del Golfo, seguite dagli ovvi rimpalli di responsabilità, portando infine Turchi, Sauditi e Qatarioti su percorsi diversi, in crescente conflitto fra loro e in un clima generale da “si salvi chi può”. In definitiva Turchi e Qatarioti hanno cercato di intraprendere la strada della diplomazia con l’Iran e la Russia mentre l’Arabia Saudita si è trovata sempre più isolata e sempre meno in grado di sostenere le ambizioni di un regno che aveva visto nelle primavere arabe la possibilità di costituire un’ordine regionale a propria immagine e somiglianza, ovviamente il tutto in aperta competizione con l’altrettanto spregiudicato Iran degli Ayatollah, parimenti interessato alla creazione di un proprio dominio egemonico nel Vicino Oriente.
Una parte consistente delle problematiche che affliggono il mondo arabo e la Turchia sullo scenario internazionale ha tratto la propria origine dalla catastrofica politica estera americana del presidente Obama, il quale, invece di unire gli alleati nella difesa dell’ordine mediorientale, ha inaugurato la stagione del disimpegno americano, di fatto sdoganando Iran e Russia, i quali sono accorsi a riempire i vuoti lasciati dagli Americani nella regione. La Francia ed il Regno Unito, da parte loro, avevano anch’essi sperato che gli Stati Uniti avrebbero coordinato, come, volenti o nolenti (vedi la crisi di Suez), da settant’anni a questa parte, gli sforzi internazionali per una ricomposizione del caos mediorientale figlio delle primavere arabe, ovviamente in una prospettiva che curasse i propri interessi tradizionali nel più ampio contesto di una possibile parziale democratizzazione del mondo arabo. Tutto ciò non si è verificato, nei fatti ponendo i due Paesi europei nella condizione di non essere più in grado di svolgere una propria politica estera poggiandosi, come da consuetudine ormai consolidatasi, su quella promossa e supportata materialmente dagli Americani ma addirittura trovandosi nella condizione di doversi in qualche modo opporre ad essa, per quanto drammaticamente impreparati di fronte a tale necessità, come nel caso delle relazioni politico-economiche con l’Iran posto sotto nuove sanzioni. L’elezione del presidente Trump, come noto, ha portato alle estreme conseguenze il neo-isolazionismo americano, di fatto mettendo in seria crisi i pilastri sui quali si è poggiato l’intero ordine mondiale del secondo dopoguerra. Le simpatie del presidente Trump per l’oligarchia russa e la figura di Vladimir Putin rappresentano un dato ormai ineludibile e appare allo stesso tempo altrettanto scontato il fatto che i Russi, a suo tempo, abbiano aiutato in qualche modo Trump nel corso delle elezioni presidenziali.
Il risentimento di Trump nei confronti del tradizionale establishment americano di governo, il quale ha chiaramente dimostrato la propria avversione nei confronti della sua persona, unito alla palese sottomessa venerazione del presidente degli Stati Uniti per la figura dell’“uomo forte al comando” (forse accompagnata da una buona dose di “riconoscenza” che sta presentando il “conto”), sta producendo a poco a poco un vero e proprio terremoto sullo scenario internazionale. Trump, non trovando, come ovvio, “corrispondenze d’amorosi sensi” presso le liberal-democrazie europee e gli esponenti moderati della politica americana, da un lato vorrebbe portare gli Stati Uniti ad assumere un ruolo imperioso sul piano internazionale, dall’altro però, non possedendo più gli Usa le risorse finanziarie per farlo, è costretto a ripiegare, utilizzando sia l’arma della guerra commerciale che quella delle recriminazioni nei confronti degli alleati che, a suo dire, sarebbero vissuti a spese degli Stati Uniti per decenni. E’ evidente che un presidente isolato e alla spasmodica ricerca di un incondizionato consenso alle proprie politiche quale è Trump abbia trovato nei nemici storici dell’America dei facili alleati e, allo stesso modo, degli astuti adulatori. La situazione in cui ci troviamo è indubbiamente grottesca, tuttavia non possiamo dimenticare che Trump si rivolge altresì ad un elettorato spesso pesantemente scottato da una crisi economica che ha colpito duramente il ceto medio e che è stato educato dalla destra americana, oltreché alla consueta retorica che la contraddistingue da sempre, ad additare “gli altri” quale il vero problema dell’America. Pertanto Trump ha assoluta necessità di isolarsi e di isolare il Paese, incolpando di volta in volta la Cina, l’Europa o altri attori statuali o non statuali relativamente ai problemi che affliggono l’economia e la società americana.
Dalla commistione di tutte queste pulsioni è indubbiamente scaturita la soluzione di “The Donald” alla crisi siriana che può vantare l’indiscutibile risultato di compiacere il presidente Putin il quale non ha sicuramente dimenticato di esprimere il suo più vivo apprezzamento a Donald Trump per i “progressi” da questi fatti nella “brillante” risoluzione delle varie crisi mondiali. La sequenza dei fatti, pur nella sua contraddittorietà politico-strategica di fondo, è lineare. La Casa Bianca, nonostante un’ampia opposizione internazionale al progetto, ha, come noto, reintrodotto le sanzioni economiche contro l’Iran con lo scopo principale di dimostrare, in primo luogo, alla destra americana, agli Israeliani e ai Sauditi la propria energica collaborazione nella lotta contro le pulsioni egemoniche di Teheran. La strategia americana sarebbe oltretutto finalizzata ad isolare Teheran dal consesso politico internazionale. In tal ottica l’avvenuto riavvicinamento strategico e “tattico” tra Ankara e l’Iran, occorso sulla crisi siriana, non avrebbe potuto rappresentare altro che un ostacolo a tale piano. La crisi diplomatica creatasi tra Sauditi e Turchi a seguito dell’omicidio Khashoggi ha permesso un nuovo riavvicinamento tra Washington ed Ankara e, risolte con incredibile rapidità le precedenti dispute in essere tra gli Usa e la Turchia risalenti al fallito colpo di stato del 2016, ha creato terreno fertile per un accordo tra Trump ed Erdogan sul futuro della Siria. Trump, all’interno di una visione determinata dall’isolazionismo internazionale e del mantra elettorale dell’“America First”, ha dichiarato l’intenzione di ritirare le truppe Usa dalla Siria in modo tale da dimostrare agli Americani di essere un presidente che mantiene le promesse visto che, a suo dire, l’ISIS sarebbe stato sconfitto e la presenza militare americana non sarebbe pertanto più necessaria. Da parte sua Erdogan, preoccupato per la minaccia rappresentata dalle pulsioni indipendentiste dei Curdi siriani e già preparato da tempo a far scattare l’invasione militare del nord della Siria controllato dalle milizie curde, ha conseguentemente accettato il ruolo “proconsolare” offertogli da Trump, finalizzato a sostituire le truppe americane in partenza dalla Siria e a combattere, al posto degli Americani stessi, le ultime sacche di resistenza dell’ISIS presenti nel territorio damasceno, ben sapendo che tutto questo, in realtà, non rappresenti altro che una mera foglia di fico incollata su “twitter” da Trump stesso. Curiosamente da parte loro i Curdi siriani, ben consci da tempo di quale sia l’essenza della politica estera di Donald Trump e del palese desiderio da questi più volte espresso di lasciare la Siria al suo destino, già da mesi hanno intrapreso trattative con il governo di Damasco in merito al loro futuro nel Paese.
Non appena Trump ha ordinato il ritiro dalla Siria e ha investito Erdogan del ruolo di suo “federato”, i Curdi hanno chiamato immediatamente Assad in loro soccorso per evitare l’invasione turca e la guerra con Erdogan stesso. A questo punto, se vogliamo essere onesti fino in fondo, possiamo ben comprendere che se Assad riconquisterà effettivamente il controllo del nord della Siria, le aspirazioni indipendentiste dei Curdi saranno solo un ricordo del passato, esito che ad Erdogan può stare più che bene, soprattutto di fronte al fatto che la Turchia non ha assolutamente l’interesse a combattere gli ultimi irriducibili dell’ISIS e a sobbarcarsi i costi e i rischi di un’impresa quale potrebbe essere quella dell’occupazione di quasi un terzo del territorio siriano. Alla fine, se le cose andassero realmente in questo modo, tutti gli attori in gioco, apparentemente, trarrebbero dei benefici da questa concatenazione di eventi ed appare altresì chiaro come la casualità in tale situazione c’entri assai poco. A tutto ciò si aggiunge un altro importante elemento. I Paesi arabi, nei fatti sconfitti sul piano militare in Siria, si sono detti ormai pronti a riallacciare rapporti diplomatici con Damasco. Emirati Arabi Uniti e Bahrein si stanno preparando a riaprire la propria ambasciata nella capitale siriana e dietro tale mossa, supportata dall’Egitto, sembrerebbe esserci l’azione esploratrice dell’Arabia Saudita alla ricerca ormai di una ricomposizione con Assad, il quale sembrerebbe prossimo ad essere riammesso nel consesso della Lega Araba. Tale iniziativa in realtà ne presuppone un’altra, ovvero, a fronte del rifiuto dell’Unione Europea di pagare la ricostruzione della Siria a meno di un concreto processo democratico nel Paese, i Paesi arabi si starebbero proponendo di subentrare quali finanziatori della ricostruzione siriana in cambio di un allontanamento del regime di Assad dall’influenza dell’Iran degli Ayatollah e dei suoi alleati. Tuttavia possiamo seriamente pensare che Bashar al-Assad ritenga fattibile l’abbandono di Teheran e Mosca per abbracciare Riyad e gli altri Paesi del Golfo un tempo a lui totalmente ostili? Francamente tutto ciò non sembra nemmeno contemplabile. Appare al contrario evidente che la mossa dei Paesi arabi assomigli molto più ad una sorta di proposta di versamento di riparazioni di guerra richiesto a nazioni sconfitte piuttosto che all’estremo tentativo di averla in qualche modo vinta nei confronti dell’odiato nemico iraniano. Comunque vada a finire chi rischia di rimanere con il cerino in mano sono la Francia ed il Regno Unito, i quali hanno speso centinaia di milioni di euro o sterline per ottenere risultati geopolitici in Siria che ormai non sembrerebbe più possibile conseguire. La stessa Turchia, pur apparentemente parte attiva di queste grandi manovre in atto nel nord della Siria, difficilmente riuscirà a continuare a giustificare la propria presenza in territorio siriano, nei fatti condannando definitivamente gli ultimi resti della rivoluzione siriana, fino ad oggi da questa protetti e coordinati, alla sconfitta totale e ponendosi essa stessa in una posizione di estrema debolezza nei confronti delle potenze vincitrici, ovvero Mosca e Teheran. In tal senso, la seppur mal digerita presenza americana nella Siria nord-orientale ha costituito un vantaggio strategico per la Turchia, in quanto nazione appartenente all’Alleanza Atlantica e protetta da essa. Il disimpegno Usa, gestito dalla Casa Bianca a pieno vantaggio di Russia ed Iran, rappresenterà un serio problema per il peso che Ankara intende esercitare in seno al tavolo delle trattative con Russi ed Iraniani. Le dichiarazioni di Londra e Parigi tendenti a confermare la propria prosecuzione alla lotta contro l’ISIS in Siria e a dissociarsi dal disimpegno americano collidono con la realtà sul terreno, in quanto il riavvicinamento dei Curdi siriani al regime di Damasco (e ai Russi) renderà assai arduo per questi attori internazionali agire indisturbati in Siria sia con forze terrestri che aeree senza poter beneficiare dell’ombrello americano ben aperto su di essi. La speranza del Regno Unito e della Francia di impiegare le milizie curde supportate dagli Usa quale volano della propria politica estera in Siria ed in Medioriente si è infranta di fronte ad una decisione presidenziale che ha dimostrato di apprezzare più le interessate lodi dei nemici che gli accorati moniti degli alleati. Rimane certamente oscuro quale sia il vantaggio per la politica estera americana l’aver nei fatti accettato il controllo russo-iraniano della Siria e come ciò si sposi con la logica delle sanzioni a Teheran. Infatti se da un lato appare evidente che la politica sanzionatoria danneggi l’economia iraniana, dall’altro aver permesso all’Iran di stabilire il proprio corridoio geopolitico dalla Persia al Mar Mediterraneo non ha prodotto altro che il rafforzamento dell’asse Mosca-Teheran ed il sostanziale accerchiamento ed isolamento di Israele e dei Paesi arabi (i qual, fra le altre cose, ricordiamolo, sono stati tutti, Israeliani e Sauditi in testa, grandi sostenitori delle sconclusionate dichiarazioni anti-iraniane di Trump sul Medioriente).
Da questo punto di vista appare chiaro come la politica trumpiana assecondi logiche che in parte possono essere definite assurde ed incoerenti, in parte però forse anelano a soddisfare le simpatie politiche di Trump stesso, naturalmente opposte a quelle dei suoi avversari istituzionali e parlamentari. Con l’America ormai andata alla deriva, avrà sicuramente un bel daffare Gavin Williamson, ministro della Difesa britannico, nel convincere l’Ucraina della reale capacità e volontà dell’Occidente di difendere Kiev dalle continue prevaricazioni promosse dal Cremlino (non ultima la crisi in atto tra la marina ucraina e quella russa) anche se, tutto sommato, le prossime elezioni presidenziali, sfavorevoli a Poroshenko, potrebbero lavorare a vantaggio di Putin ed evitare il tanto temuto intervento armato russo nel cuore dell’Ucraina stessa. Da parte sua la Gran Bretagna, dilaniata dallo scontro politico interno sulla Brexit, non appare caratterizzata da quella serenità interiore necessaria per poter imbastire con chiarezza un piano di azione rispetto le gravi sfide che gli eventi geopolitici stanno determinando per tutti i Paesi europei. Lo stesso Macron, pur avendo cercato un canale diplomatico di collaborazione con Mosca, non appare nelle condizioni di farsi promotore di un’azione di riscatto generale rispetto alla nuova intesa cordiale tra Trump e Putin. La Francia stessa si sta mostrando divisa rispetto a quello che dovrebbe essere il futuro della nazione francese ed il gelido vento del Cremlino sta soffiando forte in seno all’agone politico d’Oltralpe. Gli stessi Russi hanno recentemente trovato il modo di insidiare gli interessi francesi nella Repubblica centrafricana, stipulando un accordo di cooperazione militare con lo stato africano, dimostrando un grado di attivismo certamente sorprendente ed inquietante presente non solo nell’Africa centrale ma anche in Libia. I Russi stessi sono impegnati, assieme ai Cinesi e agli Iraniani, in Afganistan e certamente l’ennesima deliberazione trumpiana di parziale ritiro dal Paese ha trovato il plauso generale di Mosca, Pechino e Teheran. Sia gli Australiani che i Neozelandesi hanno dovuto prendere atto che, a causa della nuova politica estera trumpiana, potrebbero giungere da Washington scarsi aiuti per contrastare la crescente potenza regionale cinese. Parimenti sia il Giappone che la Corea del Sud (quest’ultima alla spasmodica ricerca di un accordo con il suo obliquo vicino settentrionale) sentono in maniera chiara la crescente pressione esercitata su di essi dalle potenze vicine, le quali stanno cogliendo le opportunità offerte dai mutamenti internazionali in corso per espandere la propria zona di influenza nel Pacifico.
In conclusione possiamo affermare che sia nata a livello internazionale una nuova alleanza informale, ovvero quella tra l’America di Trump e la Russia di Putin. A pagare il prezzo di questa comunanza di intenti e del conseguente sovvertimento dell’ordine mondiale post-bellico saranno i Paesi arabi, Israele ed, in particolar modo, l’Europa. L’assedio “trumpian-putiniano” rappresenta la vera sfida per un continente, quello europeo, già pesantemente insidiato e dilaniato al suo interno a causa dalle sinistre sirene che da anni ormai utilizzano la rete di internet per diffondere, a basso prezzo e con gran risultato, disinformazione a favore del Cremlino e dei vari autocrati “in fasce” che stanno crescendo a poco a poco in seno al Vecchio Continente. Sono note le simpatie austriache per Mosca e l’Italia stessa si sta trasformando nell’ennesimo “cavallo di Troia” moscovita in seno all’Unione Europea. Parimenti il Cremlino sta tornando a far sentire prepotentemente la sua influenza nei Balcani, in particolare gettando nuova benzina sul fuoco delle crisi mai sopite della Bosnia-Erzegovina, del Kosovo e della Macedonia.
Da questo punto di vista l’unica speranza di fermare il virus dell’autocrazia che si sta diffondendo nel mondo intero risiede nell’unità di coloro che ancora si oppongono a questa deriva regressiva ed autoritaria. Una più sapiente gestione della politica interna unita alla graduale cessazione dell’acquisto di idrocarburi russi certamente andrebbe nella giusta direzione, perché è innegabile che l’Europa, attraverso la compravendita dei prodotti petroliferi russi, stia finanziando le politiche aggressive che la Federazione Russa sta promuovendo in numerose aree globali, fino a giungere al tentativo mediatico, per altro in parte riuscito, di sovvertire dall’esterno e dall’interno le stesse democrazie occidentali.
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