di Galliano Maria Speri
Il 14 maggio 1948 David Ben-Gurion, presidente dell’Agenzia ebraica, proclama la nascita dello Stato di Israele e ne diventa Primo ministro. Quella data è celebrata con gioia e orgoglio dagli israeliani. Le centinaia di migliaia di palestinesi che fuggirono, o furono cacciati da territori che avevano abitato per secoli, e gli arabi che si ritrovarono ingabbiati nello stato ebraico chiamano quell’evento nabka (catastrofe). Dopo decenni di trattative segrete, incontri al vertice, strette di mano e rotture, la nascita di uno Stato palestinese diventa sempre più irrealistica e Israele si accinge a controllare l’area in alleanza con gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, relegando i palestinesi in vere e proprie “riserve indiane” senza diritti né peso politico.
Niccolò Machiavelli ci ha spiegato che bisogna guardare la realtà com’è e non come vorremmo che fosse, per cui basta dare un’occhiata alla cartina del Medio Oriente per comprendere le enormi difficoltà della creazione di uno Stato per i palestinesi, divisi in due tronconi territoriali non confinanti, tra la striscia di Gaza e la Cisgiordania.
Quest’ultimo territorio, occupato da Israele durante la Guerra dei sei giorni del 1967, in realtà è controllato solo parzialmente dall’Autorità palestinese perché vede la presenza di centinaia di insediamenti di coloni israeliani, difesi da postazioni militari fisse. Muri impenetrabili circondano abitazioni e coltivazioni e creano enormi difficoltà agli abitanti palestinesi che non possono spostarsi liberamente in un territorio che, nominalmente, appartiene loro. Decine di risoluzioni dell’Onu hanno condannato gli insediamenti che, però, sono continuati costantemente, portando il numero dei coloni dai 1.182 del 1972 agli oltre 400.000 del 2014, mentre a Gerusalemme est sono passati, nello stesso periodo, da 8.649 a 350.000 (dati dell’Istituto nazionale di statistica israeliano). Ogni mese il governo del Primo ministro Netanyahu annuncia, senza reazioni efficaci della comunità internazionale, nuovi insediamenti e investimenti nelle aree occupate che rendono sempre meno credibile l’ipotetica, futura sovranità palestinese. Anche la retorica dei “due Stati” appare sempre più debole, tanto che un politico emergente come Nir Barkat, sindaco di Gerusalemme dal 2008 al 2018, ha detto di non crederci in una recente intervista televisiva in cui ha affermato che gli arabi che vivono in Israele hanno livelli di vita molto più alti di quelli dei territori occupati, per cui non capisce di cosa si lamentino. Sono gli stessi concetti espressi da Klemens von Metternich quando si riferiva ai patrioti lombardo-veneti che sognavano l’indipendenza dall’Austria all’inizio del XIX secolo.
Il nuovo quadro globale
Ma come è stato possibile che la questione della pace israelo-palestinese, all’ordine del giorno dell’ONU per decenni e priorità di diverse amministrazioni americane, da Clinton a Obama, sia scomparsa dall’agenda mondiale? Il fatto è che, dopo la caduta del comunismo, l’assetto mondiale, diviso in due blocchi contrapposti, ha cambiato totalmente i rapporti di forza facendo emergere in Medio Oriente come problematica principale la questione dello scontro tra l’area sunnita, capeggiata dall’Arabia Saudita e quella sciita, capeggiata dall’Iran.
L’amministrazione Trump si è legata a doppio filo ai sauditi, grandi acquirenti degli armamenti americani, e ha rinunciato a qualunque parvenza di equidistanza tra israeliani e palestinesi, schierandosi apertamente con lo Stato ebraico e facendo trapelare un fantomatico “piano di pace” che non prende in nessuna considerazione le richieste, la sensibilità e la storia palestinese. Gli Stati arabi dell’area si sono adeguati alla nuova situazione, anche perché dipendono pesantemente dagli aiuti economici sauditi e chi, come il Qatar, non si è allineato è stato ostracizzato e attaccato come “sostenitore del terrorismo”.
La causa palestinese è quindi diventata marginale in questo nuovo contesto in cui il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman ha concordato con l’amministrazione Trump e con Israele (che vede nell’Iran il suo principale nemico) una proposta che prevede la continuazione della supervisione di Israele sulla valla del Giordano, la permanenza di tutti gli insediamenti in Cisgiordania, il controllo israeliano sul confine con la Giordania e la capitale palestinese non a Gerusalemme Est ma nel sobborgo di Abu Dis. Per il drammatico problema dei profughi palestinesi, che dai 700mila iniziali sono oggi diventati oltre cinque milioni, viene proposto un finanziamento ai paesi che già li ospitano, Giordania, Libano, Siria, e l’ipotetica possibilità di ottenerne la cittadinanza. Ovviamente, i palestinesi non potranno mai accettare una tale proposta ma, rifiutandola, saranno accusati di non volere la pace e quindi sia i sauditi che gli israeliani potranno continuare imperterriti nella loro campagna contro il comune nemico Iran. E i palestinesi? Rischiano di fare la fine dei nativi americani che, dopo aver salvato dalla fame e dal freddo i primi coloni americani all’inizio del XVII secolo, furono ringraziati con una lenta ma efficace campagna di sterminio che ha confinato i sopravvissuti in riserve dove dominano droghe e alcolismo.
La spaccatura del movimento palestinese
In realtà, all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, c’è stato un momento in cui la pace tra i due popoli della Palestina è sembrata a portata di mano, grazie al realismo di Yasser Arafat, capo dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e del Primo ministro israeliano Ytzhak Rabin. Alla fine del 1993 iniziano a Oslo colloqui segreti tra l’OLP e il governo israeliano che sfociano in accordi che includono il riconoscimento reciproco e l’accettazione di una forma di governo palestinese su alcune aree della Cisgiordani e sulla Striscia di Gaza. Nel settembre del 1995 i due statisti firmano gli accordi di Taba, che espandono l’autogoverno palestinese e rendono possibile elezioni nei territori occupati. Ma il 4 novembre 1995, al termine di una manifestazione in favore del processo di pace, Ygal Amir, un estremista di destra israeliano, uccide Rabin con due colpi di pistola alla schiena.
Alle elezioni del 1996 vince Benjamin Netanyahu, convinto avversario di qualunque accordo con i palestinesi e, ancora oggi, figura centrale della politica oltranzista israeliana. Negli anni successivi ci sono diversi tentativi di riaprire i negoziati ma tutti gli sforzi sono vanificati perché nessun politico dello Stato ebraico, laburista o conservatore, ha la capacità, il prestigio e la visione a lungo termine di Rabin. Anche un incontro al vertice della Lega Araba del 2002 che mette a punto una proposta che, finalmente, offre il riconoscimento di Israele, in cambio di un accordo di pace e del ritorno ai confini del 1967, non produce nulla di pratico.
Il problema vero è che i vari Primi ministri israeliani che hanno proposto di tornare al tavolo della trattativa non sono mai stati troppo convinti di questa strategia e hanno sempre chiuso un occhio sul numero crescente di coloni estremisti che si insediavano sempre più numerosi all’interno dei territori occupati. A questo si aggiunge il fatto che il movimento palestinese si è diviso a causa della crescente influenza del gruppo estremista Hamas, islamista e non laico come l’OLP di Arafat, e legato agli Hezbollah libanesi che sono strettamente collegati all’Iran. Arafat accusò ripetutamente la destra israeliana di aver appoggiato segretamente Hamas per indebolire la dirigenza dell’OLP (di cui Hamas non fa parte) e avere quindi una scusa per non negoziare con gli estremisti palestinesi. Un esempio di questa strategia si è visto con le operazioni di Ariel Sharon, brillante generale e Primo ministro a più riprese. Ad un certo punto, Sharon si trasformò da “falco” in “uomo di pace” quando decise il ritiro unilaterale da alcuni territori occupati da cui fece evacuare forzosamente i coloni ebrei.
Nel 2003 il Primo ministro Sharon propone questa linea politica, approvata dal governo nel giugno del 2004 e dalla Knesset (il parlamento israeliano) l’anno successivo. Nell’agosto del 2005 inizia il ritiro unilaterale dell’esercito che espelle con la forza i coloni che non volevano sloggiare. L’operazione avviene con grande velocità e, in pratica, offre la Striscia di Gaza su un piatto d’argento ad Hamas, molto forte nell’area, che presenta il ritiro israeliano come una vittoria della propria campagna militante. Nel gennaio del 2006 Hamas vince con ampio margine le elezioni nella Striscia di Gaza e impone quindi il proprio controllo locale, mentre l’Autorità nazionale palestinese, guidata da Mahmud Abbas, governa (per modo di dire) la Cisgiordania. Sharon, sotto l’egida della ricerca della pace, è riuscito a inserire un solido cuneo che spacca in due il movimento palestinese che rimane tuttora diviso.
Negli ultimi anni, Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese hanno stipulato diversi accordi che sono sempre falliti nell’arco di pochi mesi, lasciando così le mani libere al Primo ministro Netanyahu che ha accettato con gioia il trasferimento dell’ambasciata USA a Gerusalemme e ha fatto passare una legge che proclama Israele “Stato ebraico”. Hamas ha però cambiato recentemente tattica e ha lanciato nella Striscia di Gaza la strategia delle “Marce del ritorno”, terminate nel maggio del 2018, in cui civili disarmati chiedevano che i profughi palestinesi potessero rientrare nelle loro terre. L’esercito israeliano ha risposto con la solita brutalità, uccidendo decine di dimostranti, quasi sempre giovanissimi, che lanciavano pietre e bottiglie oltre il confine. Sostenendo questo tipo di iniziativa, e non operazioni terroristiche vere e proprie, Hamas ha cercato di proporsi come unico interlocutore dei palestinesi e ha costretto il rivale Abbas (notoriamente debole e ricattato dagli israeliani) a condannare l’esercito dello Stato ebraico e chiamare “martiri” i dimostranti uccisi. Molto probabilmente, Hamas non riuscirà nel suo intento di egemonizzare il movimento palestinese ma sarà riuscito a dare un notevole contributo all’ulteriore indebolimento politico delle organizzazioni palestinesi, rafforzando la strategia di Netanyahu.
Le forze che sostengono Netanyahu (o il prossimo Primo ministro in caso di crisi di governo) si sentono così forti da non aver dato il minimo cenno di cedimento quando nel maggio 2018, con una mossa senza precedenti, un gruppo di 106 generali in pensione, ex dirigenti del Mossad (i servizi segreti israeliani) e funzionari di polizia hanno scritto a Netanyahu chiedendogli con urgenza di “iniziare un processo diplomatico” basato su una cornice regionale per raggiungere la pace con i palestinesi. Parlando al notiziario del canale Mako, uno dei firmatari, il generale della riserva Eyal Ben-Reuven, ha detto: “Stiamo precipitando rapidamente verso una società sempre più polarizzata e verso il declino morale, a causa della necessità di tenere sotto occupazione milioni di persone con la scusa che rappresentano una minaccia alla sicurezza”. In un’intervista al popolare quotidiano Yedioth Ahronoth, un altro firmatario, il generale della riserva Amnon Reshef aveva affermato di essere “stanco di una realtà di conflitti che scoppiano ogni pochi anni, invece di uno sforzo sincero per adottare la proposta della Lega araba del 2002”. Tutto questo non è servito a nulla e, ormai, si sta passando da una prospettiva di conflict resolution a una realtà di conflict management, in cui il governo dello Stato ebraico si ritrova le mani libere per la sua politica neocoloniale.
Esistono soluzioni?
Nella situazione attuale, non ci sono forze che possano modificare lo status quo, visto che sia la Giordania che l’Egitto, entrambi con un ruolo diretto nelle questioni palestinesi per motivi storici e geografici, sono economicamente debolissimi e dipendenti dagli aiuti dei sauditi e dei Paesi del Golfo. La Turchia, unica vera potenza militare dell’area, è interessata principalmente alla gestione della questione curda in Siria e alla creazione di un cuscinetto strategico che impedisca ogni influenza all’interno del suo territorio. La Russia, vincitrice militare della guerra civile siriana, ha già ottenuto il ruolo di referente internazionale dell’area e solide basi militari che le consentono una proiezione strategica nel Mediterraneo. Inoltre, nonostante i legami storici col movimento palestinese, ha relazioni profonde con lo Stato ebraico (più di un milione di ebrei russi sono emigrati in Israele) e non ha nessuna intenzione di rimetterli in discussione. Gli Stati Uniti, da quando la tecnologia del fracking ha consentito di estrarre petrolio dalle rocce bituminose, sono diventati energeticamente autosufficienti e non considerano più cruciale il Medio Oriente da un punto di vista strategico. L’Europa, l’unica entità che avrebbe interesse, per motivi geopolitici ed etici, a una pace giusta per i territori palestinesi, è semplicemente impotente e paralizzata, stretta com’è tra l’aggressiva strategia della Russia (che fornisce il 70% del gas usato in Europa) e i dazi di Trump.
Eppure, l’esistenza di un enorme giacimento di gas nel Mediterraneo che interessa Egitto, Cipro, Israele, ma anche l’area marittima al largo di Gaza, potrebbe fornire le risorse economiche per riesaminare una situazione che sta diventando sempre più disperata, soprattutto da quando Trump ha ordinato di tagliare i fondi all’agenzia dell’ONU che assisteva i profughi palestinesi. C’è un nuovo Rabin in Israele che abbia la visione per trovare una soluzione?
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