Di Leonardo Servadio
Il trionfo del sovranismo nell’epoca della globalizzazione. Di questo andamento degli anni recenti sulla scena geopolitica parla Salvatore Santangelo nel suo recente volume Babel. Dai dazi di Trump alla Guerra in Siria: ascesa e declino di un mondo globale (Castelvecchi, 144 pagine, 17,50 euro).
Lo abbiamo intervistato in merito a tali tematiche.
Halford Mackinder vedeva nella Landmass eurasiatica il perno centrale dell’orbe terracqueo. Non sembra che con la Belt & Road Initiative, che anche la Russia sostiene, si possa concretare oggi tale forte potere eurasiatico? Tra i fattori che spingono in questa direzione v’è anche l’atteggiamento aggressivo tenuto dalla NATO verso la Russia, che non fa che spingere quest’ultima a un’alleanza di fatto con la Cina: la prima è militarmente forte, la seconda sta facendo passi da gigante sul piano tecnologico. Non si può ravvisare qui un nuovo tipo di globalismo? Tanto più che il vecchio mondo occidentale sembra sempre più disgregato…
Si tratta di questioni diverse. Di fronte alla prospettiva di una possibile, crescente integrazione dell’area eurasiatica vediamo accendersi la minaccia di vari focolai di crisi.
Se guardiamo alla possibilità di una maggiore integrazione tra Russia ed Europa, in particolare tra Russia e Germania (anzitutto sul piano del rifornimento di energia, col North Stream) troviamo potenziali motivi di instabilità e ostilità in Ucraina, nelle Repubbliche baltiche, nei Paesi di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria).
E tra Cina ed Europa, là dove si va distendendo la nuova “Via della Seta” terrestre, s’è visto come si sia scatenata la destabilizzazione dell’Isis. Oggi sembra che questo pericolo sia molto ridotto rispetto a due anni fa, ma vi sono tante tensioni che covano sotto le ceneri e possono accendersi e moltiplicarsi. Come per esempio tra Pakistan e India, o tra Israele e Iran: crisi potenziali che, se deflagrassero, potrebbero infiammare tutta la regione e vanificare i tentativi di integrazione infrastrutturale, economica e commerciale tra i due poli del continente eurasiatico.
Questa è la condizione attuale. Quindi certamente, sul tavolo c’è un grande disegno di integrazione: tra Russia ed Europa occidentale trainata dal tema dei rifornimenti di energia, e tra Europa e Cina, per cui trainante è il tema economico nella sua complessità. Ma ci sono anche tendenze che operano in senso opposto, per allontanare queste due polarità e per alimentare esplosioni conflittuali.
I sovranisti, tendendo a disgregare l’Europa, non viaggiano nella stessa direzione di queste forze, generando difficoltà alla prospettiva eurasiatica?
I sovranisti, e vanno effettivamente indicati al plurale, hanno ognuno un’agenda e una valenza diverse a seconda della condizione e dello Stato di cui fanno parte. Comunque, secondo me, ancora una volta ci troviamo di fronte a una strategia periferica che si contrappone al centro dell’Europa. Mi spiego: le potenze anglosassoni – quanto meno negli ultimi 250 anni – non hanno mai avuto la capacità di affrontare direttamente la potenza egemonica dell’Europa centrale, per cui l’hanno dissanguata con conflitti periferici per poi portarla allo scontro frontale con la Russia e infine sconfiggerla.
Ricordo un fatto emblematico: a Londra c’è una via che si chiama “Maida Vale”. Il toponimo evoca uno scontro avvenuto all’epoca delle guerre napoleoniche, quando un contingente di Giubbe Rosse inglesi sbarcò in Calabria e, con l’appoggio di locali bande reazionarie, riuscì per la prima volta a sconfiggere le colonne rivoluzionarie francesi.
Questo è il tipo di strategia che gli inglesi hanno attuato durante le guerre napoleoniche in Italia e con ancora maggiore intensità nella Campagna peninsulare in Spagna e, quindi, creando le condizioni per lo scontro tra Napoleone e lo Zar. Ed è anche quello che si è verificato in quella che chiamo “la seconda guerra dei Trent’anni”, tra il 1914 e il 1945, durante la quale la Germania è stata dissanguata sui fronti periferici. In particolare nella seconda guerra mondiale è divampato lo scontro tra Berlino e Mosca, finché la Germania è stata debellata.
Oggi, soprattutto coi sovranismi di stampo latino in Italia e Francia, c’è un riproporsi dello scontro della periferia verso il centro dell’Europa. Beninteso, non che l’Europa sia esente da colpe, perché l’Unione Europea a guida tedesca ha imposto a tutto il continente una serie di scelte economiche che hanno pesantemente danneggiato la periferia, creando condizioni sociali ed economiche in cui facilmente il populismo è attecchito. Così, in una stagione in cui sarebbe fondamentale la capacità di integrare l’Europa riformando le istituzioni comunitarie e avvicinandole il più possibile alle istanze popolare, questo progetto viene minato: non solo dalla volontà dei sovranisti, ma anche da alcune centrali europee a Bruxelles e a Berlino che ritengono non difendibili le periferie dell’Europa. Ecco dunque profilarsi l’avvento della cosiddetta “Kern Europa” prospettata da Wolfgang Schäuble: il nocciolo duro del continente che potrebbe emergere dalla divisione in due dell’euro: da un lato l’euro forte per la Germania e i suoi Stati satelliti, e dall’altro l’euro debole per Paesi come Italia, Spagna, Grecia…
Diceva dell’arco di crisi: è proprio la strategia che mise in campo da Zbigniew Brzezinski a fine anni Settanta per contenere l’URSS, favorendo conflitti locali periferici. Si ravvisa anche oggi una politica deliberata in tal senso?
Guardo ai fatti, in modo empirico. I miei maestri mi hanno sempre insegnato che le azioni intenzionali generano a cascata conseguenze non intenzionali, quindi diffido di disegni strategici troppo ambiziosi. Ma vedo tendenze: certo esistono archi di crisi che vengono riproposti e possono incendiarsi da un momento all’altro. Più che altro potremmo definirla una strategia del caos. Ricordo che all’epoca in cui il generale David Petraeus assunse il comando delle forze americane in Irak, ebbi l’occasione di porre una domanda a un alto funzionario di Washington in merito alla gestione di quel conflitto. Con cinismo spietato, questi rispondendo spiegò che, al di là delle motivazioni pubbliche (la giustificazione dell’invasione del 2003 fu che fosse necessario procedere all’eliminazione delle armi di distruzione di massa che si dicevano essere nelle mani di Saddam Hussein), si erano ottenuti due obiettivi. Il primo era di aver trasformato il Paese in una “carta moschicida” per cui tutti i jihadisti invece di dispiegare attentati nel resto del mondo, andavano in Irak a combattere al seguito di al-Zarqawi: come minimo questo mostra che in certi ambienti statunitensi si è guardato a quella guerra che per anni ha dilaniato l’Irak con centinaia di migliaia di vittime civili, come a un sistema per evitare la diffusione altrove nel mondo della violenza jihadista. Il secondo obiettivo era di aver creato attorno all’Irak un microcosmo di conflitti di carattere religioso, coinvolgente sia sciiti, sia sunniti. Conflitti che si sono manifestati in tutti i Paesi limitrofi: Siria, Turchia, Giordania, Iran. Ergo, l’Irak è stato il detonatore di un’instabilità complessiva in tutto lo scacchiere mediorientale, generando conflitti che potevano distogliere e dissanguare tutte le forze potenzialmente ostili agli Stati Uniti e ai loro alleati.
Dall’altro lato, per esempio l’istituto Sipri di Stoccolma l’anno scorso ha pubblicato un rapporto sulla nuova Via della Seta, in cui si diceva che questo processo di sviluppo infrastrutturale, fornendo lavoro e generando ricchezza, poteva essere proprio uno strumento per contenere i focolai di conflitti…
Ce lo auguriamo tutti. Teniamo presente che un Paese dirigista come la Cina vede il mercato come un mezzo per attuare un disegno, quanto meno di supremazia regionale. Se non globale… Io sono europeista, perché l’Europa è lo spazio che può ridare a tutte le nazioni sconfitte e marginalizzate dal secondo conflitto mondiale, un orizzonte di significato in uno scacchiere come quello che abbiamo descritto. Gli Stati e le regioni possono certamente giocare una partita di periodo breve e medio, ma non lungo. Perché sul lungo periodo il mondo si sta riorganizzando per grandi spazi e questo lo vediamo anche negli Stati Uniti.
In che senso?
Gli USA avevano trasformato l’America Latina, con la dottrina Monroe, in uno spazio geoplitico in cui non potesse insinuarsi alcuna ingerenza esterna. Ma in quel subcontinente abbiamo visto diffondersi per reazione il colore rosso: diverse tendenze di sinistra che in questi ultimi anni hanno avuto il loro epicentro nel Venezuela di Chavez e Maduro. Quasi tutta l’America Latina era diventata rossa: erano rimaste pochissime sacche di resistenza filoamericana, in particolare incentrata sulla Colombia. Ma in quel Paese il governo controllava sì e no un terzo del territorio, perché il resto era diviso tra le FARC di sinistra e le formazioni paramilitari di destra. Oggi invece, soprattutto con la vittoria di Jair Bolsonaro in Brasile, di fatto il continente americano torna a essere colorato in prevalenza di azzurro.
Quindi gli USA mantengono la loro egemonia nelle Americhe. Mentre l’Eurasia potrebbe integrarsi ma stenta…
La nuova Via della Seta certo è un’iniziativa positiva. Ma vi si contrappongono le forze che tendono a mantenere lo status quo. A partire dagli Stati Uniti, impegnati in una guerra commerciale che speriamo rimanga tale. Oggi la Germania della Merkel sta sfidando frontalmente gli USA di Trump, su tutti i dossier più delicati: quello energetico aprendo al North Stream 2 attivato con la Russia, quello commerciale sostenendo la nuova Via della Seta, e quello militare minacciando di uscire dall’importante piattaforma del cacciabombardiere F 35.
Per quanto riguarda l’Italia, si trova in bilico: se non completa la TAV resta tagliata fuori dalla Via della Seta. Perché la sua estensione terrestre non finisce a Trieste, ma si innesta sul corridoio Kiev-Lisbona. Il governo attuale, che in alcune posizioni esprime la volontà di integrasi con la Via della Seta, di fatto compie passi di senso contrario.
Col governo Renzi l’Italia fece scelte coraggiose: forzando la mano e andando contro le pressioni americane decise di entrare nella Banca per gli investimenti infrastrutturali asiatica che, come sappiamo, è il “braccio armato” della Via della Seta, volto a finanziarne i progetti. L’Italia ne è stata uno dei fondatori ma, per dire dei suoi limiti tipici: quando in quella Banca si è costituto un Comitato degli investitori, che stabilisce la valenza strategica dei progetti per decidere le priorità degli investimenti, non ha consegnato per tempo la documentazione che le avrebbe consentito di farvi parte. L’incaricato italiano ha portato i documenti il giorno successivo alla data di scadenza. Così l’Italia da un lato ha incrinato il proprio rapporto con gli Stati Uniti partecipando alla fondazione della Banca, e dall’altro lato non ha acquisito i vantaggi che deriverebbero dal diritto di votare quali opere vadano sostenute con i suoi fondi.
Nel suo libro recente Babel. Dai dazi di Trump alla Guerra in Siria: ascesa e declino di un mondo globale, indica che nell’ambito del volgersi delle epoche storiche si alternano tendenze globaliste e sovraniste. Oggi prevale la seconda. V’è anche la prospettiva, auspicata in particolare dalla Russia, che si vada verso una multipolarità, dopo l’epoca dell’egemonia statunitense. Pensa che il sovranismo possa favorire tali sviluppi? Può sorgere una cultura sovranista non competitiva e non conflittuale, come fu invece la cultura nazionalista del ‘900?
Lo auspico. E ci sono segnali che vanno in questo senso. Bisogna recuperare una cultura europea, come quella della fase successiva alla pace di Westfalia che pose fine alla guerra dei Trent’anni: il consesso delle nazioni. La Cina potrebbe avere un ruolo equilibratore. C’è un capitolo nel mio libro in cui faccio il punto sul dibattito aperto in Cina su come il sistema di cultura imperiale possa trasformarsi in sistema collaborativo. Il problema è che allo stesso tempo vedo una serie di piani inclinati – potremmo definirli escatologici – che avvolgono Israele, gli USA, l’Iran. Nella situazione attuale funge da freno Putin: un grande elemento di equilibrio nello scacchiere internazionale. Con un problema: che la Russia attuale non è l’URSS di un tempo e anche una proiezione regionale come quella in Siria le ha generato notevoli problemi di natura economica, tanto più nelle condizioni in cui già è stremata dalle sanzioni economiche. Non sappiamo fino a che punto Putin possa riuscire a perseguire il percorso che stiamo disegnando. La potenza americana non cederà lo scettro dell’egemonia con facilità. Quella che potremmo definire la “anglosfera” (perché la Gran Bretagna della Brexit va in questa direzione), spinge per mantenere la propria centralità a livello globale.
I cinesi non vogliono sfidare frontalmente l’America: desiderano accompagnarne il declino per arrivare a un altro sistema di rapporti mondiali, ovviamente a trazione cinese. Certo, i russi auspicano un mondo multipolare. E gli europei non si capisce che cosa vogliano. L’Alto rappresentante Federica Mogherini rappresenta tutti i limiti che attanagliano l’Europa nel contesto globale. Calzerebbe perfettamente, per descriverne l’impegno nella politica estera della UE, la metafora usata da Clint Eastwood per criticare Obama: una sedia vuota.
Data tale situazione, che cosa auspicherebbe?
Personalmente sono d’accordo con l’ambasciatore Sergio Romano: mi piacerebbe un’Europa come una riproposizione in grande dell’esperimento svizzero. Una confederazione perfettamente riuscita, che dopo la stagione delle guerre di religione ha avuto la capacità di mettere insieme genti che parlavano lingue diverse, seguivano confessioni religiose diverse e, mantenendo condizioni di neutralità, ha dato loro quasi 400 anni di pace. Ed è riuscita ad allacciare rapporti di amicizia verso tutti gli altri popoli del mondo.
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