Leonardo Servadio
“Dal momento che il virus non conosce confini, nazionalità o ideologie, il mondo ha bisogno di condividere tutte le informazioni e le esperienze utili per contrastare la pandemia” scrivono oltre cento parlamentari europei in una lettera aperta resa nota il 13 maggio 2020, con cui chiedono che l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) “torni alla pratica – seguita dal 2009 al 2016 – di invitare Taiwan come osservotore”. Com’è noto, l’isola di Taiwan gode di una condizione di nazione indipendente di fatto, mentre la Repubblica popolare cinese la considera parte del proprio territorio e fu proprio a seguito delle pressioni di Pechino che a Taipei lo status di osservatore all’OMS fu revocato. In pratica Taiwan si trova in una specie di limbo rispetto agli altri Paesi: questa è un’occasione perché possa uscirne.
“Taiwan è stato il primo Paese che, già alla fine dell’anno scorso, ha avvertito l’OMS sulla pericolosità del nuovo virus – ha detto l’estone Urmas Paes, parlamentare europeo appartenente al gruppo Renew e primo firmatario della lettera aperta – ma purtroppo questa organizzazione non le ha prestato ascolto”.
Com’è noto infatti a Wuhan già dalla fine dell’autunno 2019 si sapeva che v’erano casi legati al nuovo coronavirus. E Taiwan già a fine dicembre aveva avvertito che il virus si diffondeva per contagio da persona a persona, eppure ancora il 14 gennaio l’OMS ha ribadito, riferisce il Jerusalem Post del 5 maggio 2020, che non vi era una “chiara dimostrazione di contagio tra persone”. Così l’allarme internazionale è stato dato dall’OMS in ritardo, solo il 30 gennaio, il che è attribuibile al fatto che questo organismo internazionale ha sempre seguito le indicazioni che arrivavano da Pechino, a sua volta desideroso di nascondere gli sviluppi dell’epidemia, nell’evidente speranza di riuscire a contenerla pur mentre si andava diffondendo in modo inarrestabile. È a seguito in tale comportamento che molti hanno denunciato una collusione tra il direttore generale OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, e la Cina: basti ricordare il servizio di Milena Gabanelli pubblicato il 10 maggio 2020 sul Corriere della Sera ( https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/oms-coronavirus-bill-gates-cina-stati-uniti-europa-comanda-davvero-covid-pandemia-5g-etiopia/8ca94b96-92dc-11ea-88e1-10b8fb89502c-va.shtml ) in cui il direttore OMS è accusato di “essere venuto meno al suo dovere primario: la tempestività nell’informare il mondo sulla pandemia in arrivo”.
Abbiamo quindi da un lato Taiwan, cui è riconsciuto di essere il Paese che con maggiore efficacia e tempestività ha saputo reagire all’emergenza sanitaria così riducendone al minimo gli effetti, e dall’altro la Cina, che ha bensì reagito con efficacia ma solo dopo molte esitazioni e nascondimenti senza i quali, sia a livello locale, sia a livello internazionale, la crisi avrebbe potuto essere meglio contenuta.
“Abbiamo deciso di inviare questa lettera aperta a tutti i ministri della Sanità e a tutte le istituzioni dell’Unione europea, perché si faccia uso dell’esperienza taiwanese nel contrastare Covid-19” ha detto Urmas Paes a Euractiv (13 maggio 2020) “Non sarebbe opportuno impegnarsi in giochi geopolitici a detrimento della salute delle persone… Non stiamo parlando di geopolitica, ma del benessere di tutti gli Europei”.
La partecipazione di Taiwan all’OMS è sostenuta da molti Paesi, tra cui l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada.
Ma, per quanto ci si trovi di fronte a un problema di carattere sanitario che investe tutto il mondo, i problemi geopolitici vi sono strettamente e inevitabilmente collegati: sotto tale luce vanno infatti inquadrati i legami tra OMS e Cina a cui si attribuisce il ritado nel dare l’allarme internazionale. E la reintroduzione di Taiwan nello status di osservatore all’OMS sarebbe un passo rilevante anche per riconoscerne l’esistenza come Stato indipendente.
Taiwan fu accettata quale osservatore all’OMS nel 2009 dopo l’elezione alla Presidenza dell’isola di Ma Ying-jeou, esponente del partito Kuomintang (KMT) ma è stata esclusa da questo status a seguito delle pressioni di Pechino dopo l’elezione di Tsai Ing-wen, la leader del Partito democratico del progresso (DPP), nel 2016.
Perché il primo, il KMT, è il Partito nazionalista cinese che ebbe in Chiang Kai-shek il suo principale esponente e questo, dopo la lunga guerra interna alla Cina continentale che si risolse nel 1949 con la vittoria del Partito comunista cinese di Mao Zedong, si rifugiò su Taiwan divenendone il despota. Il KMT ha sempre mantenuto l’ambizione di ritornare a unificarsi con la Cina continentale.
Mentre il secondo, il DPP, è il partito che ha scalzato il KMT dal potere la prima volta tra il 2000 e il 2008, e auspica di dichiarare la definitiva indipendenza di Taiwan.
L’isola nella storia è stata contesa tra Cina e Giappone: per quanto abbia una propria popolazione indigena, è stata prevalentemente legata alla Cina, ma fu occupata dal Giappone nel 1895 che la tenne sino alla sconfitta nella seconda guerra mondiale.
Dopo l’arrivo del KMT, Taiwan (Formosa) è stata riconosciuta dalle Nazioni Unite come la legittima Cina, sino a quando Richard Nixon e Henry Kissinger nei primi anni Settanta non si riavvicinarono alla Cina continentale per favorirla come contraltare dell’URSS nel mondo comunista. Questo fatto portò al riconoscimento internazionale della Cina comunista: dal 1971 è questa e non più la “Cina nazionalista” ovvero Formosa, ovvero Taiwan che dispone di un seggio all’ONU, e solo pochi Paesi al mondo, tra i quali il Vaticano, riconoscono Taiwan come Stato, tanto che nella stragrande maggioranza dei Paesi non vi sono rappresentanze diplomatiche taiwanesi, ma solo rappresentanze commerciali.
Oggi il KMT continua a seguire una politica di riavvicinamento alla Cina continentale, e negli anni in cui riacquistò il potere, tra 2009 e 2016, gli scambi non solo commerciali ma anche di persone e famiglie, si erano intensificati: la politica postmaoista della Cina continentale, aperta al mercato, ha permesso quel riavvicinamento, impensabile sinché predominava il maoismo: proprio in quegli anni la Cina accettò la presenza di Taiwan nell’OMS.
Il DPP invece ambisce a ottenere un pieno riconoscimento di Taiwan come Stato sovrano e, dopo l’elezione della Tsai nel 2016, è tornata la distanza con la Cina.
Tutto questo avviene sullo sfondo delle crescenti tensioni internazionali nel Mar Cinese meridionale, le acque dove più intensi e rilevanti sul piano strategico sono i traffici marittimi e dove da anni la Cina sta estendendo il proprio braccio militare, su isole artificiali e attraverso una flotta sempre più forte, con cui ambisce divenire anche una potenza di mare, non solo di terra.
In tali condizioni, gli USA del Presidente Trump sono interessati a usare Taiwan in funzione anticinese: non a caso la prima telefonata fatta da questo dopo essere stato eletto, è stata alla Presidente Tsai. Mentre d’altro canto il Presidente cinese Xi Jinping per motivi diametralmente opposti, ha rinverdito le ambizioni cinesi su Taiwan, proponendo anche per quest’isola le condizioni in cui si trova Hong Kong, riassunte nello slogan “one country two systems”.
Quindi, per quanto il problema del Covid-19 suggerisca che l’esperienza taiwanese sia messa al servizio dell’OMS – di un’OMS che va ristrutturata e riabilitata dopo aver perso la faccia agli occhi del mondo, e non solo per gli errori e le mancanze a fronte del Covid, ma anche a seguito di simili errori compiuti con la Sars e altre recenti epidemie – l’aspetto geopolitico del suo auspicabile ritorno in questo organismo internazionale non può essere sottaciuto. A differenza del passaggio nell’OMS negli anni 2009-2016, questa volta si richiede che vi sia un vero e proprio riconoscimento del ruolo indipendente di Taiwan. Non v’è al mondo Paese che non se ne renda conto, a partire dalla Cina di Xi Jinping.
Se questa vorrà veramente trasformare l’emergenza Covid-19 in una dimostrazione della propria capacità di gestire e superare crisi, farebbe bene a scendere a patti con Taiwan, in tal modo dimostrandosi una potenza di pace, e distinguendosi dalla forsennata politica bellica seguita dagli Stati Uniti in questi ultimi decenni: una politica che, lungi dal rafforzarne la presenza sul piano internazionale, ha segnato l’inizio del tramonto della potenza americana. Sarebbe anche un modo per rafforzare il dialogo con l’Europa, nel momento in cui crescono le tensioni con gli USA.
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