Siamo di fronte al “tramonto del modello dominante della globalizzazione degli ultimi decenni” scrive Andrew Spannaus nell’indicare l’argomento centrale del suo volume di recente pubblicazione L’Amerca post-globale. Trump, il coronavirus, e il futuro (Mimesis, 192 pagine, 15,00 euro). Si tratta di una lettura degli eventi correnti svolta con encomiabile distacco e sobrietà, che la distinguono dal flusso di notizie tendenziose (o contro Trump o a favore di Trump, o per il populismo “sovranista” o per un globalismo dai contorni sfuggenti, ambigui, sfocati), che affollano i mass-media quando parlano di eventi attinenti all’evoluzione del ruolo degli Stati Uniti, forse non più centrale ma sempre rilevantissimo, nei rapporti internazionali.

Spannaus, riferendosi peraltro a notizie disponibili a chiunque segua quanto accade nel mondo, nota come con la presidenza Trump almeno alcuni degli obiettivi da questi dichiarati nel corso della sua tumultuosa campagna elettorale sono stati, almeno in parte, raggiunti.

In particolare per quanto attiene all’inversione di tendenza nella delocalizzazione degli impianti produttivi degli Stati Uniti a Paesi dell’America Latina, a partire dal Messico: tendenza favorita dall’accordo NAFTA (North America Free Trade Agreement) tra USA, Canada e Messico firmato da Bush padre nel gennaio 1994 e rivisto da Trump nei primi mesi del 2020. Quale sarà l’effetto del nuovo accordo USMCA (United States Mexico Canada) ratificato a inizi luglio 2020 è ancora da vedersi, ma certamente esso denota come il vento sia cambiato: oggi si favorisce il ritorno in patria delle aziende (“reshoring” invece dello “outsourcing”). Il NAFTA fu uno dei risultati della politica ultraliberista propagandata dalla Scuola di Chicago di Milton Friedman, abbracciata dal Presidente statunitense Ronald Reagan e dalla Premier britannica Margaret Thatcher negli anni ’80. È la politica che ha portato al trionfo della speculazione finanziaria a detrimento degli investimenti produttivi nell’industria e nelle infrastrutture.

La retorica dell’America First brandita come una clava da Trump, in particolare verso la Cina, già divenuta la “fabbrica del mondo” grazie ai prezzi competitivi della sua forza lavoro, ha incontrato il favore non solo di chi è stato vittima della contrazione produttiva registratasi in questi ultimi anni negli USA a seguito della delocalizzazione, ma alla fine anche di parti del mondo industriale che hanno conosciuto le difficoltà derivanti dai tempi e dai costi dei trasporti, in termini monetari e di inquinamento, impliciti in particolare nei traffici marittimi sempre più sostenuti che conseguono al realizzare produzioni a migliaia di chilometri dai mercati di diffusione dei prodotti.

La retorica trumpiana d’altro canto è giunta anche quando la Cina ormai aveva ottenuto un livello di sviluppo tale da poter far crescere il proprio mercato interno, operazione nella quale è impegnata in questi anni, forte non solo di quasi un miliardo e mezzo di potenziali consumatori, ma anche di un raggiunto livello di eccellenza tecnologica che la mette più o meno alla pari con le capacità produttive occidentali. Grazie a tale condizione, la Cina oggi può accettare che i produttori statunitensi se ne tornino a casa loro, o scelgano altri mercati vicini quali il Vietnam o l’India.

Quindi Trump sta “funzionando” per quanto attiene alla svolta da lui favorita di un ritorno al nazionalismo, non solo demagogico, ma volto a richiamare in patria attività produttive emigrate a discapito della forza lavoro americana.

A fronte di tale condizione, Spannaus ripercorre le varie tappe nell’ostilità verso Trump messa in campo da quel che si chiama usualmente “Deep State” e che, come tutte le etichette di largo consumo divenute di moda, stringi stringi è difficile da definirsi. Il caso più evidente è quello del cosiddetto Russiagate, l’idea che l’elezione di Trump sia stata favorita da ingerenze russe nella campagna presidenziale del 2016. Le lunghe indagini condotte dall’FBI e dal procuratore speciale Robert Muller sostanzialmente non hanno portato a provare nulla di concreto, ma hanno invece mostrato come in parti delle istituzioni statunitensi vi sia stata un’intenzione di ledere Trump. E lo stesso è avvenuto con la procedura di Impeachment tentata dal Partito Democratico sul caso delle pressioni esercitate da Trump sull’Ucraina per mettere in difficoltà il suo avversario Joe Biden.

Ma non è questo, che può apparire come una specie di “operazione verità” a favore di Trump, il centro del discorso impostato da Spannaus.

Esso giace piuttosto nel fatto che le circostanze attuali hanno portato a un cambiamento di paradigma nel modo in cui si considera e si imposta il discorso economico negli USA.

Non per merito di Trump, che al contrario coi suoi tagli fiscali non ha fatto che inasprire le differenze tra i ricchi e tutti gli altri e che, “fortunatamente per lui” dice Spannaus, non è riuscito, come avrebbe voluto, a cancellare l’Obamacare (il sistema di estensione dell’assistenza medica ai meno abbienti stabilito dal suo predecessore alla Casa Bianca) ma per via degli effetti della pandemia della Covid-19 e delle chiusure a questa conseguenti.

Gli USA, come peraltro tutti gli altri Paesi del mondo, si sono trovati di fronte a una crisi economica dai risvolti peggiori di quella del periodo 2007-2008. Per rispondere a questa condizione gli Stati Uniti hanno trovato la capacità di rinunciare alla politica di deregulation, che ha imperato da Reagan in poi con forza distruttiva, e dal marzo 2020 hanno approvato piani per iniettare nell’economia nazionale tremila miliardi di dollari (equivalenti al 14 percento del PIL) sulla base di accordi bipartitici.

Notiamo en passant che se il Deep State ha cercato il sbarrare la strada a un elemento decisamente fuori dalle righe e potenzialmente pericoloso come Trump (del resto furono ondate populiste non molto dissimili da quelle odierne che portarono al potere Mussolini in Italia nel 1922-24 e Hitler in Germania nel 1933: masse popolari impoverite e minacciate che cercavano brancolando nel buio un sostegno a fronte della pressione di classi dirigenti parassitiche e incapaci), con le votazioni bipartitiche per i pacchetti di finanziamenti anticrisi a Washigton DC è emerso un altro “Deep State”, quello volto a difendere gli interessi nazionali a fronte di una crisi dalle dimensioni assolutamente eccezionali.

“Vista dall’Italia – scrive Spannaus – l’idea di aumentare il debito pubblico del 14 percento del PIL in appena due mesi sembra un incubo”. Ma non è così. Negli USA il sistema istituzionale consente di generare crediti in un gioco di scambi tra Tesoro e Federal Reserve per cui la seconda acquista i titoli del primo in tal modo generando nuovi crediti da iniettare nel sistema bancario, ma senza che il debito così generato gravi su alcuno: è una “partita di giro” tra le istituzioni pubbliche. Una specie di volano grazie al quale si attiva la circolazione di moneta nell’economia.

Del resto la generazione di credito è sempre un atto volontaristico, frutto di decisioni di carattere politico. Che possono essere prese dalle istituzioni pubbliche, come avviene negli USA, o dalle istituzioni bancarie private, come avviene dagli anni Settanta sul mercato dell’Eurodollaro per esempio.

Negli USA, spiega Spannaus, “il debito pubblico non viene mai ripagato” per cui si limita a fungere da strumento per generare liquidità. La questione pertanto si trasferisce a questo: a che scopo viene utilizzata tale liquidità? Può essere immessa nei mercati speculativi e in questo caso non fa che aumentare il potere nominale a disposizione delle élite plutocratiche, e gonfiare nuove bolle speculative, o può essere fatta circolare in modo tale da generare lavoro e ricchezza tra le famiglie.

Oltre oceano c’è una lunga tradizione che risale alla Prima Banca Nazionale fondata da Alexander Hamilton per sanare la situazione debitoria presente nei neonati Stati Uniti a seguito della Guerra di Indipendenza di fine ‘700: una tradizione ripresa da Lincoln dopo la Guerra di Secessione del 1861-65 e poi da F.D. Rosevelt dopo la crisi del 1929. Si tratta di una politica economica dirigista: lo Stato genera credito e lo canalizza attraverso progetti rilevanti per la vita della società e in tal modo garantisce che questo non si tradurrà in ondate inflattive. Lo stesso fece J.F. Kenendy nell’indirizzare il Progetto Apollo alla “conquista” della Luna.

Insomma, negli Stati Uniti sanno come generare credito in modo tale da far funzionare l’economia. Sanno anche come usare il credito per distruggere l’economia, come avviene con le grandi e assurde imprese belliche condotte dal Vietnam in poi e come avviene con le ondate di deregolamentazione post-friedmanite e reaganiane.

Peraltro queste due tendenze per solito si confondono e intrecciano tra loro: ma resta che altro è il liberismo dirigista alla Hamilton, altro il liberismo liberista alla Friedman.

Oggi l’amministrazione Trump si è trovata nell’ironica situazione di esser guidata da un tizio che è la più tipica espressione della speculazione più selvaggia, a capo di un governo che tuttavia, per captare i voti della gente impoverita e per rispondere alla crisi della Covid-19, ha adottato politiche dirigiste, mentre già in precedenza per motivi puramente demagogici si era avviato sulla strada del protezionismo, peraltro da sempre a più riprese praticata dagli USA nel corso della loro storia.

È questa la condizione in cui gli aspetti deteriori del globalismo potrebbero essere rivisti per impostare una politica economica internazionale, che privilegi l’economia utile ai più, e non la futile finanza intesa a accentrare potere monetario nelle tasche di pochi.

Il libro di Spannaus ha il merito di porre questo problema, togliendo di mezzo la valanga di ciarle da bar di cui sono stati pieni i mass-media vecchi e nuovi nei mesi passati. Certamente la soluzione dovrà essere elaborata altrove, tra Washington DC e Bruxelles anzitutto.

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