La pandemia di Covid-19 ha mostrato l’inadeguatezza del sistema sanitario statunitense che, unito all’incompetenza e alle sottovalutazioni del presidente, ha precipitato gli USA in una crisi senza precedenti. Le dichiarazioni sconsiderate del “comandante in capo” hanno inoltre minato la credibilità della Casa Bianca, proprio nel momento in cui Pechino lancia una sfida globale per conquistare una posizione predominante nel mondo post emergenza.

Il prossimo 3 novembre gli elettori americani si recheranno alle urne per eleggere il loro quarantaseiesimo presidente, scegliendo tra il repubblicano Donald Trump e lo sfidante democratico Joe Biden. Quelle che, soltanto pochi mesi fa, sembravano elezioni come tante altre, con Trump favorito per una riconferma sulla spinta di un decennio di crescita economica, vengono ad assumere invece una valenza strategica fondamentale, perché la pandemia di coronavirus ha creato una situazione senza precedenti in cui molti nodi giungono al pettine e viene ridefinita la situazione internazionale. La dirigenza cinese, che non deve confrontarsi con l’opinione pubblica e non ha i lacci e lacciuoli delle democrazie, ha lanciato una spudorata offensiva per guadagnare vantaggi strategici, nonostante il fatto incontestabile che l’epidemia è partita proprio da Wuhan, mentre Trump non fa che inanellare una gaffe dopo l’altra.

L’indebolimento del soft power degli USA

Diversi analisti africani hanno pronosticato con sicumera che la Cina emergerà dalla crisi come la potenza di riferimento, tradendo però un errore di prospettiva perché Pechino, vista l’inconsistenza dell’Europa e il disinteresse degli Stati Uniti, è già la nazione egemone in Africa, ma non si può certo dire lo stesso per il resto del mondo. Il vero problema, tragico nella sua essenza, è che il quadriennio di Trump ha inferto un colpo potenzialmente letale a quella che è la principale risorsa americana nel mondo e che non è rappresentata da un esercito poderoso e modernissimo e dalla imbattibile innovazione tecnologica. I politologi lo chiamano soft power e rappresenta il fascino e l’influenza esercitata da un Paese, non tramite l’economia, la politica diplomatica e militare, ma grazie alla cultura e all’immagine positiva che riesce a proiettare di sé.

Il 4 e 5 giugno 1944 le truppe americane che hanno liberato Roma sfilano davanti al Colosseo.

L’operazione iniziò nel 1945, quando le truppe americane e britanniche sconfissero il nazismo e liberarono l’Europa, salutate da milioni di cittadini che si riversarono festanti nelle strade. Cioccolata, gomma da masticare, cibo in scatola per gli europei affamati fecero il miracolo, a cui si aggiunsero il jazz e un cinema che popolarizzò il “sogno americano”. Il consolidamento della strategia avvenne grazie ai fondi del Piano Marshall che diedero avvio alla ricostruzione dell’Europa distrutta dalla guerra e fecero degli Stati Uniti il sicuro punto di riferimento del nostro continente. Da allora, tutti i presidenti americani hanno intrattenuto relazioni cordiali e fruttuose con l’Europa, con alti e bassi, tensioni e riappacificazioni ma, sostanzialmente, con mutuo rispetto e vantaggio.

L’attuale amministrazione rappresenta una rottura repentina di una tradizione di molti decenni. Ricordiamo che la prima visita ufficiale di Trump (che fornisce una chiara indicazione strategica) è stata in Arabia Saudita, che non ha alcuna affinità storica o culturale con la democrazia americana. L’Europa è stata subito messa sotto pressione per aumentare le spese militari, con i toni che si usano per una sguattera che non pulisce adeguatamente i pavimenti, è stata minacciata di dazi pesantissimi per settori cruciali come quello automobilistico e per le produzioni alimentari di qualità. Trump pensa che battere i pugni sul tavolo e proferire minacce pesanti sia una strategia vincente, ma non si rende conto che gli alleati non si possono trattare in questo mondo e mentre lui alza la voce la Turchia, una pedina fondamentale della NATO, compra armamenti dal nemico russo, finanzia e protegge milizie islamiche fondamentaliste e fa una propria politica in Siria e Libia. C’è un istituto internazionale che analizza di anno in anno il soft power e per il 2019 la classifica vede al primo posto la Francia, seguita da Regno Unito, Germania, Svezia e, infine, Stati Uniti. L’Italia è undicesima, dopo l’Olanda e prima della Norvegia, mentre la Cina è ventisettesima.

L’altra faccia del sogno americano

La scarsa simpatia che Trump raccoglie a livello internazionale si somma a una serie di carenze infrastrutturali americane che sono cresciute a dismisura, soprattutto dopo i due mandati di Ronald Reagan (1981-1989) che con la sua deregolamentazione economica ha gettato le basi della crisi finanziaria del 2008, dilagata poi in tutto il mondo. Trilussa ci ha spiegato in un suo famosissimo sonetto la realtà della statistica (tu mangi due polli, io nemmeno uno, ma la media fa un pollo a testa) che gli Stati Uniti hanno imparato magistralmente ad applicare alla loro situazione economica, diventando veri maestri nell’arte di imbellettare una realtà sgradita. La teoria, applicata da Reagan in poi, postula che se riduci le tasse ai ricchi questi faranno grandi investimenti, creando una ricchezza che ricadrà anche sulle classi meno abbienti e per comprovare questo fatto vengono presentati dati su un’occupazione mai così alta. Se però si analizzano le tipologie dei nuovi lavori, si vede che sono temporanei e mal pagati, tanto che ormai esiste una classe sociale denominata working poor, persone che lavorano ma hanno salari talmente bassi da non essere sufficienti per vivere dignitosamente. Dietro le roboanti dichiarazioni di un’America mai forte come adesso si vede, purtroppo, che le grandi metropoli sono circondate dagli insediamenti dei nuovi poveri, finiti in strada perché non riescono più a pagare l’affitto.

Un accampamento di senzatetto a Eugene in Oregon, che ospita persone dimenticate dal grande sogno americano.

C’è un dato inoppugnabile che ci fa capire come lo sfavillio della Silicon Valley copra carenze infrastrutturali inconcepibili per un Paese moderno. Gli Stati Uniti, che hanno puntato tutto sul trasporto aereo, hanno un rete ferroviaria lenta e obsolescente. Nel Paese sono ancora in servizio dei vecchi Pendolini prodotti dalla Fiat ferroviaria, che oscillano paurosamente su binari sconnessi e, soltanto nei tratti migliori, raggiungono i 200 chilometri all’ora. Gli acquedotti sono fatiscenti e inadeguati tanto che nel 2014 hanno reso possibile la tragedia di Flint, una città industriale del Michigan dove 30.000  bambini hanno subito danni neurologici bevendo acqua inquinata da piombo. In pratica, per risparmiare sui costi, l’amministrazione cittadina aveva deciso di prendere l’acqua dal fiume Flint, anziché dal lago Huron, come si faceva prima. Il problema era che il Flint era inquinatissimo e non adeguatamente depurato.

La pandemia di Covid-19 ha mostrato come il sistema sanitario americano abbia delle falle enormi, che lasciano senza nessuna copertura decine di milioni di persone, e un costo molto più elevato di quello dei Paesi più avanzati. Ci sono poi dei dati che gettano un’ombra preoccupante su tutto il sistema, incluso quello della sicurezza. Secondo il Center for Disease Control and Prevention di Atlanta, l’agenzia federale che vigila sullo stato di salute della popolazione, il 40% degli adulti e il 20% dei bambini sono obesi. Incredibilmente, le cose non vanno molto meglio nell’esercito (17,4% di obesi), nell’aviazione (18,1%) e nella marina il tasso di obesi arriva addirittura al 22%. C’è poi la gravissima situazione dei costi esorbitanti dell’università che costringono gli studenti a indebitarsi per tutta la vita. L’elenco potrebbe proseguire ancora, ma qui basta ricordare che gli Stati Uniti sono l’unico Paese sviluppato in cui le aspettative di vita diminuiscono, invece di crescere. Di fronte a tante emergenze da affrontare, Trump ha scelto di ridurre ulteriormente le tasse ai ricchi, facendo salire a dismisura l’indebitamento federale, una follia in un periodo di crescita economica.

Lo scontro per l’egemonia mondiale dopo la pandemia

Il dibattito sulla fine dell’impero americano ferve da molti anni ma, nonostante Trump, il rapporto di forza è ancora a favore degli Stati Uniti anche se ci sono due aree strategiche, come lo sviluppo del 5G e gli investimenti nel settore aerospaziale, in cui gli USA arrancano faticosamente. Non c’è dubbio che sia l’economia americana che quella cinese saranno pesantemente colpite dall’impatto della pandemia ma in modo asimmetrico, perché, mentre la Cina ha un mercato interno ridotto e punta essenzialmente sulle esportazioni, gli USA possono invece collocare la loro produzione nel Paese il che consente loro di affrontare la crisi appena esplosa da una posizione di forza. Inoltre, negli ultimi anni gli Stati Uniti si sono trasformati da importatore a esportatore di energia; la Cina, invece, è costretta a grandi importazioni energetiche passando attraverso il Golfo persico e l’Oceano indiano, dove l’America gode di una solida supremazia navale.

Il presidente cinese (ma sarebbe più corretto definirlo imperatore) Xi Jinping non fa più mistero delle aspirazioni di Pechino a diventare la potenza egemone globale, scalzando gli USA. La Cina ha fatto passi giganteschi nel settore delle alte tecnologie, ma rimane ancora inferiore per quanto riguarda la potenza militare.

Ci sono poi degli indiscussi vantaggi geopolitici che non saranno nemmeno scalfiti dalla pandemia e il primo è certamente la geografia. Gli Stati Uniti confinano con l’oceano e con Paesi amici, a differenza della Cina che ha dispute territoriali con Brunei, India, Indonesia, Giappone, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam. Un secondo fattore da prendere in considerazione è la dinamica demografica. Secondo uno studio messo a punto dall’Università di Stanford, nei prossimi quindici anni la forza lavoro statunitense dovrebbe probabilmente crescere del 5%, al contrario di quella cinese, per cui è prevista una contrazione del 9%, principalmente a causa della politica del figlio unico perseguita fino al 2013. Oltre ad una superiorità militare e marittima che non sarà intaccata ancora per molti anni, la potenza industriale americana può contare su settori molto avanzati come le biotecnologie, le nanotecnologie e lo sviluppo dell’informatica.

Dopo la fine della pandemia la posizione geografica degli Stati Uniti rimarrà immutata, ma è

La scoperta dell’America spostò l’asse economico verso l’Atlantico innescando il lento processo di declino della Repubblica di Venezia. Nella foto, il Palazzo ducale da dove venivano prese tutte le decisioni.

difficile prevedere come i rapporti strategici potrebbero essere modificati da altri quattro anni di presidenza Trump che tra qualche mese dovrà affrontare un avversario evanescente e con programmi poco incisivi come Joe Biden. Qualche osservatore si illude che l’attuale presidente sia un irriducibile avversario della Cina che, nelle loro aspettative, potrebbe sperare nell’elezione del candidato democratico. Guardiamo però la situazione con gli occhi della dirigenza di Pechino, sciovinisticamente orgogliosa della propria cultura millenaria, e chiediamoci: voi avreste paura di un “comandate in capo” che in un discorso ufficiale alla Casa Bianca propone di combattere il coronavirus lavando i polmoni col disinfettante? In questo contesto, l’Europa si ritrova nella stessa situazione della Repubblica di Venezia dopo che il viaggio di Colombo aveva spostato l’asse economico mondiale dal Mediterraneo all’Atlantico. La Serenissima non scomparve immediatamente ma il 1492 segnò l’inizio della fine. L’asse politico ed economico internazionale si sta muovendo verso il Pacifico. L’Europa saprà reinventarsi un ruolo e una strategia che non sia di sopravvivenza tra i due giganti che si stanno affrontando oggi?

di Galliano Maria Speri

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