Siamo entrati nel secondo anno del conflitto e appare sempre più chiaro il fatto che la Russia non è in grado di vincere militarmente. Gli Stati Uniti e l’Europa forniscono ancora un grande sostegno a Kyiv, ma è ormai evidente che non è stata messa a punto un’adeguata visione politica per una pace futura. Chi invoca la sconfitta della Russia sul campo non tiene conto che un potenziale sgretolamento dell’impero rischia di mettere nelle mani di avventurieri indipendentisti il più grande arsenale nucleare del mondo. Il pericolo dello spostamento a Est dell’asse europeo.
Molti anni fa, quando l’allora vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden incontrò faccia a faccia Vladimir Putin, gli disse: “Ti guardo negli occhi e penso che non hai un’anima”. Secondo Biden, Putin rispose gelido: “Vedo che ci capiamo”. Purtroppo per lo zar, l’aura del freddo stratega che persegue e ottiene tutti i suoi obiettivi l’ha definitivamente abbandonato. L’invasione, che con i suoi tragici costi umani non voleva certo essere un bluff, ha evidenziato tre gravissimi errori di valutazione di Putin che hanno infranto il suo mito di condottiero invincibile. Lo zar del Cremlino si è illuso sulla potenza e l’efficacia dell’esercito russo, ha sottovalutato lo spirito patriottico ucraino nel resistere all’invasore e non ha previsto l’unità e la tenuta dell’Occidente nell’appoggiare compattamente Kyiv.
Le vittime
L’inadeguatezza del piano di invasione si manifesta immediatamente la mattina stessa del 24 febbraio 2022, quando una trentina di elicotteri russi arrivano all’aeroporto di Hostomel, circa 40 chilometri a nord di Kyiv, per prenderne il controllo e usarlo come base per colpire al cuore i palazzi del potere, uccidere o catturare il presidente Zelensky e installare a suo posto un governo fedele a Mosca. Ma non sanno che l’intelligence americana ha preavvisato gli ucraini che li stanno aspettando e ne fanno strage, colpendo anche degli Antonov, i cargo più grandi del mondo. Un colonnello dell’antiaerea ricorda che “siamo stati noi, armati di missili terra aria statunitensi Javelin e britannici Nlaw ad annientare i paracadutisti russi. Il peggio per loro è stato quando siamo riusciti ad abbattere tre Iliuscin-76 con a bordo il meglio delle teste di cuoio, circa 600. In pochi minuti, Putin si è visto distruggere il fior fiore del suo corpo d’invasione”.
In effetti, il costo umano è altissimo perché da guerra lampo la “operazione speciale” di Putin si è trasformata in una guerra di posizione, con attacchi sul terreno scoperto seguiti da precipitose ritirate, simili a quelli della Prima guerra mondiale e altrettanto micidiali. Si stima che tra morti, feriti e dispersi, le perdite russe si aggirino intorno a 200mila, mentre quelle ucraine sono circa la metà, a cui dobbiamo però aggiungere circa 50.000 vittime civili. È la popolazione ucraina a pagare il prezzo più alto, non solo perché costretta alla fame e al freddo, ma anche perché, visti gli insuccessi militari, Putin ha deciso di vendicarsi e fiaccare il morale della nazione con una mirata politica di distruzione delle infrastrutture, soprattutto quelle sanitarie.
La prestigiosa rivista medica britannica The Lancet riferisce in un rapporto del 24 febbraio 2023 che a fine dicembre dello scorso anno erano stati documentati 707 attacchi a ospedali, cliniche, farmacie, centri per le trasfusioni di sangue, cliniche dentali, istituti di ricerca ma anche ambulanze e personale medico e infermieristico. L’ospedale generale di Lugansk è stato colpito dieci volte tra il marzo e il maggio del 2022. Testimoni oculari hanno riferito che è stato fatto uso di droni per preparare il bombardamento che, essendo stato ripetuto diverse volte, non può certo essere definito un incidente. Secondo il ministero della Salute ucraino dall’invasione c’è stato un crollo nelle vaccinazioni, soprattutto quelle infantili, e questo fa temere che possa esserci una nuova ondata di poliomelite, morbillo, difterite e altre malattie.
Come ne usciamo?
Dopo esitazioni e tentennamenti, Stati Uniti ed Europa hanno aperto la discussione sull’invio di armi più potenti e con gittata maggiore. Sia gli USA che la Germania hanno deciso di mettere a disposizione i propri carri armati e anche il dibattito sulla fornitura degli aerei ha ripreso vigore. Washington ha escluso di poter fornire all’Ucraina i propri caccia F-16, ma non è detto che altri Paesi della NATO non lo facciano, per cui ben presto verrà infranto un altro tabù. L’Ucraina sta ottenendo successi sul campo non soltanto perché gli armamenti occidentali si sono dimostrati superiori a quelli russi, ma anche perché ha un esercito più motivato e flessibile, una mentalità operativa più aperta e moderna. Un esempio di questa novità è rappresentato da Mychajlo Fedorov, vicepremier e ministro della Trasformazione digitale dell’Ucraina, che è a capo di uno degli eserciti cibernetici più forti al mondo. Con il sostegno di Zelensky, Fedorov, startupper di 32 anni prestato alla politica, è riuscito a superare le esitazioni della vecchia guardia e ha elaborato una strategia basata su droni, comunicazioni, immagini satellitari e intelligenza artificiale. I risultati sul campo sono stati straordinari. Ma neppure l’Ucraina può illudersi di poter sconfiggere i russi con la sola strategia militare.
Finora Biden, che ha appena annunciato la sua intenzione di ricandidarsi alle prossime elezioni, è riuscito a tenere insieme il fronte occidentale e ha strappato al Congresso (con la Camera controllata dai repubblicani) un voto favorevole al sostegno economico e militare a Kyiv. Questo obiettivo è stato centrato non solo grazie alla cinquantennale esperienza politica, ma anche perché l’attuale presidente può considerarsi un veterano nelle relazioni con l’Ucraina visto che dopo l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014 è lui che viene inviato a Kyiv per salvare il salvabile, consigliare un governo inefficiente e corrotto e seguire la riorganizzazione dell’esercito su basi tecnologicamente innovative, con un addestramento moderno fornito degli Stati Uniti. L’anziano Biden sembra essere la persona giusta nel posto giusto, per la sua conoscenza pregressa e perché la sua prudenza può rivelarsi molto utile in un contesto altamente volatile come l’attuale.
Se è chiaro che l’obiettivo di Washington è quello di contenere l’espansionismo imperiale di Mosca, rimane nebulosa la visione di come riorganizzare le relazioni internazionali, si spera pacifiche, che usciranno da questo conflitto. Come associare la Cina, potenza emergente e seconda economia mondiale, al disegno di pacificazione; come favorire lo sviluppo di forze più liberali in una Russia post-putiniana; come gestire i rapporti con la Turchia, baluardo orientale della NATO ma anche giocatore in proprio che, in più di un’occasione, ha sfidato gli Stati Uniti e l’Europa; come intervenire politicamente in Africa e America Latina che sono rimasti alla finestra nel più pericoloso conflitto che ha insanguinato l’Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Se discutere di aumentare la produzione militare per le necessità belliche ucraine è tutto quello che l’Occidente riesce fare, rischiamo di riportare indietro la storia di settant’anni.
L’ambasciatore Sergio Romano ha giustamente osservato che quella che si combatte per l’Ucraina è una guerra europea e ci dovremmo chiedere quali conseguenze i suoi risultati avranno sul futuro del nostro continente. Con l’invasione del 24 febbraio 2022 Putin si è rivelato un vero e proprio apprendista stregone che, senza averlo calcolato, ha messo in moto un processo di cui ha perso il controllo, non solo dal punto di vista militare. In breve tempo è riuscito a modificare drammaticamente il solido legame che legava Russia e Germania (qualche analista era arrivato a parlare di Gerussia) che vedeva il proficuo scambio di tecnologia contro materie prime a basso prezzo. La NATO è risorta dalle sue ceneri, allargandosi a Finlandia e Svezia, e gli Stati Uniti sono tornati a giocare un’influenza determinante in Europa, come ai tempi della Guerra fredda. Decine di migliaia di tecnici, giovani e preparati, sono fuggiti dalla Russia per paura di essere chiamati a combattere ma anche perché hanno una mentalità più aperta al mondo e non riescono a riconoscersi in un Paese che torna a identificarsi con gli slogan della Grande guerra patriottica (la Seconda guerra mondiale nella versione russa).
Come ha ampiamente mostrato la crisi energetica, l’Europa è il continente che corre i rischi maggiori in questo conflitto e subisce direttamente il massiccio afflusso di profughi dall’Ucraina. Eppure, l’Europa si è rivelata debolissima e priva di quelle strutture operative che le consentirebbero di agire in modo politicamente indipendente. Nel caso della pandemia di Covid-19 Bruxelles ha saputo mostrare coraggio e determinazione, mentre l’invasione dell’Ucraina ha messo a nudo la sua sostanziale impotenza politica, che ha radici e cause molto lontane che non possono certamente essere imputate alla dirigenza attuale. Inoltre, si è purtroppo evidenziata una sostanziale spaccatura tra i Paesi fondatori e quelli appartenenti all’ex blocco comunista. Il presidente francese Macron, l’unico capo di Stato che ha cercato di formulare una linea politica, proponendo che la UE diventasse una specie di NATO europea, è sostanzialmente isolato. Per decenni, la locomotiva dell’Europa è stato l’asse franco-tedesco che, per ora, sembra giunto al capolinea, mentre sta crescendo l’influenza della Polonia e dei Paesi baltici.
Se l’asse dell’Europa si sposta a Est
La chiesa della Santa croce, nel centro storico di Varsavia, ospita in una nicchia il cuore di Fryderyk Chopin, il cui corpo riposa nel cimitero parigino di Père Lachaise. Chopin, gigante della musica della prima metà dell’Ottocento, è un mito e un orgoglio per la Polonia che lo venera come un santo. Chopin è certamente polacco, anche se trascorse metà della propria vita in esilio in Francia, fuggendo dall’amata Polonia allora sotto occupazione zarista. Ma era un polacco di formazione europea, le cui due stelle polari furono Bach e l’opera italiana. La grande cultura europea non può essere nazionalista, né alcun Paese europeo può aspirare a divenire, da solo, il motore del continente. È un fatto innegabile che Varsavia, a causa dell’invasione dell’Ucraina, sta assumendo un ruolo di primo piano nella crisi, come fornitore di armamenti, paese d’asilo per i profughi e portavoce di un gruppo di ex membri del blocco comunista che, per motivi storici, hanno una sensibilità sociale e politica influenzata da quasi cinquant’anni di dominio sovietico.
Il 20 febbraio 2023 Joe Biden ha fatto una visita a sorpresa a Kyiv, dove ha confermato di persona il sostegno alla causa ucraina. Dopo aver incontrato Zelensky, il presidente USA si è recato a Varsavia (e non a Bruxelles), dando un riconoscimento esplicito al ruolo e all’impegno della Polonia nella crisi ucraina. Ma, ben prima dell’invasione, la linea politica di Varsavia si differenziava da quella dell’Europa sulla questione dei migranti, sui diritti civili, sulla libertà di stampa, sull’indipendenza della magistratura dal potere politico. Nel momento in cui l’asse franco-tedesco sembra in stallo (anche per la pochezza finora dimostrata dal Cancelliere tedesco), Varsavia diventa il punto di riferimento degli Stati Uniti che vedono nel Paese un alleato fedele e in sintonia con i loro interessi. I polacchi non hanno dimenticato l’aiuto americano per la nascita del sindacato Solidarność, fattore cruciale per innescare la lotta di liberazione dall’oppressione sovietica, e per tale ragione sembra che la loro lealtà politica sia rivolta più verso gli Stati Uniti che verso l’Europa. L’impressione è che Varsavia abbia usato la UE come un menu à la carte, prendendo le cose vantaggiose (i fondi per le aree sottosviluppate, ad esempio) e rifiutando quelle sgradite (i migranti extra-europei).
Nell’attuale contesto strategico Polonia e Paesi baltici, che si trovano sulla linea del fronte, sono giustamente preoccupati per le conseguenze che potrebbero pagare, e questo deve essere un problema di tutti, ma la UE non può sposare tout court la posizione polacca che pecca di una rigidità pregiudiziale verso Mosca. Non è solo la storia che deve portarci a ricreare un rapporto con la Russia, ma anche la geografia. L’Unione Europea non può appiattirsi sulla posizione statunitense, visto che il nostro continente è quello che sta pagando le conseguenze peggiori del conflitto e corre i rischi maggiori. Purtroppo, l’Europa ha confermato ancora una volta la sua totale inconsistenza politica e rimane tristemente muta.
È già cominciata la lotta per il potere?
Quando leggiamo i titoli allarmistici sul richiamo di centinaia di migliaia di riservisti russi dovremmo riflettere che, finora, la mobilitazione militare è avvenuta su basi etniche e che la stragrande maggioranza dei caduti si è avuta tra i soldati provenienti delle lontane regioni orientali e settentrionali. Sono ancora poche le madri di Mosca e San Pietroburgo che piangono i loro figli ma, certo, il risentimento nelle aree della Siberia e dell’oriente russo comincia a salire sordamente. Qualcosa comincia a muoversi nel panorama congelato dell’impero. Parlando con Paolo Valentino del Corriere della Sera, un autorevole osservatore come l’ex Primo ministro svedese Karl Bildt si dice convinto che “le élite russe stiano già discretamente sondando le possibilità offerte dal dopo-Putin”. L’aperto dissidio che esiste tra la gerarchia militare ufficiale e personaggi come il sanguinario capo delle milizie cecene Ramzan Khadyrov o il fondatore del gruppo Wagner Evgenij Prigozhin è finito da tempo sui giornali.
Il fatto nuovo è che Prigozhin, uno degli uomini più potenti e temuti della Russia, non viene più riportato dalla stampa fedele al regime. Lui continua ad attaccare ferocemente il ministro della Difesa Sergey Shoigu ma la TV ufficiale lo ignora, come fanno tutti gli altri media. All’interno di Russia Unita, il partito creato da Putin, comincia a serpeggiare il timore che siano gli ultranazionalisti fautori della guerra a oltranza il pericolo maggiore per il Cremlino, gli unici in grado di insidiare il potere dello zar. Diversi analisti hanno cominciato a chiedersi se la caduta di Putin possa innescare una lotta tra potentati che conducano alla dissoluzione della Russia come la conosciamo. Il processo è cominciato agli inizi degli anni ’90 del secolo scorso, con il crollo del comunismo e la nascita di innumerevoli Stati indipendenti. Ha subìto una battuta d’arresto con la concentrazione del potere nelle mani di Putin ma, in caso di una sua caduta, la frammentazione potrebbe rimettersi in moto.
Se è perfettamente comprensibile che Zelensky parli di una vittoria militare dell’Ucraina, i sostenitori occidentali dell’offensiva contro la Russia fino al trionfo finale dovrebbero ricordare la storia dell’eredità degli armamenti nucleari alla caduta dell’Unione Sovietica. Con la fine dell’URSS le armi nucleari rimasero nelle mani di Russia, Ucraina, Bielorussia e Kazakistan e, dopo laboriosi negoziati a cui parteciparono anche gli Stati Uniti, finirono sotto il controllo della sola Russia. Con il senno di poi, alcuni esperti ucraini hanno notato che se Kyiv non avesse consegnato a Mosca il proprio armamento nucleare Putin non avrebbe mai rischiato l’invasione. Questo significa che in caso di lotte interne e nascita di nuove entità indipendenti queste faranno di tutto per mantenere gli armamenti nucleari presenti sul territorio, in modo da usarli come assicurazione sulla vita, e il caso della Corea del Nord lo dimostra ampiamente. Forse sarebbe il caso di rivalutare un personaggio come Dwight D. Eisenhower uno che, a differenza di Putin, il nazismo lo aveva combattuto e sconfitto sul serio, quando diceva di temere una vittoria del comunismo ma, ancora di più, un suo collasso incontrollato.
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