Di Corrado Gavinelli
È morta nella primavera 2016 (il 31 Marzo) di infarto, a Miami, la sessantacinquenne progettista inglese di origine iraqena (e non iraniana come a volte erroneamente viene indicata) Zaha Hadid. Ha lasciato opere importanti in Italia e unmancato desiderio propositivo per Torino.
Da tempo nota per i suoi disegni e progetti tipicamente decostruttivisti (composti con estrose e fantasiose evoluzioni formali al limite del possibile) Zaha Hadid, che per anni è stata soltanto una infaticabile propositrice grafica, ed espositrice costante dei propri lavori architettonici in manifestazioni e mostre internazionali, ma scarsamente gratificata dal concreto successo costruttivo (tanto che ancora nel 2013, in una intervista al giornale londinese The Guardian, si lamentava – con evidente sconforto per gli innumerevoli dinieghi, e titubanze, cambiamenti, sospensioni, ritiri – di tale condizione professionale, con queste poche ma specifiche parole: “Vorrei iniziare a vedere le mie opere non solo sulla carta”.
Le prime costruzioni
Tale astinenza attuativa è durata fino a quando due prestigiosi enti internazionali, l’istituzione municipale berlinese per le case popolari (IBA) e la rinomata società vizzera Vitra di produzione di mobilio di interni con sede a Basilea, non le hanno commissionato – mecenatamente, e comunque ad una decina di anni di distanza l’una dall’altra – le prime architetture realizzate: nel caso iniziale, col Caseggiato Residenziale (adesso Edificio Degewo) a Berlino del 1986-93, la progettista ha elaborato una ancòra moderata – e con una leggera scomposizione formale delle pareti plasmate a lievi incurvature – deformazione edilizia, mentre nella invece più intensamente scombinata, con decise superfici smembrate in piani spigolosi come se fossero esplosi e in deflagrazione, Caserma dei Pompieri della sede industriale vitrana, eseguita nel 1991-93/94 a Wheil sul Reno (vicino alle altrettanto conosciutissimi – per le eclatanti architetture che la caratterizzano – Fabbrica di Mobili e Museo dei prodotti, affidati alla mano scompositrice di Frank Gehry, il maestro della scult-architettura decostruente e plasticamente deformata, divenuto famoso per il fantastico Museo Guggenheim a Bilbao) la giovane architetta ha potuto attuare finalmente la propria prima architettura esplicitamente decostruita.
Rispetto alle ultime e più complesse opere recenti, l’edificio hadidiano della Vitra, semplice e minimale, solamente scombinato dalla scatola parallelepipedica costitutiva di partenza con distorisioni diagonali che rendono acuti e maggiormente appuntiti gli angoli retti, collassando quindi figurativamente anche pareti e soffitti, ha inaugurato una fortunata progressione attuativa che ormai si credeva difficilmente ripetibile, e che invece ha visto lo sviluppo, e l’espansione, di molteplici esemplari di realizzazioni architettoniche ulteriori, in quella caratteristica versione (tipica della autrice) tormentata (visivamente e fisicamente) nella rappresentazione visiva che – nel mondo – dagli Anni Sessanta del Novecento ha costituito il Decostruttivismo (criterio progettuale di una insistita espressione esteriormente evidenziata di corpi edilizi scomposti, rovinati, accatastati casualmente, angolati o curvilinei ma di complicata articolazione strutturale).
Le opere italiane
L’esempio più noto del lavoro decostruttivo della Hadid che la progettista ha realizzato in Italia è indubbiamente il Museo Nazionale delle Arti del XXI Secolo (MAXXI) a Roma, eseguito dal 2003 al 2010 – su progetto del 1998/99 – con imponenti forme dalle volumetrie distorte e sghembe, ed altrettanti spazi interni scomposti e dilatati, come già altri organismi museali contemporanei (del già citato Gehry, di Daniel Libeskind, di Peter Eisenman, ma già anche di Hans Hollein) avevano audacemente proposto, per ambienti diversificati nelle stereometrie e nelle altezze, in opposizione decisa alla più consueta tradizione espositiva che da secoli procedeva con infinite infilate di stanze continue o attigue, monotone e fruitivamente pesanti, sostituendole invece con più eccitanti ambientazioni planimetriche e sorprendenti percorsi.
Sempre su suolo italiano, a Milano e dintorni la Hadid ha potuto progettare (e costruire in parte, perché alcuni lavori non sono ancòra stati finiti) due altre opere significative, entrambe nel contesto della proposta – effettuata con altri architetti – per la riqualificazione dell’area della Fiera Campionaria tra Rho e Pero (con retorico eufemismo chiamata inglesemente CityLife) elaborata nel 2004 ma iniziata nel 2007 e prevista conclusa per il 2014 (e invece rinviata al 2018): si tratta, per l’edificio hadidiano di maggiore imponenza, di uno dei tre grattacieli – quello definito Torre Storta, per distinguerlo dalle altre costruzioni alte disegnate da Libeskind ed Arata Isozaki, rispettivamente le torri Curva e Dritta – cominciato nel 2014 e sempre in esecuzione; mentre il secondo lavoro riguarda le massicce Residenze Vita (adesso ribattezzate Hadid, partite nel 2009 e da consegnare entro il 2013, e però concluse tre anni dopo, proprio nel 2016), definite nell’aspetto di corpulenti palazzoni orizzontalmente distesi su piani lunghi che paiono compressi e leggermente collassati tra loro, e però mossi con lievi ondulature diseguali (e l’astuto espediente dell’uso contrastato di materiali molto diversi: cemento e legno) lungo le balconate sulle pareti perimetrali.
Per l’Italia inoltre – e non soltanto in conseguenza dello strepitoso successo romano del Maxxi, perché certi incarichi sono pervenuti contemporaneamente o poco prima – parecchie committenze esecutive sono progressivamente arrivate all’architetta iraqo-britannica: a Salerno, con la Stazione Marittima (1999/2000-2005/2009-2016) dall’ondosa tettoia a mantello cetaceo, costituita da una ampiamente estesa carcassa conchigliare piana leggermente inflessa (impiegando forme fluttuanti tutte ricordanti il mare e la sua ondosità); a Napoli, per la Stazione Ferroviaria di Afragola (2003-2012/2014-2015, ancòra da compiere tra 2017 e 2018), anch’essa distesa copertura levitata però non continua, e spezzata poliedricamente, frammentata inoltre da forature e deviazioni diagonali disassate; il Museo Bètile per l’Arte Nuragica e Contemporanea a Cagliari (progettato nel 2006/2008 e in fase di attuazione, per vederlo eseguito entro il 2019, quando il capoluogo sardo sarà Capitale Europea), il cui modello progettuale assomiglia a un candido iceberg isolato, in discioglimento; a Reggio Calabria, con il Centro Multiplo Regium (dal nome latino della città, anticamente alleata dei Romani) esposto sul Fronte Portuale, magnifico progetto (del 2007, rivisto nel 2011) con masse ondulate di autentica plasmazione scult-architettonica (deliberato nel 2013 eppure interrotto perché il Comune lo ha ritenuto intervento “non prioritario”); e quindi a Jesolo, per il Centro Magica (proposto nel 2009/12 e da approntare per il 2014) definito la Nuova Venezia per la propria ampia opportunità di attività terziarie commerciali e di divertimento, contenute in un fantastico impasto di morfologie plastiche assimilabile a un piccolo monile di gioielleria ingigantito (che ancòra nel 2015 doveva aprire il cantiere ma di cui nulla adesso si sa sulla effettiva sua costruzione); e infine a Plan de Corones nel Sud-Tirolo, per il curioso Museo della Montagna Messner (MMM), disegnato nel 2010/11 ed eseguito (questa volta fortunatamente) dal 2013 al 2014/15 (come previsto), nella sua particolare forma di massicce scocche squadrate dagli angoli tondeggianti chiuse a vetrata totale e rivolte sul paesaggio circostante in un incastonamento plurimo di distinti volumi uscenti dalla terra.
Di tutti gli incarichi italiani ricevuti, l’architetta Zaha è stata ovviamente entusiasta; eppure, come sempre per le avversità procedurali (è un aspetto, questo, che anche Mario Botta, anni fa a Mendrisio, mi aveva amaramente indicato quale pessima condizione di operatività attuativa della nostra nazione) anche molto dispiaciuta; perché – come ha dichiarato nel 2014 al giornale Il Sole 24 Ore – era “fortemente delusa dell’Italia. In questo Paese tutto va per le lunghe. Ho decine di cantieri aperti e non riusciamo a concludere niente”: come sovente è stato nel destino costruttivo della progettista, ma anche di altri autori stranieri (che adesso tocca anche allo statunitense Eisenman subire nella sua nuova, e bloccata nel proprio proseguimento, Residenza CarloErba a Città-Studi di Milano).
Le opere che più hanno tormentato l’autrice per le lungaggini relizzative sono state le due stazioni – marittima e ferroviaria – della Campania: la prima, richiesta dalla municipalità già nel 1993, viene progettata nel 1999-2000, ma il cantiere restò fermo fino al 2005; finalmente la sua esecuzione riesce a giungere al 2009, interrompendosi tuttavia nuovamente, e concludendosi nel 2016 con una autoritaria ingiunzione accelerante per farla finire; la seconda, presentata al Municipio nel 2003, doveva terminare nel 2008, ma venne prolungata al 2011, e arrestata quindi definitivamente – incompiuta per la solita mancanza di fondi – l’anno successivo (venendo quindi ripresa nel 2015 tramite un apposito bando speciale, che riprese i lavori e li ha promessi concludibili tra il 2017 ed 2018).
Per Torino
Ma tre le opere che la Hadid avrebbe voluto realizzare ancòra sul suolo italiano (e questo è un desiderio che pochi conoscono o si sono occupati di riportare compiutamente; e giustamente), e torinese in particolare, è stata una sorta di utopia riplasmatrice sul favoloso edificio della FIAT al Lingotto (capolavoro architettonico-tecnico dell’ingegnere Giacomo Mattè Trucco eseguito dal 1915/16 al 1928/30) che Renzo Piano stava ristrutturando (progetto preparato nel 1982-85 e concluso nel 2003) e di cui all’epoca Zaha era a conoscenza, ritrovandosi impegnata nella attuazione dell’ultima fase di quella complessa elaborazione di un altro proprio importante lavoro, per una altrettanto fabbrica famosa di veicoli, la BMW a Lipsia; nella quale realizzò – tra 2003 e 2005, su progetto del 2002 – la parte di collegamento dei tre distaccati reparti produttivi, esplicitamente riferendosi – su propria stessa dichiarazione – allo “schema industriale” della “mastodonticità lineare della FIAT-Lingotto”. Che Renzo Piano nel proprio intervento ridefinitore non aveva potuto eccessivamente trasformare, modificare o diversamente modulare, se non introducendo nuovi corpi aggiunti – e però estranei all’opera esistente – disposti sul tetto (la sfera della cosiddetta Bolla, e il poligono della Galleria Agnelli), poiché sarebbe risultato improprio scardinare l’indissolubile gabbia strutturale dell’edificio moderno, basato su una articolata sequenza di pilastrature verticali e di solette piane.
Ma come la Hadid aveva agìto nel procedimento lipsiano (composto sul concetto, a lei ultimamente caro, di flusso quale motivo di scorrimento dinamico ma anche di levitazione sospesa, divenuto principio formal-propositivo dei suoi progetti), creando nelle vaste piattaforme sinuose di collegamento la sensazione percettiva del movimento e della velocità (particolarmente tipiche dei veicoli su ruote motorizzati), ancòra più macroscopicamente l’artista londinese avrebbe voluto intervenire sullo stabilimento torinese con audaci contorcimenti formali, che per altro ha tratteggiato in una serie di disegni a pennarello, sovrapponendo le sue deviazioni espressive alla reticolarità inflessibile del fabbricato lingottiano: per lasciare a Torino quel suo segno tormentato e fluido che le si confaceva tanto, ed era diventato la formula più appropriata della propria modalità espressiva.
Con quei gesti mossi personalizzati, la Dama (così era chiamata Zaha Hadid in Inghilterra) dell’Architettura ha caratterizzato l’ultima propria produzione, distorcente e deformante nelle sagome fisiche, basata sulla idea di un continuo andamento sinuoso (che le è valso il nome di Regina delle Curvature), esteso e fluente come il respiro della vita.
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