di Corrado Gavinelli e Mirella Loik
Il termine Architettura Sostenibile (emerso soltanto di recente – da un venticinquennio soprattutto, sebbene discusso dagli Anni Settanta del Novecento – ma in precedenza scarsamente considerato) per quanto esplicito nei propri contenuti e intenti, non è altrettanto chiarificato nelle applicazioni e nei risultati. E non per condizioni di principio o teoriche (che rimangono intatte e importanti), quanto a causa delle esecuzioni pratiche, non sempre appropriate e pertinenti, e talvolta condotte da tecnici non sufficientemente scrupolosi e da maestranze inesperte e improvvisate.
Questo settore della Architettura Contemporanea, che appartiene alla Linea propositiva post-moderna del genere vernacolare, e coinvolge spesso le tendenze procedurali del Popolare e della Partecipazione (accogliendo in diversi casi la pratica del Comunitarismo) possiede ormai diversi importanti protagonisti attuali; ma storicamente, per le nazioni del sottosviluppo non-industrializzato, ritrova in due esperienze particolari i suoi più noti modelli operativi.
Il primo caso è quello egiziano perseguito dal 1945 al 1970 da Hassan Fathy, che riconduce la realizzazione degli edifici popolari a materiali e risorse esclusivamente locali (mattoni di argilla seccati al sole e sistemi strutturali ad archi e volte semplici – in cupole e a botte – eseguibili da operai anche non professionali, guidati da pochi capimastri muratori), di cui il Villaggio di Nuova Gurna (realizzato tra il 1945/46-48 e completato nel 1950-53) è l’esemplare più noto [Fig. 1]; il secondo esempio è quello cinese della vecchia Cina Popolare di Mao Zedong, applicato nelle iniziative delle Comuni del Popolo tra il 1958 ed il 1980, il cui metodo è riscontrabile in due procedimenti differenti, ma entrambi sempre basati sull’utilizzo di elementi costruttivi ricavati dalle condizioni del posto e provenienti dalla cultura di esperienza trascorsa: uno, effettuato a Daqing dal 1963 per le Case Operaie dell’insediamento petrolifero là pianificato (e specialisticamente usando il cosiddetto sistema gandalei, ovvero un procedimento di esecuzione fondato su soli dodici operazioni costruttive attuabili anche da personale non espressamente qualificato, impiegando risorse locali e facili da elaborare) [Fig. 2], e l’altro risolto nel Villaggio Dazai tra il 1967 ed il 1976 tramite il solo apporto lavorativo dei contadini del posto, che si sono avvalsi di sistemi edilizi – rielaborati – ricavati dalla tradizione storica e dalle condizioni del sito (soprattutto per l’utilizzazione della pietra aggregata a secco e di elementari voltature ad arco di suggerimento cavernicolo) [Fig. 3].
Per quanto riguarda invece il Sud-Africa, esperimenti esemplari sono stati tentati in diverse parti della nazione, con metodologie egregie e lodevoli programmazioni, ma spesso autonomamente e senza partecipazione statale (le iniziative cominciano da associazioni private e poi vengono accolte dalle istituzioni ufficiali quando dimostrano una accertata affidablità), ma si riscontrano anche operazioni purtroppo estemporanee e non qualificate.
Alcuni esempi considerevoli (e del tutto ineccepibili nel loro aspetto edilizio-architettonico) tuttavia si possono ricordare in alcune atuazioni innovativamente sperimentali, tra cui le nuove tipologie abitative nel Villaggio Tlholego vicino a Rustenburg (a circa 2 ore di strada da Johannesburg) realizzate entro un’area di 120 ettari: è un progetto di sviluppo sostenibile iniziato nel 1991, che appartiene alla rete mondiale dei villaggi ecologici (Global Ecovillage Network), e che si basa su un criterio comunitario di sviluppo di un insediamento contenuto, impostato sul modello di vita del posto, non soltanto con una specifica eco-edilizia pertinente, ma anche con l’utilizzo di coltivazioni agrarie naturali facilmente seguibili dagli abitanti locali (ad esempio le permaculture) [Fig. 4]
Inizialmente basati sulle tradizionali (vecchie di duemila anni) tipologie a capanna della popolazione degli Tswana, gli edifici più recenti sono adesso attuati con un nuovo metodo edificatorio: il così definito sistema costruttivo tlholeghese (TBS: Tlholego Building System), elaborato dall’architetto australiano Brian Woodward, uno dei massimi esperti mondiali per la sostenibililità costruttiva, che dal 1996 ne ha fatto un autentico (egli stesso lo ha così commentato) “criterio edilizio sostenibile per le abitazioni del Sud Africa”.
Ad oggi considerato il progettista (e teorico) più autorevole in questo genere di realizzazione “a basso costo” (i cui risultati egli ha già ampiamente applicato in Australia, dove risiede e lavora) Woodward sostiene che “la edificazione con materiali di fango ha la potenzialità di permettere ad un largo numero di utenti di auto-costruirsi case di qualità con il minimo danno ambientale, e senza le dipendenze finanziarie che i metodi convenzionali comportano”.
Dal 1996 al 1999 dunque, in varie riprese e – inizialmente – con una squadra di collaboratori statunitensi, il progettista australiano ha realizzato a Tlholego vari tipi di residenze, ed in particolare i due fondamentali prototipi di abitazione rettangolari – a capanna (tukul) e a caseggiato (bungalow) – che nel 2000 gli hanno valso il riconoscimento ufficiale del Consiglio per la Ricerca Scientifica ed Industriale (CSIR) quale “più appropriato modello costruttivo per il Sud Africa” e come “soluzione rivolta allo sviluppo sostenibile dell’architettura povera” [Fig. 5].
Analogamente per la concettualità propositiva – sebbene con risultati diversi nei modi esecutivi – i villaggi Amadiba e AmaMpondo (che si trovano nella regione pondolese sulla Costa Orientale di antico stanziamento bantu) sono un altro accettabile esempio di progetto sviluppato su base comunitaria più equamente articolata nella gestione delle risorse e per la distribuzione dei profitti tra i partecipanti locali. Le realizzazioni edilizie sono a loro volta composte su elementi della tradizione africana, però più genericamente rimodellati (ovvero non tipologicamente attinenti, in quanto interpretati su definizioni rielaborate attualisticamente, secondo un criterio di impostazione tipico di una comunicazione espressiva di genere turistico; di cui un altro recente – del 2007-08 – ma ancòra embrionale caso si ritrova negli edifici di iniziale servizio vacanziero a Mkambati).
Le iniziative Amadiba e AmaMpondo nascono nel 1997 per decisione della Organizzazione Non-Governativa PondoCROP; ed in seguito alle consultazioni con la comunità del luogo, con le strutture di gestione locali, e con il supporto dell’Agenzia Ntsika per l’Incentivazione Imprenditoriale ha svolto il suo piano operativo con un certo successo: tanto che il riuscito effetto del suo piano ha costituito un esempio da seguire per altri progetti, ed ha ottenuto anche il sostegno del Ministero dell’Ambiente e del Turismo del Sud Africa.
In questo insieme diffuso di operazioni sistematorie, io stesso (Corrado Gavinelli, con l’apporto della mia collaboratrice Mirella Loik) ho avanzato – nel 2005 – una proposta di progetto per case popolari (ma anche riferibili a ceti medi) da costruire in località emarginate (ma anche inizialmente urbanizzate), particolarmente rivolte alla zona della Costa Selvaggia (ed in particolare nella vasta area rurale, dispersa in moltissimi nuclei abitativi minimali e sperduti, dei Xhosa), elaborando le Case Ubuntu (così denominate con una parola sudafricana particolarmente impiegata dalle comunità locali, indicante la proprietà di vivere ancòra con naturalezza nell’ambiente – anzi, più precisamente, “armoniosamente con il Creato” – senza prevaricarlo, e ricavando invece da esso risorse materiali e mezzi pratici di vita e sostentamento).
Si tratta di particolari tipologie rielaborate dall’analisi storica (arcaica e novecentescamente più recente) delle capanne tradizionali a “cilindro coperto da un cono” (ma anche con loro versioni alternative più recenti, di adattamento rettangolare), per le quali ci siamo attenenuti alle attentissime e uniche ricerche di Franco Frescura (architetto e professore di architettura a Durban, nonché eccellente disegnatore, esperto di antiche costruzioni tribali del Sud-Africa) da lui effettuate sul territorio per un decennio e concluse nel 1987.
I sistemi costruttivi sudafricani antichi sono vari e differenziati, ma l’abitazione collettiva a capanna tradizionale (dagli esperti, e nella stessa fraseologia convenzionale, chiamata semplicemente “cono su cilindro”, riferendola alla omologa forma del tetto posato su una muratura circolarmente rotonda) è la tipologia comune più diffusa ed usata; ed in particolare la sua espressione di maggiore evidenza si ritrova nelle popolazioni degli Tswana (situati nel settentrione sudafricano), degli Ndebele (anch’essi dislocati al Nord, ma nella zona più centrale del Gauteng), e degli Xhosa (insediati invece sulla costa sud-occidentale); ma appartiene pure all’esperienza dei Sotho e dei Venda (stanziati entrambi nel Transvaal) [Fig.6].
Conservando i consueti criteri costruttivi del luogo con variazioni sempre sostenibili, e compatibili con un giusto e durevole mantenimento ecologico-ambientale dell’edificio nel suo intorno fisico, per il progetto gavinelliano di Casa Standardizzata Ubuntu (un organismo residenziale che, nato come residenza domestica, può comunque venire facilmente adattato ad edificio pubblico), riferito al Villaggio Ndengane della Costa Selvaggia dal quale è pervenuta la richiesta progettuale, sono state ricavate dunque due possibilità tipologiche, desunte maggiormente dall’analisi storica della situazione edilizia xhosana (ma anche sud-africana in genere) e dalle esigenze di una nuova vita casalinga [Figg. 7 e 8].
Questa scelta di attinenza storica ha comportato però una aggiunta (funzionale) di due nuovi requisiti tipologici, per un pratico adattamento alle esigenze odierne: un porticato all’aperto (componente edilizio non diffusissimo ma tuttavia appartenente all’uso di altre popolazioni sudafricane: ad esempio dei soliti Twana e degli Ndebele, che lo impiegano incorporandolo in una veranda continua tutto attorno al caseggiato nel prolungamento più spiovente dei tetti sostenuti da pali verticali) [Fig. 6], e la reintroduzione di un corretto apparato decorativo-cromatico sulle murature esterne delle abitazioni (una prassi popolare e collettiva abbandonata da tempo in séguito ai metodi costruttivi contemporanei, divenuti più sbrigativi e puramente tecnicistici a causa dei costi eccessivi e del calo di interesse per le tradizionali abitudini estetiche).
Il portico diventa un essenziale elemento materiale (per l’ombregiatura all’aperto) e di utenza sociale (soprattutto per l’incontro interfamigliare comunitario, ma anche per accogliere lo spazio del barbeque – che i SudAfricani chiamano braai – di recente adozione dalla cultura anglosassone coloniale, ma anche derivante dal ricordo degli antichi festini tribali comunitari del potlasch) e d’uso ormai indispensabile per le odierne modalità di vita [Figg. 9 e 10].
I tipi di edifici così concepiti, sono pertanto di due generi: una versione maggiormente collegata – morfologicamente – alle abitudini etniche originali e primitive della secolare capanna tonda con tetto conico, ed una sua alternativa (o piuttosto corrispondente) formulazione più riferita ad una sua variabilità rettangolare, ricavata dai contingenti adattamenti tecnici di praticità edilizia già verificatisi in diverse simili trasformazioni costruttive apportate dagli Europei all’inizio del Novecento ed assunte dagli stessi Indigeni [Figg. 11 e 12, 13 e 14].
Le due proposte non sono antitetiche o contrapposte, bensì possono entrambe convivere; perchè la seconda deriva dalla prima con pochi mutamenti fisici esteriori (una spazialità ad angoli retti invece che tonda, ed i tetti inclinati con una falda diagonale anzichè a cono), e ne costituisce un più avanzato metodo di progresso tecnico. Tale innovatività generale è riscontrabile poi nella introduzione della essenziale apparecchiatura igienico-sanitaria di installazione autonoma (stanza da bagno con gabinetto), in quanto le attrezzature impiantistiche fondamentali (acqua, illuminazione, gas) sostanzialmente sono inesistenti e devono venire aggiunte indipendentemente.
L’apparato di servizio igienico comunque è facilmente inseribile (quando occorresse e si volesse) anche nelle tipologie tradizionali, tramite un vano aggiunto (con un blocco prefabbricato a fossa ecologica incorporata, acquistabile a catalogo, e montabile nel luogo voluto), risolvendo una necessarissima funzione che nella pratica corrente degli Africani che vivono tradizionalmente (ma anche di tutte le situazioni del sottosviluppo internazionale) viene espulso dalla capanna e allocato in un gabbiotto discosto (come del resto è avvenuto anche nei Paesi sviluppati ancòra nel secondo dopoguerra, che in Italia è durato fino agli Anni Sessanta del Novecento nelle aree rurali), oppure è espletato direttamente, lontano, nella aperta natura circostante [Fig. 15].
Lo spazio della casa rurale africana (non solamente del Sud-Africa), è impostato – da secoli – sull’ambiente unico della capanna storica, entro il quale si svolgeva – come dall’epoca neolitica – tutta la esistenza delle famiglie con le sue attività sostanziali: vivere, lavorare, mangiare, e dormire, in una terribile promiscuità di atti non più concepibile per una attuale condizione abitativa, che ormai si ritrova distribuita in locali a separata destinazione specializzata [Fig. 16].
La concezione tipologica nuova delle Case Ubuntu, pertanto, accorpa intorno alla capanna tradizionale tutti gli altri vani residenziali nuovi, in un insieme unitario di stanze indipendenti ma correlate, tutte mantenute nel disegno delle forme caratteristiche delle capanne della tradizione – e di sua variazione espressiva – con una identità abitativa rispondente ai cambiamenti spaziali e tecnici degli alloggi moderni e contemporanei [Fig. 17].
In pratica, dall’unico spazio totale della comunità famigliare secolarmente usato per ogni azione casalinga, le singole funzioni domestiche sono state spostate in collaterali vani-capanna collegati alla tipologia-matrice della cucina-pranzo-letto, distinguendo le stanze rese individuali (di soggiorno effettivo, di lavoro, e di riposo) ricomposte in ambienti di ridisposizione aggregata intorno all’originario luogo residenziale centrale [Fig. 18].
L’aggregazione di più corpi a capanna ha così inventato, in pratica, una nuova tipologia composita (che all’apparenza esteriore si mostra come un piccolo agglomerato di villaggio tradizionale: assomigliando infatti – con i suoi vari corpi edilizi accostati – ad un’altra specifica tradizione nazionale: quella dei Venda transvaaliani, che realizzano le loro case sparpagliando i volumi abitativi dei singoli membri della famiglia intorno al recinto del cortile – dove viene rinchiuso e custodito il bestiame – insieme ai granai e ai depositi), nella quale tuttavia non appaiono caratteri formali del tutto estranei alla consuetudine residenziale sud-africana [Figg. 18-19, e 20-21].
Un’ultima variazione distributiva etnico-tribale introdotta nei progetti ubuntiani, che però si discosta dalla elementarità spaziale unica degli interni Xhosa nel suo rinnovamento odiernizzato, è stata l’introduzione di muri separatori per ripartire i vani dentro i cilindri abitativi (in particolare nella cucina, per separare la zona di cottura – dotata di moderno fornello a gas, alimentato però con bombole ricambiabili – da quella per il pranzo) ripresa dalla cultura degli Tswana (che chiamano borobalo questa parete divisoria) [Fig. 6].
Nell’insieme propositivo disegnate per le tipologie Ubuntu, ho cercato di giungere ad una ambientazione edilizia variegata e disponibile, ed adattabile (sempre nei limiti di una sostenibilità congrua ed anche facilmente realizzabile) alle condizioni materiali e operative del luogo, non soltanto nell’adeguarsi alla condizione storica e naturale del contesto, ma anche nell’adattarvi le necessarie induzioni inventive e tecniche del progresso in generale.
Ed in più, fornendo alla popolazione che deve usare quei volume e quegli spazi, uno strumento facile e adatto di risoluzione (capace di venire eseguito autonomamente dalla gente locale) e che costituisca un probabile modello di riferimento riproducibile (ma anche variabile) per altre tipologie analoghe, seguendo essenziali applicazioni trasformative agili e leggère (per le quali è stato dato, al loro criterio informatore, il nome GCLM, ovvero Gavinelli Construction Light Method).
Di questo modello finora è stata applicata solamente una versione semplificata, in un paio di edifice di esecuzione effettuata privatisticamente, che hanno però scarsamente seguito le condizioni originarie del progetto, immettendo elementi edilizi non conformi, motivati soltanto dalla funzione pratica d’utenza ma disgiunti da una giustificata corrispondenza alle caratteristiche di forma e costruzione locali.
E’ questo, appunto, il problema più spinoso dell’autocostruzione sostenibile attuata in maniera troppo spontanea e dilettantesca, senza debito controllo operativo; un criterio di procedura superficiale che si frappone tra una genericità volenterosa e la vera (buona) proprietà esecutiva per il raggiungimento di una compiuta e corretta architettura sostenibile: la quale diventa, invece, insostenibile quando non segue princìpi e modalità opportune, finendo così per conseguire risultati deleteri; ovvero inconsistenti, se non dannosi, per lo sviluppo innovatore delle tradizioni abitativo-tipologiche locali.
Fortunatamente in alcuni Dipartimenti delle Università sudafricane, come quello che abbiamo visitato quest’anno 2012 a Durban nel Dipartimento di Ospitalità e Turismo (dove abbiamo incontrato uno dei Direttori, il Professor Erasmus Mzobanzi Mnguni, ed anche un ricercatore italiano, il Dottor Andrea Giampiccoli, che lavora in quell’istituto) [Fig. 22], si stanno studiando progetti compatibili con una sostenibilità generale (e non soltanto edilizia) nei quali l’attenzione verso un appropriato rapporto degli interventi esecutivi con gli ambienti considerati e le loro risoluzioni tradizionali possa generare risultati non soltanto sperimentali, ma di piena applicabilità congruente con unaevoluzione futura di definibilità comunitaria attualizzata, e con una conseguente esecutività di partecipazione complessiva e di autentica autocostruttività vitale, di cui estremamente abbisognano le popolazioni rurali povere e indigenti, che ancòra non hanno ricevuto – da parte delle autorità governative competenti – una opportuna considerazione organizzativa, neppure nelle più essenziali infrastrutture di collegamento viario e di approvvigionamento impiantistico indispensabili per una vita di più completa normalità.
Corrado Gavinelli e Mirella Loik
Torre Pellice, Agosto e Ottobre 2012
FIGURE
1 – Una illustrazione di Hassan Fathy del 1948 per la città di Nuova Gurna
2 – I disegni esecutivi del Sistema (Auto)Costruttivo Gandalei utilizzato dalle Squadre Edilizie Urbane della città petrolifera cinese di Daqing
3 – Un dipinto popolare del 1976 raffigurante la conclusione della Comune del Popolo cinese a Dazai, avvenuta quell’anno
4 – Illustrazione del Villaggio Thlolego del 2004 con le esecuzioni eco-biologiche: si possono riconoscere – sui tetti degli edifici di genere non africano (ad impianto rettangolare) – i dispositivi a pannelli solari ed I serbatoi dell’acqua per l’autosufficienza energetica e idraulica
5 – Una tipologia residenziale nuova, del 2004, proposta a Thlolego da Brian Woodward
6 – Un Rilievo in Spaccato di una tipica Capanna dei Tswana disegnato da Franco Frescura nel 1983: si notino la veranda a portico continuo e la parete divisoria interna (borobalo)
7 e 8 – Una caratteristica Capanna dei Xhosa a Ndengane, in autocostruzione autonoma nel 2011; e la proposta dei nuovi tipi edilizi di Case Ubuntu disegnate da Corrado Gavinelli nel 2005 per la medesima località
9 e 10 – Prospetto e Planimetria di una Casa Ubuntu (Minimale di genere Africano) proposta da Gavinelli e del 2005, composta da aggregazioni di capanne tonde – ognuna corrispondente ad una funzione domestica (ed eventualmente lavorativa: laboratorio o ufficio) – provvista di portico coperto antistante
11 e 12 – Prospetto della seconda tipologia Ubuntu (di Gavinelli e del 2005) nella versione Occidentale di genere Minimale, ed il suo modello indigeno di Caseggiato a Corte dei Sotho, ripreso dall’edilizia coloniale del primo Novecento (disegno di Frescura del 1985)
13 e 14 – Le Planimetrie della seconda Casa Ubuntu di genere Occidentale nelle sue versioni Minimale e Media: in pratica la prima tipologia (a capanna tonda) è stata rielaborata analogamente in caseggiato con locali squadrati
15 – Il blocco prefabbricato del servizio igienico-sanitario (fossa biologica) per il Gabinetto, aggiungibile al vano corrispondente
16 – Un caratteristico ambiente interno di una Casa xhosa (a Ndengane nel 2012) il cui spazio unico è totalmente promiscuo e contenente ogni sorta di attività domestica famigliare (soggiorno e lavoro, alimentazione, riposo e sonno)
17 – Schema di progetto (di Gavinelli, del 2005) mostrante il criterio di accorpamento funzionale (in un unico insieme aggregato) dei vani abitualmente espulsi dalla capanna tradizionale
18 e 19 – Paragone compositivo-formale (nella planimetria) tra la Casa Ubuntu (di genere Africano) e il suo modello di riferimento sud-africano (una Fattoria familiare dei Venda, composto di distinti locali domestici separati, richiusi entro una recinzione delimitante)
20 e 21 – Analogo confronto prospettico tra un fronte della Casa ubuntiana (di genere Africano) ed un profilo di Caseggiato Rurale della popolazione venda
22 – Da sinistra: l’Architetto Corrado Gavinelli con il Professore Erasmus Mzobanzi Mnguni (Direttore del Dipartimento di Ospitalità e Turismo della Università di Durban), l’Architetto Mirella Loik, e il Dottore Andrea Giampiccoli (Ricercatore dipartimentale)
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