Per gentile concessione dell’Autore e dell’Editore (Edizioni Minerva, di Argelato, Bologna) riprendiamo da: Il nuovo Nautilus. Rivista di studi e ricerche del Liceo Torricelli Ballardini di Faenza – Anno 2022 l’articolo “Com’era e dov’era” Appunti su modernismo e conservazione tra Faenza, Dresda e Potsdamer Platz

Di Giorgio Gualdrini

Ero ancora fresco degli studi di filosofia al liceo e ricordavo la distinzione fra eídolon, da cui idolo o simulacro, ed eikón, l’immagine intesa come copia di un originale. Sia Platone sia Aristotele definirono l’immagine come ciò che “rende presente l’assente”. Assente in quanto non c’è e mai c’è stato – qualcosa di inventato e fantastico, di immaginario appunto – ovvero assente in quanto c’è stato (in un dato luogo, in un dato momento della storia) ma ora non è più di fronte ai nostri occhi: qualcosa che è distante nello spazio oppure che se ne sta relegato in un tempo più o meno remoto. Quest’ultima declinazione, che certo ha anche a che fare con la memoria, è molto pertinente agli scatti fotografici che ci restituiscono le sembianze del volto di una persona deceduta o lontana, di un ambiente visto un giorno e poi dimenticato, di un’architettura scomparsa, di scorci di paesaggi resi irriconoscibili da interventi di manomissione più o meno pesanti. Come l’eikón può rendere presente l’assente, così è per il linguaggio. Logos, infatti, non significa solo “ragione” o “discorso” ma anche “parola”. Sentiamo parlare di una “città” e subito affiorano nella nostra mente immagini che la evocano, anche se in quel momento ci troviamo in campagna.

Tanti anni fa condussi una ricerca sulla storia urbanistica di Faenza. Per il periodo compreso fra l’unità d’Italia e il 1970 oltre alle relazioni, agli articoli, alle mappe e ai disegni furono molto utili le fotografie scattate prima della Seconda guerra mondiale e custodite nella fototeca del Dopolavoro Ferroviario. Quegli scatti fotografici mi fecero balzare agli occhi le trasformazioni intervenute sia in tempo di pace sia in tempo di guerra.

Faenza

Molto gravi furono le ferite lasciate nella carne viva di Faenza dai bombardamenti del 1944. Dopo la fine del conflitto la rimozione delle macerie precedette il tempo della ricostruzione e delle ricuciture urbane, ma i ripristini furono spesso incapaci di restituire agli edifici, feriti dalle bombe, l’antica dignità formale e il volto della città restò segnato da cicatrici molto vistose. Non c’è qui lo spazio per analizzarle in modo compiuto. Mi limito perciò ad accennarne alcune, partendo dalla ricostruzione della Torre dell’orologio, uno dei segni architettonici più significativi del centro di Faenza.

L’attribuzione dell’opera originaria è ancora incerta, anche se sembra che la paternità del progetto sia ascrivibile al faentino Domenico Paganelli, il frate domenicano che seppe eccellere nella teologia, nella tecnica e nell’arte. Eretta negli anni compresi fra il 1604 e il 1606 le sue adiacenze furono sottoposte, nel tempo, a ripetuti adeguamenti, il più rilevante dei quali fu la saldatura con il loggiato orientale della piazza costruito nel XVIII secolo.

Nel novembre del 1944 la guerra stava volgendo al termine e i tedeschi, in ritirata da Faenza, fecero saltare in aria la torre (Figg. 1-2). Di questo simbolo laico della città restò così un cumulo di macerie che, subito dopo la liberazione, furono portate nella discarica dello sferisterio fuori porta Montanara. In città si aprì presto un vivace dibattito che sintetizzerei attraverso queste domande: costruirla seguendo un disegno radicalmente nuovo oppure ricostruirla secondo le antiche forme? Il Consiglio Comunale scartò giustamente la prima ipotesi e scelse di ricomporre la torre “com’era e dov’era” attingendo alla proposta di un gruppo di professionisti romani costituito dagli architetti Vincenzo Fasolo, Domenico Sandri e dall’ingegnere Mario Pinchera, che utilizzarono come principali fonti documentarie alcune vecchie fotografie.

Figg, 1-2. La Torre dell’orologio di Faenza prima e dopo la distruzione avvenuta, ad opera delle truppe tedesche in ritirata, il 17 novembre del 1944 (© Fototeca Manfrediana).

Per la verità il ripristino della torre non seguì un rigoroso percorso filologico. L’ossatura portante è infatti costituita da un telaio in calcestruzzo armato, poi rivestito da spesse lastre di pietra naturale per il bugnato della base e, negli ordini superiori, da mattoni di laterizio di nuova produzione. Restava tuttavia una questione da dirimere: ricostruire anche le antiche connessioni da un lato con il palazzo del Podestà e dall’altro con le cortine edilizie di corso Saffi, oppure lasciare la torre isolata, come inizialmente accadde? Solo nel 1957 al posto del tratto distrutto del loggiato si costruì, seguendo il progetto dell’architetto faentino Ennio Golfieri, un incongruo arco di mattoni (Figg. 3-4).

Figg. 3-4. La Torre dell’orologio di Faenza come si vedeva da corso Mazzini prima della Seconda guerra mondiale (© Fototeca Manfrediana) e come si vede oggi.

Quando mi capitò fra le mani la fotografia del palazzo del Podestà squarciato nella sua testata settentrionale, mi chiesi perché a nessuno fosse venuto in mente di lasciare il segno di quella grande lesione. Anche in questo caso si preferì infatti cancellare la memoria visiva di una guerra che aveva trafitto, assieme a molte vite, anche muri, tetti e interi edifici del centro di Faenza. E dire che, senza minimamente indulgere al culto romantico delle rovine, sarebbe stato sufficiente consolidare la struttura di questo edificio di origine medievale e posizionare una vetrata dai contorni irregolari per seguire i bordi sfrangiati dello squarcio!

Nel mondo mitologico greco Mnemosine era la dea della memoria. Dal- la sua unione con Zeus erano nate le nove muse. A Mnemosine si contrapponeva Lete, figlia di Eris, poi divenuta “il fiume dell’oblio” alle cui acque non ci si deve abbeverare – ricorda Platone nel X Libro della Repubblica – per non perdere quella superiore saggezza che deriva dalla capacità di ricordare. Non a caso la parola greca Aletheia, che significa “verità”, antepone al nome di quel fiume un’alfa privativa che – come sostenne Martin Heidegger – induce a tradurre questa parola con “senza dimenticanza”. Non voler consegnare alla dimenticanza significa sforzarsi di ricordare. La memoria, in fondo, ha qualcosa a che fare con la verità. Alla ricostruzione della Torre dell’orologio mancarono molti frammenti di questa verità. Il suo intorno non fu ricostruito “com’era” prima della guerra e si fece di tutto anche per far dimenticare il segno dell’esplosione: un segno che avrebbe mantenuto, nel tempo, una vigorosa eloquenza.

Il motto “com’era e dov’era” aveva trovato nella ricostruzione della Torre dell’orologio un’applicazione solo parziale. Altrove andò molto peggio.

Tra i molti esempi negativi che punteggiano il centro storico di Faenza mi limito qui a ricordare le modalità della ricomposizione delle adiacenze del palazzo Mazzolani in corso Mazzini. In questo caso non si trattò di una semplice trasformazione edilizia, bensì di un vero e proprio cambiamento del tessuto urbano di questa piccola porzione di città posta in fregio all’antico decumanus maximus. Dove c’era il palazzo Ricciardelli, progettato dall’architetto Pietro Tomba intorno al 1840, ora c’è la piazza 2 Giugno, adibita ad anonimo parcheggio (Figg. 5-6).

Fig. 5. I resti del palazzo Ricciardelli in corso Mazzini a Faenza dopo la fine della Secon- da guerra mondiale. Sulla destra il palazzo Mazzolani (© Fototeca Manfrediana).

Di quella nobile dimora resta solo l’attergato a serliane, costruito in origine per lambire un giardino chiuso e non una piazzetta pubblica.

Fig. 6. Scorcio dell’odierna piazza 2 Giu- gno realizzata dopo la Seconda guerra mondiale nel sito del palazzo Ricciardelli (Fotografia del 2021).

Anche dell’adiacente palazzo Bandini, costruito da Giuseppe Pistocchi intorno al 1775, resta solo il fondale della corte interna con la loggetta arricchita dalle statue dello scultore riminese Antonio Trentanove. Era però sopravvissuta la facciata che, tuttavia, non si ritenne opportuno consolidare e restaurare. Al posto del palazzo tardo settecentesco fu infatti costruito un nuovo blocco edilizio di cinque piani (Figg. 7-8).

Fig. 7. Il palazzo Bandini in corso Mazzini a Faenza dopo i bombardamenti della Seconda guerra mondiale (© Fototeca Manfrediana).
Fig. 8. Il condominio che andò a sosti- tuire il palazzo Bandini dopo la Seconda guerra mondiale (Fotografia del 2021).

Non andò affatto meglio all’adiacente palazzotto ottocentesco, sostituito da un condominio ancora più alto.

A quel tempo le norme urbanistiche lo permettevano e bisognerà attendere la promulgazione della legge n. 765 del 1967 (la famosa “Legge Ponte”) per vedere introdotto nei centri storici italiani il divieto di aumentare le volumetrie preesistenti, consentendo solo opere di restauro e ristrutturazione. Nell’eventualità di un radicale rifacimento di edifici incongrui o labenti era ancora ammesso l’uso di linguaggi e materiali contemporanei.

Il campanile di San Marco a Venezia e l’abbazia di Montecassino

La querelle intorno alle modalità di ripristino delle architetture distrutte dai bombardamenti attraversò tutto il secondo dopoguerra: una querelle che regolarmente riaffiora anche dopo ogni calamità naturale o dopo ogni disastro provocato dall’incuria degli uomini.

È opportuno ricordare, soprattutto ai giovani cui questa rivista è rivolta, che suscitò enorme scalpore il crollo del campanile di San Marco a Venezia. Il collasso della struttura avvenne – fortunatamente senza vittime – intorno alle 9:50 del mattino del 14 luglio 1902 dopo giorni di preoccupanti avvisaglie alle quali l’amministrazione pubblica, anche per imperizia, non riuscì a rispondere in tempo. A partire dal 7 luglio una lesione comparsa nell’angolo nord-est si era estesa prima alla cella campanaria, poi all’intero sviluppo verticale della canna del campanile che, implodendo, distrusse anche la loggetta alla sua base e la testata settentrionale della biblioteca Marciana. Ambedue i manufatti erano stati progettati in pieno Cinquecento dal grande architetto manierista Jacopo Sansovino. Le cause del crollo furono individuate non in un cedimento delle antiche fondazioni ma nel degrado dei laterizi e delle malte, che costituivano il sistema costruttivo delle rampe d’accesso alla cella campanaria.

Subito si accese un vivace dibattito. Mentre alcuni, come in un primo momento lo scrittore Herman Hesse, pensavano che, con l’assenza del campanile, la piazza avrebbe potuto acquisire maggiore sobrietà ed equilibrio, altri, come il letterato Giosuè Carducci, non ritenevano opportuno procedere alla ricostruzione per i molti dubbi intorno alla coerenza filologica del ripristino. L’architetto austriaco Otto Wagner, autorevole esponente della “Secessione viennese”, caldeggiò invece la costruzione di un nuovo campanile in forme moderne. «Per quale motivo – disse nel corso di un’intervista – non dovrebbe essere rappresentato nella piazza di Venezia anche lo stile moderno, perché ormai la disgrazia è avvenuta? […] Sarebbe un voler falsificare la storia dell’architettura se si ricostruisse il campanile nello stile antico.» (1). L’opinione predominante si indirizzò tuttavia (ritengo saggiamente) verso la fedele ricostruzione del campanile e fu subito dopo il crollo che venne coniato il motto “com’era e dov’era” (Figg. 9-10).

Fig. 9. Il campanile di San Marco a Venezia come si presentava dopo il crollo del 14 luglio del 1902.
Fi. 10. Il campanile di San Marco oggi.

Sembra che a pronunciarlo per primo sia stato Luigi Sugana, un poeta e commediografo oggi dimenticato. Il progetto e la direzione dei lavori, in un primo momento assegnati all’architetto Luca Beltrami, furono conferiti a una commissione tecnica presieduta da Gaetano Moretti, soprintendente ai monumenti di Lombardia e Veneto. Le modalità del ripristino del campanile di San Marco non furono peraltro esenti da obiezioni. Alcuni criticarono il paramento murario che fu eseguito con mattoni di laterizio nuovi; altri dissentirono dalla scelta di realizzare le strutture portanti della cella campanaria e della cuspide in calcestruzzo armato. L’opera fu, in ogni caso, completata nel 1912 e la maggior parte dell’opinione pubblica ne apprezzò il risultato finale.

Il motto “com’era e dov’era” risuonò, ma senza esiti pratici, anche dopo il terremoto di Messina del 1908 e soprattutto nel secondo dopoguerra. In Italia il più celebre caso di ricostruzione a l’identique (un termine esplicitamente utilizzato nel diritto urbanistico francese) fu quello dell’abbazia di Montecassino, rasa al suolo dal bombardamento attuato dagli alleati il 15 febbraio 1944 per un grave errore di valutazione strategica. L’integrale ripristino fu portato a termine nel 1957 seguendo il progetto dell’ingegnere Giuseppe Breccia Fratadocchi. Anche in questo caso non mancarono le polemiche tra coloro che consideravano l’opera un “falso” (tra questi l’archeologo e storico dell’arte Ranuccio Bianchi Bandinelli) e coloro che ritenevano quell’integrale rifacimento legittimo, in quanto basato su documentazioni grafiche e fotografiche che avrebbero permesso di evitare ogni arbitrio (tra questi il filosofo Benedetto Croce). Devo confessare che mi fece una certa impressione il confronto tra l’abbazia ricostruita, che vidi nei primi anni 2000, e le immagini del grande monastero benedettino distrutto dalle bombe (Figg. 11-12). Unico cruccio fu il non aver notato, come in- vece mi capitò a Dresda, nessun rudere, nessun lacerto di muro lasciato sul posto in memoria della distruzione. Chissà se qualcuno ci aveva pensato!

Fig. 11-12. Il chiostro di Sant’Anna dell’abbazia di Montecassino come si presentava dopo i bombardamenti del 15 febbraio 1944 (© Archivio Abbazia di Montecassino).
Fig. 12. Montecassino, il Chiostro di Sant’Anna oggi.

Dresda, la “Firenze sull’Elba”

Nella capitale del Land della Sassonia, a pochi passi dalla Frauenkirche, ho sostato di fronte a una piccola porzione della cupola di questa importante chiesa luterana tante volte raffigurata, con minuziosa precisione, dal celebre pittore veneziano Bernardo Bellotto che, nel 1747, era stato invitato a Dresda da Augusto III per diventare il suo pittore di corte (Fig. 13).

Fig. 13. Bernardo Bellotto,, La piazza del Neumarkt e la Frauenkirche di Dresda, part., 1750, Gemäldegalerie, Dresda.

Dal giorno in cui, nell’estate del 2018, vidi il lacerto adagiato ai piedi della chiesa integralmente ricostruita, chiamo “testimone muto” questo aggregato di conci in arenaria gialla bruciata dalla “tempesta di fuoco” del 13 e 14 febbraio 1945 (Fig. 14).

Fig 14. Il lacerto della cupla della Frauenkirche di Dresda distrutta nel febbraio 1945 (fotografia del 2018).

L’edificio, a pianta centrale, era stato costruito in forme barocche nella prima metà del Settecento seguendo i disegni dell’architetto George Bähr. L’originalità dell’impianto e la forma slanciata della cupola sagomata “a campana” avevano contribuito a consolidare la fama di Dresda come una delle capitali europee dell’arte e della cultura. Verso la fine della Seconda guerra mondiale questa bellissima città, da più di due secoli denominata “la Firenze sull’Elba”, fu quasi totalmente distrutta dai bombardamenti alleati. Nell’immediato dopoguerra l’entità delle devastazioni fu immortalata negli scatti fotografici di Richard Peter senior, custoditi nella Deutsche Fotothek di Dresda e in parte pubblicati nell’indimenticabile volume Dresden – eine Kamera klagt an (Dresda – una macchina fotografica accusa), la cui prima edizione risale al 1949. Tra le tante immagini ce n’è una che ritrae gli uni- ci due brandelli di muro sopravvissuti alla distruzione della Frauenkirche. Un enorme cumulo di macerie li collega l’uno all’altro, mentre la statua di Martin Lutero è distesa a terra (Fig. 15). Nel lungo dopoguerra la Repubblica Democratica Tedesca, aderente al Patto di Varsavia, scelse di ripristinare il solo monumento dedicato a Lutero e la Frauenkirche restò un grande rudere fino all’unificazione delle due Germanie. Ci volle poi una quindicina d’anni per ricostruirla “com’era e dov’era” e riconsegnarla alle funzioni liturgiche nell’anno 2005 (Fig. 16).

Fig. 16. La Frauenkirche di Dresda come si presenta oggi (fotografia del 2018).

Oggi la prassi di una ricostruzione “com’era e dov’era” è quasi unanimemente riconosciuta come legittima se basata su una documentazione certa, quindi non esposta – come spesso è accaduto – ai capricci creativi di qualche architetto. Già nella seconda metà del XIX secolo Camillo Boito, giustamente contrario al “restauro stilistico” promosso in Francia da Eugène Viollet-le-Duc, coniò l’adagio: «Far io devo così che ognun discerna esser l’aggiunta un’opera moderna». In assenza di documenti, piuttosto che eseguire un conclamato falso, è sempre meglio attingere al vocabolario della contemporaneità oppure, se del manufatto rimane qualche traccia, limitarsi a consolidare ciò che poi apparirà come la porzione residua di un tutto scomparso per sempre.

Ricostruire ogni singolo monumento a l’identique divenne a Dresda un programma perseguito con discreta coerenza. Oltre alla Gemäldegalerie, alla Hofkirche, al Dresdner Schloss e allo Zwinger (Figg. 17-18) mi sono apparsi nel complesso convincenti anche molti interventi di ripristino della cosiddetta “edilizia minore”.

Figg. 17-18. Il padiglione settentrionale dello Zwinger di Dresda come si presentava dopo i bombardamenti del febbraio 1945 e come si presenta oggi (fotografia del 2018).

Non solo gli edifici monumentali modellano infatti l’identità della città storica, il cui contorno si è soliti far coincidere con il giro delle antiche mura oppure, in loro assenza, con il perimetro del tessuto urbano antecedente all’impetuosa espansione determinata dalla rivoluzione industriale.

Potsdamer Platz

A Berlino non durò neppure cento anni la nuova cinta muraria bastionata che era stata eretta poco dopo la metà del XVII secolo. Mancando ogni norma di tutela, l’espansione urbana ne giustificò l’abbattimento nell’anno 1734. Un nuovo contorno, costruito prima in legno poi in mattoni, fissò il rinnovato perimetro della città. Fu denominato Akzisemauer (muro doganale) in quanto permetteva alla municipalità la riscossione dei dazi in ognuna delle sue diciotto porte. Una di queste era la Potsdamer Tor (la Porta di Potsdam) eretta alla confluenza di ben cinque strade, la cui intersezione – presto arricchita da prestigiosi edifici – determinò la creazione di Potsdamer Platz. Adiacente al più grande parco pubblico di Berlino (il Tietgarten), la piazza dista meno di un chilometro dalla Porta di Brandeburgo. Con i suoi prestigiosi alberghi, teatri, ristoranti, gallerie, locali notturni, uffici e appartamenti di lusso tra la fine del XIX secolo e i primi trenta anni del XX divenne il luogo più frequentato di Berlino, una metropoli di più di quattro milioni di abitanti che poteva rivaleggiare sia con Londra sia con Parigi (Fig. 19).

Figg. 19-20. Potsdamer Platz in una cartolina di inizio Novecento e in una fotografia scattata nel mese di ottobre del 1945 (©Abraham Pisarek, Deutsche Fotothek, Dresden).

Avevo visto, pubblicate nei libri, molte vecchie cartoline o fotografie scattate alla Potsdamer Platz prima e dopo la Belle Époque e mi fece molta impressione il confronto con l’esito dei bombardamenti alleati che avevano trasformato Berlino in una spettrale metropoli (Fig. 20).

Nell’immediato dopoguerra il sito della vecchia Potsdamer Platz si trovò a essere attraversato da quella sorta di frontiera, ancora impercettibile agli occhi, idealmente tracciata tra i settori occidentale e orientale: una “terra di nessuno” per la quale non si intravedevano prospettive di rinascita. Nell’agosto del 1961 la scellerata costruzione, da parte del governo della DDR, del muro di Berlino divise fisicamente in due parti la città materializzando così in una solida struttura muraria la “cortina di ferro” tra l’Est totalitario e l’Ovest democratico. Ufficialmente fu denominato Antifaschistischer Schutzwall (“barriera di protezione antifascista”), ma quasi tutti gli abitanti di Berlino cominciarono subito a chiamare quella barriera semplicemente Die Mauer, il muro.

Dopo l’abbattimento di quel poco che restava dei suoi edifici parzialmente sopravvissuti ai bombardamenti, la leggendaria Potsdamer Platz divenne per molti berlinesi un semplice “territorio della memoria”: una memoria trattenuta da coloro che avevano partecipato alla vita frenetica di quella porzione di tessuto urbano e avevano ammirato la varietà dei gusti estetici impressi nelle facciate e negli interni delle varie costruzioni. Soprattutto per i berlinesi di quegli anni frenetici può valere quanto scrisse Michel de Certeau mentre camminava per le diverse città dove, da fine antropologo, si trovò a insegnare: «Il ricordo è soltanto un principe azzurro di passaggio, che risveglia, per un attimo, la bella addormentata delle nostre storie senza parole. “Qui, c’era una panetteria”; “è là che abitava la signora Dupuis”. Colpisce qui il fatto che i luoghi vissuti sono come delle presenze di assenze. Ciò che si mostra designa ciò che non c’è più: “Vedete, qui c’era…”.». (2)

Il: «Vedete, qui c’era» è affermazione comune a molte persone avanti con gli anni. Nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, uscito nel 1987, è il vecchio Homer a guidare l’angelo Cassiel alla ricerca della Potsdamer Platz, ormai ridotta a una tabula rasa. Questa grande piazza, già frequentatissima alla fine dell’Ottocento, aveva avuto il suo massimo splendore durante la breve stagione della Repubblica di Weimar (dal primo dopoguerra alla salita al potere di Adolf Hitler). In una scena del film i due viandanti, ancora incerti sull’identità dei luoghi che attraversano, trovano una grande spiana- ta di dodici ettari incolti e con l’erba alta. Verso est questo grande spiazzo è bordato dalla barriera di cemento del Mauer e in direzione nord-sud è attraversata dal Maglev, la soprelevata per i tram costruita in via sperimentale nel 1984 (fig. 21).

Fig. 21. Veduta di quella che fu Potsdamer Platz dal 1945 al 1989 in un fotogramma del film Il cielo sopra Berlino del regista Wim Wenders (1987).

Il signor Homer – avvolto nel suo cappotto – dice a Cassiel: “Non riesco a trovare la Potsdamer Platz… No… credo sia qui… no, no, non può essere perché alla Potsdamer Platz c’era il Café Josty, ci venivo il pomeriggio a chiacchierare e a bere un caffè. Guardavo la gente, dopo aver fumato i miei sigari da Loese e Wolf, una tabaccheria prestigiosa, proprio qui di fronte… Allora non può essere qui la Potsdamer Platz… no… non si incontra nessuno cui poter chiedere… era una piazza animata… tram, omnibus a cavalli e due auto: la mia e quella della cioccolata Hamann. Anche i magazzini Wertheim erano qui e poi all’improvviso là sventolarono delle bandiere. L’intera piazza ne era piena e la gente non era più gentile e neanche la polizia. Ma non mi do per vinto finché non ho trovato la Potsdamer Platz”. (3)

Dopo questo dolente accenno alla nascita del Terzo Reich riesce a convincersi che proprio il luogo in cui si trova è la piazza che cercava e, sedendosi stanco su un divano dismesso e abbandonato tra le erbacce, il vecchio Homer può finalmente dire a Cassiel: «Qui c’era la Potsdamer Platz», con i suoi palazzi, con le carrozze, i tram, i teatri, le birrerie, gli alberghi, le sale da ballo e i centri commerciali nella progettazione dei quali si cimentò lo stesso Alfred Messel, l’architetto che nel 1930 disegnò il Pergamonmuseum.

A due anni dall’uscita del film, il 9 novembre del 1989 il muro di Berlino fu abbattuto dall’incontenibile ansia di libertà della maggior parte dei berlinesi e, poco dopo la ratifica della riunificazione tedesca del 3 ottobre dell’anno successivo, cominciarono a essere proposte idee per la ricostruzione della piazza secondo modalità in tutto dissimili dalla configurazione antecedente alla guerra. Il masterplan risultato vincitore al concorso internazionale del 1991 fu pensato come qualcosa di radicalmente nuovo rispetto al passato e Postdamer Platz, fra le critiche di una parte cospicua dell’opinione pubblica, cominciò ad assumere le forme che ebbi modo di vedere da poco ultimate in un viaggio del 2006. Dalla piazza si diramano sette strade radiali. Quelle in direzione sud-ovest, poste tra la Linstrasse e la Bellevuestrasse, modellano i contorni triangolari dei lotti assegnati agli architetti Renzo Piano, Hans Kollhoff e Helmut Janh, i cui edifici raggiungono i cento metri d’altezza. L’uomo d’affari Otto Beisheim, proprietario del grande appezzamento di terreno tra l’Henriette-Herz-Park e l’Ebertstrasse, assegnò invece la progettazione dei palazzi alti circa settanta metri a diversi professionisti, tra i quali Hilmer & Sattler und Albrecht, già redattori del piano urbanistico generale.

Il risultato dei vari interventi fu un inedito skyline. La grande piazza è caratterizzata, a ovest, dal profilo animato dagli scatti sussultori di edifici che sembrano sfidare il cielo: un’appuntita prua di cristallo quella voluta da Renzo Piano per la Daimler-Benz; un grattacielo curvilineo e trasparente quello eseguito da Helmut Janh per gli uffici della Deutsch Bahn saldati all’imponente Sony Center. Di tutt’altra natura sono le altre torri. La Kollhoff Tower, opaca nei suoi mattoni di torba rossa e bruna, si eleva materica in contrappunto agli adiacenti edifici high tech. Ispirate ai grattacieli statunitensi costruiti a Chicago tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo sono invece le testate dei primi due blocchi del Beisheim Centre: compatti nella loro geometrica modularità e candidi nei rivestimenti in pietra calcarea che aggiungono un ulteriore codice linguistico al composito glossario di questa piazza multiculturale rinata anche attraverso l’impianto di architetture volutamente cosmopolite (Fig. 22). Fu questa l’impressione che provai quando, uscendo dalla stazione della metropolitana, vidi affiorare all’aria aperta quelle torri, così differenti dalle vecchie costruzioni Jugendstil e poi Art Déco che ora avverto malinconiche mentre le guardo nelle cartoline illustrate tra Otto e Novecento.

Fig. 22. Le costruzioni che plasmano oggi il profilo nord occidentale della berlinese Potsdamer Platz. Da sinistra: 1. L’edificio della Daimler Benz, progettato da Renzo Piano, 2. La torre progettata da Hans Kollhoff, 3. Il Sony Center e la sede della Deutsche Bahn, progettati dall’architetto statunitense Helmut Janh, 4. I primi due edifici del Beisheim Centre, progettati dagli architetti tedeschi Hilmer & Sattler und Albrecht.

Avevo già avuto modo di vedere molte fotografie dei nuovi edifici costruiti alla fine del terzo millennio in alcuni libri dedicati al “gran cantiere” di Berlino e in molte riviste di architettura, così piene di figure e così aride di pensieri. Del passato, neanche troppo remoto, non è rimasto più nulla e la folla, spesso ignara delle vecchie immagini di questa porzione di città, non può che limitarsi a sfiorare, come è capitato a me e a mio figlio alcuni anni fa, qualche brandello di muro del famoso ma ormai dimenticato Hotel Explanade, un albergo di lusso inaugurato nel 1908. Queste reliquie sopravvissute ai bombardamenti sono state traslate dal sito originario di un centinaio di metri e ora se ne stanno ordinatamente incapsulate (com’erano ma non dov’erano) dentro alcune teche di vetro inglobate nel modernissimo Sony Center (Figg. 23-24). Questo procedimento di ricostruzione, molto comune in ambito archeologico, è denominato “anastilosi”, una tecnica che consiste nell’assemblare, dopo accurata catalogazione, gli elementi superstiti di una costruzione parzialmente o to- talmente distrutta.

Fig. 23. Il Giardino d’inverno dell’hotel Esplanade di Potsdamer Placz in un par- ticolare dell’acquerello eseguito da Emil Limmer nel 1909, collezione privata.
Fig. 24. Lacerti murari di una delle sale dell’hotel Esplanade sopravvissuti ai bom- bardamenti e poi inglobati in una parete esterna del Sony Center, eretto tra il 1996 e il 1998.

Una congrua modernità?

Il termine latino “reliquia” significa “avanzo”. È ciò che resta di qualcosa che un tempo fu intero. Ogni città trattiene qualche reliquia, sia essa sacra oppure profana. Vedendo i modesti resti dell’hotel Explanade presso Potsdamer Platz mi sono ricordato di una reliquia molto più piccola che tutti i faentini vedono quando vanno nella sede centrale delle Poste italiane in via Naviglio. Qui, nella parete meridionale del salone per il pubblico, c’è un lacerto murario con un archetto gotico e un frammento di costolone. Appartenevano in origine all’antica base della torre campanaria sulla quale era stato eretto il nuovo campanile del complesso monastico di Santa Chiara, completamente rinnovato nei primi decenni del XVIII secolo secondo il progetto di Carlo Cesare Scaletta. Una veduta ottocentesca di Romolo Liverani ce ne restituisce l’immagine (Figg. 25-26).

Fig. 25. Veduta ottocencesca di Romolo Li- verani raffigurante il chiostro del monastero di Santa Chiara in via Naviglio che risale al XVIII secolo. In fondo è raffigurato il cam- panile (© Biblioteca Manfrediana, Faenza)
Fig. 26. Un lacerto gotico della base del campanile della chiesa del monastero di Santa Chiara in via Naviglio collocato nella sala del nuovo palazzo delle Poste, comple- cato nel 1990.

Fino al 1963, in questo tratto di via Naviglio, c’erano ancora importanti lacerti del monastero soppresso in età napoleonica, prima trasformato in istituto per ragazze e, poco dopo l’Unità d’Italia, in caserma. Oltre alle tre maniche del chiostro anche gran parte della chiesa e il campanile, seppur colpiti, si erano fortunosamente salvati dalle bombe. Anziché consolidarli e restaurarli, dopo molte discussioni, si preferì tuttavia abbatterli riducendoli a un cumulo di macerie. Sta di fatto che alla densità edilizia dell’ex monastero subentrò, come in altre porzioni di città, il vuoto di un parcheggio. Poco dopo la demolizione venne anche avanzata l’ipotesi di erigere una torre per abitazioni e uffici alta 20 piani. Questo disinvolto progetto fortunatamente non fu approvato per manifesta incompatibilità ambientale.

Intorno alla metà degli anni Settanta il Comune di Faenza acquistò saggiamente dal Demanio l’intera area con l’obiettivo di restaurare le tre ali del chiostro sopravvissute alla devastazione bellica destinandole a uffici pubblici e residenze. In quegli stessi anni lo Stato acquisì la porzione del lotto posta in fregio alle vie Naviglio e Campidori per farne la nuova sede centrale delle Poste italiane a Faenza. Per la redazione del progetto fu scelto Filippo Monti, l’architetto faentino più originale e creativo del XX secolo, che si avvalse della collaborazione del collega Paolo Baccherini. Contestualmente al restauro delle porzioni antiche, condotto dall’Ufficio lavori pubblici del Comune, cominciò quindi a prendere corpo l’idea di restituire a questo isolato la perduta compattezza edilizia attraverso il ripristino di una volumetria “a filo strada”. Rifuggendo da ogni ipotesi di rifacimento “in stile” o di falso ambientamento i due architetti disegnarono, lungo via Naviglio, un edificio a “ponte”: cieco nella superiore cortina muraria in mattoni a facciavista, rientrante e parzialmente aperto al piano terreno per permettere la comunicazione anche visiva con l’antico chiostro (l’attuale piazza Rampi). Nemmeno il lato orientale della corte interna fu ricostruito “com’era e dov’era”. Della precedente struttura fu liberamente ricomposto il volume scandito, al piano primo, dalla ritmica alternanza di sottili strisce verticali in vetro e ferro che appaiono come sospese sul piano inferiore. Malgrado alcune difformità esecutive rispetto al disegno di Filippo Monti l’edificio dialoga abbastanza bene con la strada e con le tre maniche del chiostro dell’antico monastero (Figg. 27-30).

Fig. 27. Veduta esterna dei resti dell’ex monastero di Santa Chiara in via Naviglio abbattuti nel 1963 (© Fototeca Manfrediana, Faenza).
Fig 28. Veduta della manica principale del palazzo delle Poste, su via Naviglio a Faenza.Progetto del 1986 degli architetti Filippo Monti e Paolo Baccherini.

Chi disapprovava l’inserimento di architetture moderne in contesti antichi non apprezzò questo intervento e mi piace pensare che forse l’architetto Monti, capace di indagare con occhi contemporanei l’antico “spirito dei luoghi”, si consolò ricordando quanto scrisse Marguerite Yourcenar nel romanzo Memorie di Adriano, il suo libro forse più bello: «Ricostruire significa collaborare con il tempo, nel suo aspetto di “passato”, coglierne lo spirito o modificarlo, protenderlo quasi verso un più lungo avvenire».(4)

Fig. 29. Veduta dei resti della manica orientale del chiostro dell’ex monastero di Santa Chiara in via Naviglio a Faenza. La chiesa e il campanile erano sopravvissuti alle distruzio- ni belliche, ma vennero abbattuti nel 1963 (© Fototeca Manfrediana, Faenza).
Fig. 30. Veduta odierna del prospetto della manica orientale del palazzo delle Poste gravi- tante sul chiostro dell’ex Monastero di Santa Chiara (oggi piazza Rampi).

Nessuna cosa in eccesso

Il rapporto tra “modernismo e conservazione” è una questione molto dibattuta e intorno alla quale si accendono ancora gli animi. Si tratta dell’antica tensione tra traditio e renovatio che io stesso, cercando di accarezzare con benevolenza le pietre dei vecchi edifici, ho sperimentato in diverse opere di ristrutturazione e restauro.

All’inizio del Novecento quella tensione era stata evocata dallo storico dell’arte Alois Riegl che, per gli interventi in contesti antichi, aveva registrato l’inevitabile dialettica tra il “valore di antichità” e il “valore di novità”; valori non necessariamente e non sempre in conflitto (5). Il “valore delle antichità”, poco coltivato nel corso del Medioevo, cominciò a essere riconosciuto all’inizio del Rinascimento. Già nel 1425 papa Martino V, nella bolla Etsi de cunctarum, definì empie ed esecrabili le trasformazioni degli antichi manufatti edilizi e tentò di imporre – restando spesso inascoltato – la demolizione delle nuove costruzioni abusivamente addossate ai monumenti dell’antica Roma. Dopo di lui fu papa Pio II Piccolomini a fissare precise norme di tutela nella bolla del 1462 il cui incipit recita: «Cum almam nostram urbem in sua dignitate et splendore conservari cupiamus» (“Perché desideriamo che la nostra vitale città sia conservata nella sua dignità e nel suo splendore”). Tale desiderio, visti gli insuccessi nell’azione di salvaguardia delle antichità, fu poi alla base della celebre lettera indirizzata da Raffaello Sanzio e Baldassarre Castiglione a papa Leone X al fine di richiedere la tute- la di tutti i reperti dell’antica Roma attraverso una loro preventiva e rigorosa catalogazione (6). Prima di Pio II, di Raffaello e del Castiglione il senso della pietas per i luoghi del passato prossimo o remoto era appartenuto anche a Leon Battista Alberti. Il grande architetto e umanista non aveva infatti potuto guardare alle rovine di Roma se non con le lacrime agli occhi (eadem non sine lachrymis videbam in dies deleri) (7). Quel pianto però non segnalava puramente l’insorgere di una nostalgia per l’antico splendore delle forme. Più in profondità esso esprimeva la coscienza di un’insanabile frattura: se sono le rovine a narrarci le lacerazioni del tempo, sono proprio quelle pietre consunte e violate a farci intendere che, nello scorrere del tempo, il ritorno agli assetti originari è spesso impossibile. Anche per questo motivo l’Alberti non rinunciò alla novitas. Ma lo fece sempre con misura.

È noto che sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, accanto all’iscrizione: «Conosci te stesso», ne campeggiava un’altra: «Nessuna cosa in eccesso». Ecco, in ogni intervento architettonico condotto in un contesto antico (sia esso un restauro, un ripristino o una nuova costruzione) il senso apollineo della misura dovrebbe sempre prevalere su ogni pulsione creativa votata all’eccesso. Un gesto dionisiaco difficilmente si addice, per me, a un progetto in un centro storico; sia nella grande sia nella piccola dimensione.

Mi sono trovato a dover restaurare a Faenza un palazzotto di origine quattrocentesca denominato Palatiolum, collocato in via Sarti. Alla fine del XVIII secolo l’edificio aveva subìto ampliamenti sia in orizzontale sia in verticale. Tali opere, che in gergo tecnico chiamiamo “superfetazioni”, erano andate a inglobare entro nuove strutture murarie anche l’antico portico, trasformandolo in un ordinario androne (Fig. 31).

Fig. 31-32. Il portico del Palatiolum, sito in via Sarti a Faenza, durante i lavori eseguiti tra il 1996 e il 1999 e dopo la loro conclusione, su progetto di Giorgio Gualdrini.

Dopo aver verificato l’insufficiente resistenza meccanica delle colonne in mattoni causata dalla settecentesca aggiunta di un piano alla sommità dell’edificio, in accordo con la Soprintendenza alle Belle Arti ho proceduto alla demolizione delle incongrue murature di tamponamento, sostituendole con moderne stampelle metalliche capaci di contrastare i pesi altrimenti gravitanti sulle antiche ma deboli strutture (Fig. 32). Per questo particolare intervento, condotto cercando di far dialogare con un certo equilibrio il “valore di antichità” e il “valore di novità”, mi sembrò corretto adottare il già citato adagio di Camillo Boito: «Far io devo così che ognun discerna esser l’aggiunta un’opera moderna».

Anche il nuovo portale di un’antica chiesa di Maastricht, in Olanda, è “un’opera moderna” che è andata a collocarsi entro la generale ristruttuirazione del cinquecentesco monastero di Kruisheren. Da anni dismesso, all’inizio del terzo millennio il complesso monastico è stato trasformato in hotel, stravolgendo soprattutto l’interno dell’aula liturgica con scale, soppalchi ed eccentrici arredi per la ristorazione. Qui il dialogo con le pre- esistenze è diventato addirittura una sorta di battaglia, che è fuoriuscita all’esterno dell’involucro murario invadendo il piccolo sagrato (Fig. 33).

Fig. 33. Il nuovo ingresso alla chiesa del cinquecentesco monastero di Kruisheren, trasformato in hotel, Maastricht, Olanda (Satijnplus Architecten, 2005).

Questo manufatto, per me eccessivo nonché superfluo, mi ha fatto ricordare una polemica che qualche anno fa infiammò la città di Faenza. La cittadinanza era semplicemente venuta a sapere che la diocesi, in seguito a un lascito testamentario, aveva indetto un concorso a inviti per far eseguire le nuove porte della cattedrale in sostituzione di quelle, anonime, risalenti al XIX secolo: un’operazione in sé legittima e abbondantemente sperimentata con esiti più o meno convincenti in altre chiese e cattedrali. Proprio alcuni giorni fa, a Ravenna, è stato ad esempio annunciato che l’artista Mimmo Paladino ha progettato la nuova porta d’ingresso alla basilica di San Francesco, la cui costruzione risale alla fine del primo millennio. Ritornando alla micro- storia faentina nessuno, eccetto i membri della Commissione Giudicatrice del concorso, aveva ancora visto i bozzetti dei vincitori. Nessuno, quindi, poteva esprimere un giudizio di merito. Tuttavia, la sola ipotesi che si giungesse all’esecuzione di un intervento d’arte contemporanea nel più importante edificio della città scatenò una polemica che comportò anche la lacerazione di una porzione del tessuto associativo cittadino, nonché la fine di molte amicizie. È vero: Amicus Plato, sed magis amica veritas (Platone è mio amico ma mi è più amica la verità). Ma chi può dire di possedere la verità?

Lo sappiamo: il dialogo fra il moderno e l’antico è difficile. Anch’io, per il mestiere che faccio, mi sono trovato ad affrontarlo e anch’io sono stato oggetto di critiche che molto mi hanno ferito. Da tempo ho trovato però qualche consolazione in queste parole di Joseph Roth, pubblicate molti anni dopo la sua morte: «Da qualche parte deve pur esistere, credo, una regione protetta nella quale il nuovo, deponendo le armi e issando la bandiera bianca della pace, possa penetrare senza far troppi danni». (8)

La piazza del Neumarkt e la Frauenkirke prima della Seconda Guerra Mondiale
La piazza del Neumarkt e la Frauenkirke dopo i bombardamenti del 1945
La piazza del Neumarkt e la Frauenkirke oggi
Potsdamer Platz negli anni Trenta del XX secolo
Potsdamer Platz negli anni Sessanta del XX secolo
Potsdamer Platz all’inizio del XXI secolo

NOTE:

 

1 Cit. in G. Romanelli, Com’era e dov’era? In Aa.Vv. Il campanile di San Marco. Il crollo e la ricostruzione. 14 luglio 1902-25 aprile 1912, Silvana editoriale, Milano 1992, p. 14.

2 M. De Certau, L’invenzione del quotidiano (1990), trad. it. M. Baccianini, Edizioni del lavoro, Roma 2012, pp. 164-165.

3 La trascrizione dal dvd de Il Cielo sopra Berlino di Wim Wenders è mia.

5 A. Riegl, Il culto moderno dei monumenti. Il suo carattere e i suoi inizi (1903), trad. it. R. Trost, a cura di S. Scarrocchia, Abscondita, Milano 2011, pp. 9-73.

6 Un’importante edizione critica della lettera, scritta nel 1519 ma pubblicata per la prima vol- ta solo nel 1733, è da poco uscita per l’encomiabile iniziativa di Francesco Paolo Di Teodoro, storico dell’architettura del Politecnico di Torino: Lettera a Leone X di Raffaello e Baldassarre Castiglione, edizione critica a cura di F.P. Di Teodoro, Maddali e Bruni editori, Firenze 2021.

7 L.B. Alberti, De re edificatoria, VI, 1452. Per la edizione italiana si veda: L.B. Alberti, L’arte di costruire, a cura di V. Giontella, Bollati Borighieri, Torino 2010, p. 210.

8 J. Roth, Al bistrot dopo mezzanotte (1999), trad. it. G. de’ Grandi, F. Rondolino, F. Bus- sotti, L. Russino, Adelphi, Milano 2009, p. 135.

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