Nell’agosto del 2016, in piena guerra civile, la Turchia è intervenuta nella Siria settentrionale con la scusa di combattere il terrorismo e, servendosi di milizie sunnite locali, è arrivata a controllare una vasta area-cuscinetto. Lo scopo non è quello di sconfiggere definitivamente l’Isis ma di impedire il radicamento di qualunque forma di autogoverno curdo.
Dopo quel primo intervento, ci sono state altre due operazioni militari in Siria, iniziate rispettivamente il 20 gennaio 2018 e il 9 ottobre dell’anno successivo, durante le quali le forze turche sono state affiancate da varie milizie, alcune delle quali avevano combattuto con l’Isis, e dall’Esercito Nazionale Siriano, composto principalmente da combattenti arabi e turcomanni. Le operazioni militari sono costate la vita a decine di civili e hanno costretto alla fuga circa 150 mila curdi. Nelle aree sotto il controllo turco sono avvenuti gravi e ripetuti episodi di violazione dei diritti umani, soprattutto contro le minoranze curde e yazide, tanto che il Consiglio per i Diritti Umani dell’ONU ha pubblicato un rapporto, frutto delle sessioni tenute tra 24 febbraio e il 20 marzo 2020, in cui si afferma che la “Commissione valuta che esistano prove ragionevoli per ritenere che ad Afrin siano stati commessi crimini di guerra come rapimenti, trattamenti crudeli, torture e saccheggi”.
La conferma si è avuta il 7 giugno scorso, quando è stato ritrovato il corpo senza vita di una sedicenne curda, rapita qualche giorno prima da una milizia sostenuta dai turchi e denominata Sultan Murad. La giovane era stata violentata e poi uccisa con tre colpi alla testa e il suo corpo gettato in un fossato usato come discarica, vicino a una fattoria nel villaggio di Al-Ferziyya. Purtroppo, questo non è che l’ultimo episodio di decine di casi simili che hanno lo scopo di terrorizzare la popolazione curda e farle abbandonare l’area, in cui il governo turco vorrebbe stanziare migliaia di arabi siriani. Un altro scopo di queste azioni è quello di far scomparire le donne dallo spazio pubblico, costringerle a rimanere in casa e fare quello che l’ideologia del fondamentalismo islamico prevede per loro: generare figli e occuparsi dei lavori domestici. Le radici del problema affondano in un passato lontano.
La Grande guerra e la fine del sogno curdo
I curdi, che sono oggi circa 35 milioni, si trovano ad essere sparpagliati tra Turchia (12 milioni), Iran (6 milioni), Iraq (5/6 milioni), Siria (meno di 2 milioni), Armenia e Azerbaigian, a cui si aggiungono gli emigrati in USA ed Europa. I curdi sono una popolazione di origine iranica che nel VII secolo si convertì all’islam, principalmente sunnita, anche se sono presenti diversi culti minoritari. Nel 1918, con il dissolvimento dell’impero ottomano, in cui erano stati inglobati intorno al XVI secolo, i curdi sperarono che fosse arrivato il momento per costruire un loro Stato nazionale: il Trattato di Sèvres del 10 agosto 1920 stabiliva infatti il diritto all’autonomia per la popolazione curda in un ristretto territorio. Il governo turco si oppose a questa decisione e il Trattato di Losanna del 1923 annullò quanto stabilito, riconoscendo alla Turchia il controllo del settore più ampio del Kurdistan e per questa ragione la maggioranza del popolo curdo vive oggi in Turchia. I curdi non sono però un blocco monolitico e hanno fisionomie e alleanze diverse da Paese a Paese.
In Turchia, dove abitano prevalentemente la regione orientale, sono una minoranza perseguitata, la lingua curda è vietata, non si può usare il termine Kurdistan e i curdi stessi sono definiti “turchi dell’Est”. La principale organizzazione curda è il Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK), fondato nel 1978 da Abdullah Öcalan, che si batte per i diritti negati e rivendica la creazione di uno Stato curdo. Il PKK è spesso ricorso a tattiche terroristiche in risposta alla brutale repressione dei vari governi turchi che ha causato decine di migliaia di morti tra i civili. Nel 1999 il capo del PKK viene arrestato e il suo partito proclama una tregua unilaterale che conduce all’apertura di negoziati che oggi, soprattutto per colpa di Erdogan, sono arrivati ad un punto morto. La Turchia reprime con durezza ogni forma di autonomia, non solo sul proprio territorio, ma anche nella confinante Siria perché vede in un ipotetico Stato autonomo curdo in Siria un modello che potrebbe fungere da catalizzatore per richieste analoghe in Turchia. Per questa ragione, come si è già accennato, il 9 ottobre 2019 truppe turche hanno invaso la parte settentrionale della Siria e attaccato i curdi, chiamati sempre ”terroristi”, dopo ripetuti bombardamenti che hanno fatto molte vittime civili. L’operazione, condotta congiuntamente con milizie arabe che fanno il lavoro sporco per conto di Ankara, è tuttora in corso.
Lo scopo di Erdogn, che si è mosso con il sostanziale assenso dell’amministrazione Trump, è quello di creare, in aperta violazione della legge internazionale, un’area cuscinetto larga circa 30 chilometri e lunga 120 chilometri da cui scacciare i curdi e ricollocare i milioni di profughi siriani fuggiti in Turchia a causa della guerra civile. A differenza dei curdi iracheni, che hanno da tempo una loro regione autonoma all’interno dell’Iraq (il Kurdistan iracheno), i curdi siriani sono riusciti ad ottenere una certa autonomia soltanto recentemente, nel corso della guerra contro l’Isis, a cui hanno dato un contributo determinante in termini militari. La regione da loro controllata viene denominata “Rojava Kurdistan” (cioè Kurdistan occidentale), di solito abbreviato in Rojava, un’area piatta che non consente una resistenza con tecniche di guerriglia e questa è la ragione per cui, con la mediazione russa, hanno abbandonato la zona invasa dalle truppe turche, spostandosi più a Est.
Il modello sociale curdo
Il governo dei territori siriani sotto il controllo curdo è garantito dal Partito dell’Unione Democratica (la sigla in curdo è PYD), un partito che si potrebbe definire di ispirazione “socialista-libertaria” e promuove un’idea di società aperta, in cui donne e uomini hanno uguali diritti e doveri, completamente assente nel resto del mondo islamico. Questa concezione liberale della società, riflessa in una Costituzione di stampo democratico, pluralista, ecologista e femminista, ha suscitato molte simpatie a livello internazionale anche perché punta sul ruolo delle comunità locali nella gestione del potere. Ci sono stati centinaia di volontari stranieri che si sono arruolati nelle loro milizie, le Unità di Protezione Popolare (YPG). Si è anche molto parlato delle milizie formate da sole donne, l’Unità di Protezione delle Donne (YPJ), che si sono battute coraggiosamente sul campo, una cosa rarissima in Medio Oriente: in particolare le immagini delle donne curde a volto scoperto che combattono i miliziani dell’Isis hanno avuto un grosso impatto in Occidente.
In un’intervista concessa all’Huffington Post il 10 ottobre 2019, la scrittrice Dacia Maraini ha detto: “Sono piena di ammirazione per queste ragazze, per queste donne curde che combattono non solo per difendere un territorio, ma per difendere la libertà del loro popolo e per i diritti che come donne hanno conquistato. Loro sì che rappresentano un esempio, una speranza. Per questo chiunque di noi abbia una coscienza democratica, soprattutto noi donne, non possiamo non dirci ‘curde’ ed essere a fianco di queste straordinarie combattenti per la libertà”. Nell’area di Baghuz, l’ultima roccaforte dell’Isis in Siria prima della sconfitta, è stato emanato un decreto che equipara uomini e donne, “uguali in tutte le sfere della vita pubblica e privata”, abolendo al contempo delitti d’onore e nozze forzate. Sempre nel Rojava sorge il villaggio di Jinwar, dove è nata una comunità di sole donne yazide, una minoranza che ha subìto violenze inenarrabili da parte dell’Isis, mentre a Qamshili, capitale non ufficiale del territorio, è stata fondata una università aperta indistintamente a uomini e donne
Con il voltafaccia degli Stati Uniti, le aspirazioni dei curdi sono state tradite ancora una volta, come già avvenne nel 1923 col Trattato di Losanna, e non è chiaro quale potrà essere il loro destino. Si può affermare però che, oltre a tutte le sfide implicite in un cambiamento strategico dello status quo, una delle ragioni per cui uno Stato curdo fa paura è che con la sua potenziale democrazia liberale, rappresenta una sfida inaccettabile per tutti i governi dell’area, forse con la sola eccezione di Israele e Giordania. È ovvio che le donne soldato curde, libere e belle, fanno paura alla Turchia bigotta, all’Iran degli Ayatollah e alle monarchie del Golfo, in primis l’Arabia Saudita, dove le donne non hanno diritti e non possono nemmeno esprimere la loro femminilità, costrette come sono a nascondersi sotto lugubri manti neri che le intabarrano dalla testa ai piedi.
Oggi la soluzione del problema curdo non è più all’ordine del giorno e, nell’attuale clima politico internazionale, non sembra molto realistico ipotizzare una ripresa del tema. Dopo il tradimento degli Stati Uniti che hanno lasciato mano libera alla politica neo-ottomana di Erdogan, serpeggia molta amarezza tra gli esponenti di questa minoranza che non è mai riuscita a diventare Stato, come si evince dalla lettera del giornalista Shorsh Surme, pubblicata dal Corriere della Sera il 26 giugno 2020 e che riproduciamo qui sotto:
Sono un giornalista curdo direttore del panoramakurdo.it. Vorrei trasmettere la sofferenza e la tragedia del mio popolo. Finché i curdi servivano per combattere i tagliagole dell’Isis tutti ne parlavano, invece quando l’Isis è stato sconfitto, proprio grazie ai curdi, donne e uomini che si sono sacrificati non solo per la loro libertà ma per la libertà della comunità internazionale e in primis quella dei Paesi dell’Europa, ora i curdi come sempre sono soli, non solo a combattere l’Isis ma anche la Turchia di Erdogan, Stato membro della NATO, e membro del Consiglio d’Europa. Ma nessuno dice nulla. Come sempre, due pesi due misure.
Parole dolenti e sofferte rivolte a un’Europa, impaurita dalla pandemia ancora in corso e dalla gravissima crisi economica che si prospetta per i prossimi mesi, ma attanagliata anche dalle piccole beghe volgari degli interessi particolari. Mai come ora è necessario pensare in grande perché, nonostante tutti i problemi e le criticità, il nostro continente rimane ancora la culla delle idee di giustizia sociale e diritti umani, che non possono essere concezioni vuote ma devono diventare realtà palpitanti e operative. In caso contrario, rischiamo di perdere la nostra anima secolare.
di Galliano Maria Speri
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