di Axel Famiglini
Si è a lungo dibattuto su quali potessero essere le conseguenze geopolitiche di un accordo sul nucleare iraniano tra le potenze del cosiddetto gruppo 5+1 e l’Iran e le posizioni che sono emerse da questo multiforme confronto dialettico tenutosi a livello mediatico hanno evidenziato una variegata rosa di opinioni più o meno articolate inerenti i mutamenti internazionali legati al raggiungimento di tale intesa. I recenti eventi che vedono protagonisti la Siria e l’intervento russo-iraniano nel Paese hanno infine fornito alle centinaia di commentatori internazionali di politica estera alcune risposte chiare su quale sia stato il costo geostrategico pagato dall’Occidente a scapito della stabilità mondiale a seguito della firma nel luglio 2015 dell’intesa sul programma atomico promosso dal regime degli Ayatollah.
Un primo “casus belli”: l’attentato di Suruc
La Turchia è stata funestata il 20 luglio scorso da un grave attentato compiuto dagli estremisti dell’ISIS ai danni di un nutrito gruppo di attivisti socialisti filocurdi che dalla città di Suruc si accingeva a recarsi a Kobane per portare il proprio contributo alla ricostruzione della città a lungo contesa tra Curdi e miliziani dell’ISIS. La reazione dell’opposizione politica turca e curda, a seguito di tale attacco terroristico, non si è fatta attendere, portando politici e manifestanti a denunciare apertamente il presidente Erdogan di essere corresponsabile dell’attentato, in particolare a fronte delle numerose accuse rivolte nel corso del tempo contro il governo turco il quale, secondo i critici nazionali e non della politica estera di Ankara, avrebbe lasciato operare e prosperare l’ISIS all’interno dei confini della Turchia con lo scopo di agevolare i piani di Erdogan tesi ad ottenere la deposizione del presidente siriano Assad. La Turchia negli ultimi anni ha indubbiamente chiuso un occhio sulle attività clandestine di contrabbando, passaggio di uomini e trasferimento di mezzi avvenute attraverso il proprio confine con la Siria. La scenario siriano è stato caratterizzato fin dallo scoppio della locale primavera araba da una serie di pesi e contrappesi geopolitici che hanno permesso la coesistenza sul campo di battaglia di numerosi attori politico-militari locali, legati sia ai ribelli che al regime, garantendo in tal modo, pur con alterne fortune, la sopravvivenza dei principali gruppi armati collegati a vario titolo al variegato mondo degli “sponsor” internazionali della guerra civile siriana. Ostacolare le linee di rifornimento dell’ISIS avrebbe potuto causare agli occhi della Turchia un vantaggio eccessivo per il regime di Assad e, probabilmente, chiudere ufficialmente le frontiere al passaggio dei rifornimenti e di tutti gli aspiranti guerriglieri avrebbe parimenti svantaggiato gli stessi ribelli spalleggiati dalla Turchia stessa. Dato che tra l’ISIS ed il regime esiste un rapporto sia di collaborazione che di concorrenza, dal punto di vista turco si è forse ritenuto opportuno considerare l’eventualità di non mettere in eccessiva difficoltà l’ISIS, evitando di mutare i precari e non del tutto prevedibili equilibri bellici in essere nella martoriata Siria. Tuttavia i recenti successi curdi nella Siria settentrionale ottenuti dall’YPG, braccio armato del partito curdo-siriano PYD, a sua volta affiliato al partito curdo PKK turco (un tempo vicino al regime di Assad), hanno allarmato non poco Ankara la quale teme che le vittorie militari dei Curdi siriani nel nord della Siria (nonché l’affermazione elettorale curda nella Turchia stessa) possano rappresentare non solo il viatico utile per la proclamazione unilaterale di uno stato curdo indipendente ma anche il segnale di “via libera” per i Curdi turchi teso ad incoraggiare l’unione definitiva tra le loro forze e quelle dei loro fratelli in Siria, arrivando così a minacciare l’integrità territoriale della Turchia stessa. L’ISIS, ben conscio delle preoccupazioni turche e dei potenziali comuni interessi in essere con Ankara, si è probabilmente sentito legittimato ad agire in territorio turco contro i Curdi e i loro alleati dato che se la Turchia teme l’indipendentismo curdo, l’ISIS si sente minacciato dal ruolo militare che i Curdi stanno assumendo ai loro danni. La Turchia ha forse reputato improbabile che l’ISIS – nonostante la sostanziale voluta noncuranza con la quale le autorità di Ankara hanno monitorato le attività del sedicente “Stato Islamico” all’interno del proprio territorio – potesse ritenere di essere ufficiosamente legittimato dal governo ad agire impunemente all’interno del territorio nazionale turco e non ha considerato, al contrario, che l’ISIS potesse in qualche modo ritenersi libero di operare indisturbato con la convinzione che tali azioni terroristiche potessero in qualche modo essere giudicate utili anche dal governo turco ed approvate “sotto banco” dallo stesso. Il governo turco ha compreso l’errore di valutazione effettuato e ha agito lungo due principali direttive strategiche. In primo luogo ha accettato che la coalizione internazionale a guida statunitense, la quale premeva politicamente sulla Turchia da parecchi mesi al fine di ottenere una sua adesione allo sforzo militare internazionale contro l’ISIS, potesse far partire i propri voli di bombardamento contro gli uomini del califfo da basi aeree più vicine al teatro dei combattimenti, collocate in territorio turco, come quelle di Incirlik e Pirinçlik. Da questo punto di vista l’azione politica esercitata dal presidente Obama sul presidente turco Erdogan in sostanziale contemporaneità con l’attentato compiuto dall’ISIS in Turchia, finalizzata a spingere l’acceleratore sulla richiesta di utilizzo delle basi turche nella lotta contro l’ISIS, non è stata certamente casuale. Tuttavia Erdogan da un lato ha colto l’opportunità di creare maggiori pressioni sull’ISIS al fine di iniziare a riportarlo all’ordine e di evitare una rivolta curda in Patria nonché di stemperare le già numerose critiche internazionali rivolte nei suoi confronti e dall’altro ha richiesto agli Stati Uniti il loro appoggio politico per esercitare un’energica azione di contrasto contro i Curdi stessi, i quali, a seguito dell’azione terroristica compiuta a Suruc, avevano iniziato ad attaccare le forze di sicurezza turche considerate dai medesimi Curdi come corresponsabili delle azioni terroristiche dell’ISIS. I Turchi oltretutto si attendono che una delle conseguenze generate dall’accordo per la concessione delle basi aeree agli Usa sia quella che gli stessi Stati Uniti si impegnino a frenare le pressioni indipendentiste curde in Iraq, Siria e nella stessa Turchia. Erdogan, il quale, al contrario di Obama, è un uomo politico caratterizzato da un grande realismo e, soprattutto, da una chiarezza di intenti su quali siano i suoi obiettivi in Siria ed in Medioriente (basti ricordare le mai sopite ambizioni “neottomane” che hanno da lungo tempo contraddistinto il suo governo), ha saputo trasformare un grave momento di difficoltà politica domestica (legata anche all’esito non soddisfacente delle elezioni parlamentari del giugno 2015) ed internazionale in un’occasione per ridimensionare le ambizioni sia dell’ISIS che, soprattutto, della storica spina nel fianco della Turchia, ovvero i Curdi stessi. Non è un caso se gli attacchi promossi dall’esercito turco in risposta all’attentato di Suruc, dopo alcune scaramucce con l’ISIS presso il confine, si siano rivolti in primo luogo contro il PKK sia in patria che in Iraq nonché contro i Curdi siriani. Allo stesso modo non è certamente sfuggito il fatto che gli Stati Uniti del presidente Obama prima abbiano utilizzato e sovvenzionato i Curdi nella lotta contro lo Stato Islamico e poi abbiano rapidamente abbandonato i Curdi stessi al loro destino per ottenere in cambio un pugno di basi dalla Turchia e contestualmente sbandierare al mondo qualche presunto successo internazionale nella lotta contro l’ISIS. Ankara ha parimenti promesso nuovi controlli alla frontiera e la creazione di una barriera sulla medesima linea di demarcazione tra Siria e Turchia. Ufficialmente tali misure preventive sono state annunciate per evitare le infiltrazioni dello Stato Islamico, tuttavia è altrettanto palese che in questo modo la Turchia potrà modulare a suo vantaggio il fondamentale afflusso di uomini e mezzi in essere tra Curdi siriani e Curdi turchi. Gli stessi Paesi del Golfo, che pure avevano dimostrato un certo sostegno nei confronti dei Curdi nella lotta contro l’ISIS e che avevano parimenti mosso critiche nei confronti dei raid aerei turchi compiuti contro gli obiettivi del PKK in Iraq (critiche ufficialmente non condivise dal Qatar), hanno supportato pienamente la Turchia nel momento in cui l’unità territoriale del Paese veniva messa in discussione, avendo ben presente che anche altri Paesi dell’area sono pericolosamente permeati da analoghe tensioni indipendentiste alimentate, a volte, dal principale rivale regionale dei Paesi sunniti, l’Iran degli Ayatollah. Esiste un ulteriore elemento da considerarsi per comprendere le motivazioni che hanno spinto i Turchi a compiere alcuni attacchi militari contro l’ISIS, azioni belliche che sono state intraprese ufficialmente in risposta all’attentato terroristico di Suruc ma che sono legate allo stesso modo (e probabilmente si sarebbero prodotte ugualmente e con differenti giustificazioni) alla mai sopita richiesta di costituzione di una zona di non volo posta sulla Siria settentrionale finalizzata sia alla creazione di un rifugio per i ribelli anti-Assad supportati da Ankara che alla costituzione di un cuscinetto territoriale che funga da cuneo rispetto la creazione di uno stato curdo autonomo unitario. Il confine tra Turchia e Siria è dominato prevalentemente dall’ISIS e dai Curdi siriani. I Curdi hanno recentemente strappato all’ISIS alcune aree poste nel nord della Siria, provocando il ritiro delle truppe del sedicente Califfato verso ovest, ovvero verso una piccola zona ubicata a ridosso del confine e collocata a nord di Aleppo ancora controllata dai ribelli moderati supportati dalla Turchia. In tale area è presente il fondamentale valico di Kilis attraverso il quale passano gli aiuti per i ribelli impegnati nella lotta sia contro Assad che contro l’ISIS. Inoltre se il valico di Kilis dovesse cadere in mano ai Curdi si unirebbero due importanti porzioni di territorio poste sotto il controllo curdo lungo il fianco meridionale del confine turco che potrebbero potenzialmente costituire un primo embrione di stato curdo indipendente, eventualità vista come fumo negli occhi dalla Turchia. Da questo punto di vista la richiesta turca di una zona di non volo da collocarsi nel nord della Siria possiede anch’essa una doppia valenza: creare un luogo sicuro di appoggio per le milizie anti-Assad e per i civili in fuga e parimenti evitare il ricongiungimento territoriale fra i vari “feudi” controllati dai Curdi siriani.
Mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata
La mossa turca volta a sfruttare l’attacco terroristico operato dall’ISIS per iniziare a regolare i conti con i Curdi galvanizzati da un successo militare dietro l’altro certamente si inserisce in un contesto nel quale l’accordo sul nucleare iraniano ha dato il via libera ad un nuovo ruolo geopolitico dell’Iran e del suo alleato russo. L’accettazione americana del ritorno di Teheran all’interno del tavolo politico del Medioriente ha indotto Turchia e Paesi arabi a riconsiderare in maniera ancora più radicale le proprie posizioni geostrategiche nella regione, accettando ormai il dato di fatto che non pochi obiettivi politici degli Stati Uniti non corrispondano più pienamente con le proprie finalità. Paesi Arabi e Turchia, essendo ancora dipendenti dalla tecnologia militare americana, hanno pensato bene di fare buon viso a cattivo gioco, accettando infine formalmente l’intesa sul nucleare di Teheran e contestualmente incamerando come riparazione geostrategica le forniture belliche offerte da Washington a fronte dello sdoganamento della potenza militare iraniana. Parimenti Israele, ben consapevole che i giochi mediorientali stiano subendo un mutamento radicale, pur non accettando ancora l’accordo politico tra Teheran e le potenze del 5+1, ha comunque accolto le offerte di tecnologia militare americana all’interno di uno scenario nel quale le minacce alla sua sicurezza nazionale si stanno facendo sempre più crescenti. E’ indubbiamente sintomatico di un completo sbandamento occidentale in tema di politiche mediorientali quanto accaduto negli ultimi mesi sia sui tavoli della diplomazia che su quelli degli stati maggiori. Inizialmente Russia ed Iran, all’indomani della firma dell’intesa sul nucleare iraniano, sono stati promotori di un rilevante sforzo diplomatico internazionale teso a trovare una via d’uscita alla crisi siriana, moltiplicando i contatti fra i vari attori regionali . Lo stesso Segretario di Stato americano Kerry è stato coinvolto a più riprese in questa serie di colloqui, probabilmente ritenendo che il “clima positivo” generato attorno all’appianamento della questione nucleare iraniana potesse aprire le porte per una soluzione alla guerra civile in Siria. Russia e Stati Uniti si sono fatti promotori di una risoluzione Onu volta a promuovere indagini sulle responsabilità legate all’utilizzo del cloro quale arma chimica in Siria, a cui sarebbe dovuta seguirne un’altra sostenuta da Parigi rispetto l’impiego dei cosiddetti “barli-bomba” utilizzati da parte del regime di Damasco. La stessa Francia, la quale richiede, assieme al Regno Unito, la fine del regime di Assad, a fronte di questi frenetici e, potenzialmente, risolutivi contatti internazionali e del contestuale riavvio delle lucrose relazioni commerciali con Teheran, ha aperto la porta alla possibilità che l’Iran possa portare in qualche modo un contribuito positivo e determinante alla risoluzione della crisi siriana. Il Regno Unito, volendo giocare il ruolo di mediatore diplomatico con un occhio ben piantato sulle vaste opportunità presenti nel mercato iraniano, ha accelerato la riapertura della propria ambasciata a Teheran e parimenti ha lanciato la proposta volta a permettere ad Assad di giocare un ruolo nella transizione democratica del Paese, pur con la richiesta perentoria che alla fine di questo processo Assad si dimetta e non si ripresenti più alle elezioni presidenziali. La risposta di Damasco tuttavia non si è fatta attendere, negando che Londra o qualunque altra potenza “ostile” potesse in qualche modo imporre ad Assad un qualunque tipo di futuro politico “a casa sua”. Tale chiusura al dialogo, nonostante anni di morte e distruzione in Siria, da parte del governo di Damasco potrebbe essere considerata come una sorta di primo “campanello d’allarme” rispetto quanto stava in realtà accadendo in Medioriente dietro le quinte dei tavoli della diplomazia. Infatti mentre le profferte di pace e i colloqui internazionali di distensione seguivano senza sosta, Mosca e Teheran stavano muovendo rapidamente le proprie pedine sullo scacchiere militare mediorientale. Il regime di Assad nella prima parte dell’anno ha subito una numerosa serie di rovesci militari per opera di una nuova potente alleanza ribelle denominata “Esercito della Conquista”, supportata da Arabia Saudita, Qatar e Turchia. I ribelli anti-Assad sono giunti a minacciare il nucleo territoriale fondante della minoranza alawita al potere, avvicinandosi pericolosamente alla città di Latakia e al porto di Tartus, ove è presente un’importante base navale russa. Le conseguenze geopolitiche dell’accordo sul nucleare iraniano hanno nei fatti dato il via libera all’Iran e al suo sponsor internazionale, la Russia di Putin, al fine di giocare un ruolo di primo piano in seno alle numerose crisi mediorientali in corso, ovvero laddove gli Stati Uniti di Barack Obama non intendono più impegnare in maniera pressante e continuativa ingenti quantitativi di uomini e mezzi. Da questo punto di vista l’impiego della diplomazia da parte di Mosca e Teheran è risultato solo essere un espediente teso a guadagnare tempo a favore del loro alleato siriano in grave difficoltà e ad orchestrare un intervento militare che ha via via portato soldati ed aerei russi in Siria, nonché milizie sciite dal vicino Iraq, dall’Iran e Paesi limitrofi, formazioni dell’esercito regolare iraniano e nuove truppe appartenenti ad Hezbollah. L’intervento militare russo-iraniano, il quale ha visto la costruzione di nuove basi permanenti moscovite in terra siriana, ha costituito un salto di qualità del conflitto in corso in Siria dato che fino a poche settimane fa la guerra civile siriana si qualificava essenzialmente come una guerra per procura nella quale forze locali o non direttamente riconducibili a Paesi terzi impersonavano gli interessi geopolitici dei vari attori internazionali in gioco e delle relative sfere di influenza. La profonda crisi politico-militare del regime di Assad ed il disimpegno americano hanno suggerito a Russi ed Iraniani l’opportunità di intervenire direttamente in Siria al fianco di Assad, rischiando però di trasformare il conflitto in uno scontro diretto. Gli Americani dal canto loro, nonostante le dichiarazioni di Obama, in sede Onu, tendenti a riaffermare la richiesta di dimissioni del presidente Assad, non sembrano particolarmente interessati alle sorti dell’opposizione armata siriana da loro stessi supportata attraverso un programma di assistenza della CIA. Washington in realtà sta mostrando due facce: una tesa a condannare l’intervento russo e l’altra volta a concentrare i propri sforzi (peraltro piuttosto scarsi fino ad oggi) contro lo Stato Islamico a favore di una rinnovata alleanza di milizie curde (certamente perplesse per l’accettazione americana dei bombardamenti turchi contro il PKK) con gruppi arabi locali sorta dopo il fallimento e la chiusura del programma americano di addestramento dei ribelli siriani in funzione anti-ISIS (ma non anti-Assad). In particolare i ripetuti attacchi che le poche decine di ribelli addestrati dagli Usa hanno subito per opera di Al-Nusra (già responsabile in passato dello “smantellamento” di altri gruppi ribelli supportati direttamente dagli Stati Uniti) probabilmente sono volti ad inviare un chiaro messaggio a Washington da parte dei sostenitori internazionali del gruppo islamista (si veda Qatar e Turchia in primis), teso a sottolineare il fatto che senza questi sul terreno siriano non sia possibile intavolare alcun piano o attuare alcuna strategia vincente. Il vuoto geopolitico lasciato dagli Stati Uniti si evince parimenti dalle ulteriori iniziative che Russi, Iraniani, regime di Assad ed Iracheni stanno compiendo in Medioriente, come la costituzione di un comando militare congiunto a Baghdad con la finalità di coordinare, sotto il profilo dell’informazione militare, sia la campagna aerea che quella terrestre in Siria ed in futuro probabilmente anche in Iraq. Parimenti gli stessi Russi, nonostante gli Americani abbiano chiesto ai Paesi alleati di non far transitare velivoli moscoviti sopra il proprio spazio aereo diretti con uomini e mezzi in Siria, hanno comunicato all’ambasciata americana di Baghdad con appena un’ora di preavviso la notizia dell’imminente attacco aereo russo sulle postazioni dell’ISIS in Siria e dei ribelli siriani sostenuti dall’Occidente, aggiungendo che i velivoli americani avrebbero dovuto allontanarsi dallo spazio aereo siriano. Gli Stati Uniti hanno pertanto tentato di salvare le apparenze per non inquietare troppo gli alleati mediorientali ed europei che pretendono la fine del regime di Assad, tuttavia, nei fatti, l’unica reale preoccupazione che affligge Washington sta nel trovare un canale di comunicazione con Mosca per evitare possibili incidenti tra gli aerei della coalizione internazionale a guida americana e gli aerei russi. Non pochi Paesi aderenti alla coalizione internazionale anti-ISIS starebbero seriamente considerando l’opportunità di sospendere le proprie operazioni in Siria se la sicurezza dei voli non venisse garantita dagli Usa. Fra questi l’Australia, la quale si è recentemente unita su richiesta americana ai bombardamenti contro l’ISIS in Siria, avrebbe espresso non pochi segni di inquietudine, dopo essersi mostrata disponibile a cedere alle nuove speranze di pace e di intesa globale suonate dalle sirene della Casa Bianca, di fronte alla potenziale anarchia che rischia di regnare sui cieli siriani permeati da missili ed aeromobili russi posti in volo in totale libertà d’azione. Lo stesso Israele starebbe cercando di stabilire un canale diretto di comunicazione con Mosca per evitare incidenti fra le rispettive forze armate e per comprendere in quali termini Mosca stia collaborando con le temute milizie sciite di Hezbollah e, più in generale, con l’Iran. Se da un lato sembra che gli Americani stiano lasciando campo libero in Medioriente alle forze russo-iraniane, dall’altro gli alleati del Golfo e la Turchia stanno contestualmente aumentando i propri sforzi militari per supportare l’opposizione siriana contro questo rinnovato slancio offensivo di Assad e dei suoi alleati. In particolare i Paesi del Golfo, già impegnati con successo (anche grazie all’impiego di mezzi militari di fabbricazione occidentale come carriarmati venduti dalla Francia e velivoli realizzati in Regno Unito) in una campagna aerea, navale e terrestre nello Yemen contro le milizie filo-iraniane degli Houthi e dell’ex presidente Saleh, starebbero concretamente considerando la possibilità di intervenire direttamente nel conflitto siriano se la sopravvivenza dell’opposizione moderata dovesse essere posta seriamente in discussione dalla controffensiva del regime di Damasco.
Un secondo “casus belli”: l’ISIS
La motivazione principale che ha spinto la Russia di Putin ad intervenire militarmente in Siria è costituita dalla presenza dello Stato Islamico e dal rischio che questo, presto o tardi, possa attaccare il suolo russo, in particolare a fronte dell’alto numero di volontari islamici integralisti partiti dai Paesi della Federazione Russa alla volta del sedicente Califfato. Parimenti, ufficialmente, l’Iran teme il dilagare dei terroristi dello Stato Islamico e la contestuale instabilità prodotta da questi nella regione. Tuttavia dietro alle motivazioni di facciata si celano mere politiche di potenza esacerbate dall’attuale scontro tra sfere di influenza che trova nel Medioriente scosso dalle primavere arabe e dalla latitante amministrazione americana uno dei suoi centri più deflagranti. Il problema principale che assilla il Cremlino risiede nel salvataggio del proprio alleato siriano e nella riaffermazione, nonché nel potenziamento, del proprio raggio di azione sul Medioriente, cavalcando a proprio vantaggio ambizioni ed obiettivi condivisi dall’alleato iraniano, oggi più che mai disponibile a sfruttare “pro domo sua” i benefici della fine delle sanzioni e di un prossimo imminente ingresso di liquidità nel Paese. Mosca coltiva altresì l’interesse a spostare l’attenzione della comunità internazionale dalla crisi ucraina, in apparente via di risoluzione, al Vicino Oriente, in modo da tentare di condividere con l’Occidente un tavolo di comuni interessi sulla Siria che possa in qualche modo stemperare le tensioni sull’Ucraina e sulle relative sanzioni poste contro l’economia russa. L’intervento russo in Siria potrebbe essere altresì collegato alla guerra in corso sul prezzo del petrolio che vede contrapporsi Mosca e i produttori americani al cartello guidato dall’Arabia Saudita, la quale, stando alle ultime notizie, starebbe avendo ragione dello “shale oil” americano oltreché della Russia di Putin. In quest’ottica l’ISIS rappresenta una mera giustificazione di comodo sia per Mosca che per Teheran, mentre i reali obiettivi per entrambe rimangono la supremazia sull’area mediorientale. E’ evidente quale divario sia presente tra l’amministrazione Obama, prigioniera di una politica isolazionista che eclissa dietro alla mera lotta al terrorismo gravissimi problemi di “governance” geopolitica e Putin il quale, al contrario, è ben cosciente che il problema dell’ISIS appaia come secondario se rapportato all’evoluzione dei rapporti di forza attualmente in corso sullo scacchiere internazionale. L’ISIS rappresenta una sorta di movimento tribale “neo-mahdista” che necessiterebbe di una mera soluzione “kitcheneriana” per essere messo fuori gioco. E’ pertanto evidente come, allo stato attuale, l’ISIS non rappresenti un problema militare insormontabile mentre gli elementi che dovrebbero destare maggiore preoccupazione presso il mondo occidentale dovrebbero essere i rapporti di forza che si stanno pericolosamente modificando nella regione. Purtroppo i Paesi europei come Francia e Regno Unito, primi motori occidentali del supporto politico alla causa dei ribelli siriani (recentemente il primo ministro inglese David Cameron ha definito Assad un “macellaio”), allo stato attuale non ritengono opportuno e fattibile stabilire un confronto militare diretto in Medioriente senza una chiara leadership militare americana (come al contrario accaduto in Libia) e pertanto mentre Russi ed Iraniani scendono direttamente nel campo di battaglia siriano, da parte occidentale rimarranno in essere meri aiuti indiretti veicolati in primo luogo tramite Paesi arabi e Turchia nonché il classico supporto politico-finanziario altresì legato alla questione dei diritti umani delle popolazioni civili martoriate dall’esercito di Assad e, ora, dai bombardamenti russi. La recente adesione francese alla coalizione internazionale anti-ISIS va in parte letta proprio nella chiave della costituzione di una presenza militare di Parigi in terra siriana da impiegarsi sui tavoli della diplomazia. Inizialmente il governo francese aveva escluso bombardamenti contro l’ISIS per evitare che questi potessero rafforzare il presidente Assad. Tuttavia la crescente minaccia terroristica rivolta contro la Francia, la contestuale necessità di rispondere ad un’opinione pubblica sempre più preoccupata da tali minacce, il dilagare del fenomeno dell’immigrazione clandestina in parte causato dai conflitti in corso nel Medioriente e l’altrettanto fondamentale necessità di possedere mezzi militari operanti in Siria da controbilanciare, politicamente, a quelli di altri Paesi presenti nel medesimo teatro di guerra hanno spinto il governo di Parigi ad estendere i raid aerei dall’Iraq alla Siria, specificando tuttavia di riservarsi la facoltà di agire in piena autonomia rispetto gli obiettivi militari da bersagliare sul terreno, senza pertanto sentirsi vincolato dalle deliberazioni emesse dal comando a guida americana della coalizione anti-ISIS. La pressante richiesta francese, assieme a quella turca, di una zona di non volo sulla Siria può in effetti far presagire che l’Eliseo si stia riservando la possibilità si estendere i propri attacchi aerei contro le forze di Assad qualora a livello internazionale si intenda supportare un’azione volta a proteggere i civili siriani i quali, è bene dirlo, fuggono dalla Siria più a causa dei bombardamenti aerei indiscriminati del regime di Assad che per via dell’ISIS stesso. Inoltre dal momento che l’azione aerea russa sta colpendo soprattutto i ribelli moderati anti-Assad e in misura decisamente minore l’ISIS, appare evidente che attaccare l’ISIS in questa particolare fase possa giovare più ai ribelli sostenuti dall’Occidente che al regime stesso, in particolare considerando che l’ISIS sta avanzando proprio laddove i ribelli anti-Assad sono indeboliti dagli attacchi aerei russi. Infatti sembrerebbe che l’attuale controffensiva promossa dal governo di Damasco e dai suoi alleati russo-iraniani contro le roccaforti dei ribelli anti-Assad sia tesa a schiacciare quello che viene considerato dal fronte pro-Assad come l’elemento più debole e nel contempo più pericoloso per il regime, dato che l’ISIS stesso ha nel tempo preferito trovare strade di collaborazione con il governo di Damasco, combattendone i nemici e condividendo con esso le risorse del Paese. Il Regno Unito non ha ancora stabilito se estendere i bombardamenti contro l’ISIS in Siria anche se da più parti sembrerebbe che un voto parlamentare sulla questione non dovrebbe tardare eccessivamente. L’opinione dei politici sulla Siria risente ancora dei postumi del disastroso voto alla Camera dei Comuni del 2013 ed in questa occasione il primo ministro britannico Cameron intende essere sicuro di avere i numeri necessari per tornare in aula con la certezza di strappare un voto favorevole ai membri del parlamento. Ad ogni modo il tempo intercorso tra la proposta del ministro della difesa Fallon, lanciata dopo l’attentato di Sousse in Tunisia, tesa ad avanzare l’ipotesi di estendere i raid aerei dall’Iraq alla Siria ed il volutamente posticipato voto sulla medesima questione vuole altresì testimoniare la necessità di considerare attentamente un’opzione che può avere indubbiamente delle importanti conseguenze sull’andamento di tutto il conflitto siriano, scontro politico-militare che conosce una continua evoluzione e che richiede pertanto costanti revisioni sul piano decisionale al fine di tenere conto della mutevolezza degli scenari in atto. Il dibattito pubblico e politico nel Regno Unito appare assai variegato e confuso, tra chi sostiene che il Paese non dovrebbe farsi coinvolgere in un’altra avventura militare, chi supporta la posizione governativa di contrastare sia l’ISIS che Assad, chi chiede rassicurazioni di carattere legale e chi ipotizza addirittura di ricercare un’alleanza con Assad e la Russia in funzione anti-ISIS, idea già rigettata dal governo, in particolare dopo l’azione unilaterale di Mosca in Siria tesa a colpire in primo luogo i ribelli siriani sostenuti politicamente e finanziariamente dal Regno Unito stesso. Nonostante l’elezione di Jeremy Corbyn alla guida del partito laburista e la polemica sui raid inglesi in Siria contro terroristi dell’ISIS promossi senza il consenso del Parlamento, il governo potrebbe contare sul sostegno di alcuni parlamentari ribelli del Labour nel caso venisse presentata una mozione in favore di un’ estensione dei raid aerei contro l’ISIS in Siria. Non si possono poi escludere aperture da parte del medesimo Corbyn sull’appoggio ai raid stessi (un tempo da lui osteggiati essendo questi assai vicino alle posizioni politiche moscovite ed iraniane), in particolare a fronte di una possibile intesa trasversale a livello parlamentare sul tipo di risposta politico-militare che occorra fornire sul caso siriano, tesa non solo a focalizzare l’azione sulle operazioni di bombardamento contro l’ISIS ma anche sui passi politici e diplomatici che portino ad una transizione governativa nel Paese e alla deposizione finale di Assad.
Conclusioni
L’azione militare russo-iraniana in Siria potrà avere molteplici esiti a seconda di quale sarà la risposta dei sostenitori internazionali dei ribelli anti-Assad. Esiste un diffuso desiderio sul campo occidentale, in particolare da parte del Regno Unito, di pervenire ad un accordo sulla Siria che da un lato sancisca la fine del regime di Assad e che dall’altro riconosca una coesistenza di interessi in Siria che non escluda del tutto i sostenitori “esteri” del regime da una futura composizione della crisi siriana. In particolare il Regno Unito, ben conscio degli effetti che il deragliamento geopolitico americano sta provocando nell’area (è noto che uno dei “sogni nel cassetto” dell’amministrazione Obama sia quello di creare le condizioni per poter addirittura sancire un’alleanza con Russia ed Iran nella lotta contro l’ISIS), spera di pervenire ad una ricomposizione globale della vasta crisi mediorientale in atto senza pregiudicare i rapporti di alleanza con i Paesi del Golfo e nello specifico con l’Arabia Saudita. La Francia si trova allineata su posizioni più oltranziste, nonostante anch’essa si renda conto che un’azione diplomatica sia necessaria per tentare di disinnescare una mina che potrebbe esplodere da un momento all’altro. Infatti la coesistenza in Siria di così tanti attori internazionali animati da altrettanto numerose agende politiche private potrebbe produrre presto o tardi incidenti di natura militare e geopolitica le cui conseguenze potrebbero seriamente portare il mondo sull’orlo di un conflitto globale. La recente notizia, poi ridimensionata ad arte da parte del governo britannico, inerente l’autorizzazione ricevuta dai piloti della RAF ad abbattere eventuali velivoli russi nel caso questi si mostrassero ostili potrebbe rappresentare una sintomatica cartina di tornasole del clima che si starebbe respirando in questi giorni dietro alle quinte delle alte sfere militari (basti inoltre aggiungere i recenti sconfinamenti di aerei russi in Turchia). L’intervento diretto nel conflitto di Russia ed Iran (coadiuvati, con buona pace delle “storiche intese” del presidente Obama, nientepopodimeno che da un contingente di truppe cubane oltreché dall’interessato occhio cinese) e l’offensiva rivolta contro i ribelli anti-Assad (in particolare verso Aleppo) costituiscono nei fatti un attacco contro i Paesi che supportano i ribelli stessi. L’eventualità di una partizione del Paese ed il pianificato utilizzo diplomatico dei risultati militari ottenuti sul campo di battaglia tesi a puntellare il regime di Assad e a portarlo, ancora vivo e vegeto, al tavolo delle trattative potrebbero rappresentare una delle ragioni alla base del mutamento radicale della strategia russo-iraniana in Siria. La guerra siriana in realtà si sta accingendo a creare le condizioni per il superamento di un punto di non ritorno che la crisi della leadership americana ha iniziato a produrre nel momento in cui ha permesso che le primavere arabe e i loro sostenitori collocati su opposte fazioni prendessero politicamente il sopravvento. Il progressivo e sempre più frequente riaccendersi del focolaio israelo-palestinese, unito alla minaccia del terrorismo in Turchia ed in altre aree del Medioriente, potrebbe costituire un preoccupante conto alla rovescia verso la deflagrazione di un conflitto ben più grave di quello che ancora in maniera latente serpeggia fra le sabbie del Vicino Oriente. Allo stato attuale sembrerebbe che lo Stato Islamico possieda complessivamente più territorio di quanto ne controllasse all’inizio dei bombardamenti della coalizione a guida americana. Il plateale fallimento dell’amministrazione Obama ed il radicale riposizionamento della politica estera “a stelle e a strisce” nei pressi dell’antica “mezzaluna fertile” richiederebbe un totale ripensamento della politica estera europea nel Vicino Oriente, in particolare se si considera il fatto che gli Americani e i Russi vorrebbero lasciare fuori dalle trattative sulla Siria proprio gli Europei, Francesi e Britannici in testa. A fronte di una situazione di divisione ed inazione così sconfortante sul campo occidentale, sarà interessante verificare se, come alcuni commentatori internazionali stanno iniziano a chiedersi, sarà proprio David Cameron a “rimbrottare” un Obama ormai prossimo alla conclusione del proprio mandato presidenziale con il fine di mutare il corso di una politica estera occidentale disastrosa che sta immeritatamente lasciando ampi spazi di manovra alla Russia di Putin la quale sta semplicemente colmando i vuoti di un Occidente politicamente del tutto alla deriva.
Pubblicazione gratuita di libera circolazione. Gli Autori non sono soggetti a compensi per le loro opere. Se per errore qualche testo o immagine fosse pubblicato in via inappropriata chiediamo agli Autori di segnalarci il fatto e provvederemo alla sua cancellazione dal sito