Si sente il rumore dei rotori: prima lontano, poi cresce in fretta. Contemporaneamente arrivano le autoblindo. Mentre turbina la polvere sollevata dall’elicottero, dai mezzi corazzati escono i militari, tesi nelle loro uniformi e, armi in pugno, entrano nelle baracche in cui guizzano occhi, braccia, gambe furtivi. Improvvisamente uno sparo, e poi altri spari, ordini gridati a squarciagola… Guerriglia urbana. I militari sono alla caccia dei covi dei trafficanti di droga e cercano di stanarli dai quartieri dove vivono protetti dall’omertà.
Eventi di questo genere sono raccontati a volte con linguaggio paradossale in numerose pellicole: ma si riferiscono alla realtà drammatica di molte favelas, i quartieri dell’emarginazione. Diffusi in tutta l’America Latina, ma soprattutto a Rio de Janeiro, da dove originano.
«L’intreccio tra comunità e trafficanti è un problema annoso – scrive il sociologo Simone Apollo, esperto in dinamiche delle favelas – di sicuro c’è che le bande criminali hanno colmato un vuoto di diritti sociali e di rappresentanza delle istituzioni e sono riuscite a stabilire relazioni solidaristiche con le popolazioni delle favelas. I capi locali, che non sono altro che gli ingranaggi più piccoli di una macchina ramificata in tutto il continente, mantengono l’ordine e danno protezione alla comunità, elargiscono favori e ottengono obbedienza e fedeltà da una popolazione costretta al silenzio e sottoposta alle rappresaglia della polizia. Il vortice di violenza che si viene a creare è praticamente inarrestabile».
Ma non è così ovunque: a Rio ci sono oltre seicento favelas, molte delle quali censite e inserite nella vita della città, tutte o quasi segnalate nelle piantine urbane. Vi vive quasi un venti percento della popolazione dell’ex capitale brasiliana. Sono una realtà in evoluzione e alcune sono luogo di spontaneità popolare densa di valori folklorici nell’esplosione di colori, musiche e danze: al punto che sono meta di visite turistiche.
Il fenomeno delle favelas nasce alla fine del XIX secolo, con la guerra di Canudos (1896-97), un conflitto dai contorni stranissimi, che rendono conto delle difficoltà sociali attraversate dal Brasile. Era stata appena proclamata la Repubblica, costituitasi in stato federale a imitazione degli Stati Uniti, ed era stata abolita la schiavitù. Imperavano il latifondo e la povertà, gruppi di ex schiavi vagavano in cerca di sostento. Nella zona di Canudos, nello stato di Bahia, un certo Antônio Conselhero costituì una comunità indipendente che si contrappose al regime di alte tasse stabilite dallo stato nazionale. Riuscì a dare lavoro a molti e in breve gli aderenti alla comunità superarono i venticinquemila: inclusi molti in fuga dalle condizioni vessatorie dei latifondisti. Un conflitto a fuoco tra alcuni della comunità di Canudos e la polizia scatenò una vera e propria guerra. Lo stato federale inviò a più riprese spedizioni militari e queste furono in più occasioni sconfitte. Inevitabilmente, alla fine prevalsero e la popolazione di Canudos fu trucidata, donne e bambini inclusi. Un fatto che tutt’ora pesa sulla memoria collettiva del Brasile. La capitale lo giustificò sostenendo che a Canudos covava una congiura monarchica antirepubblicana.
Fatto sta che i militari usciti da questa sanguinosa guerra non trovarono impiego una volta rientrati nella capitale e allora si accamparono alla bell’e meglio su una delle colline della città che finì per diventare la loro dimora. Questi ex soldati caduti in miseria presero a essere identificati col nome di “favela”, una pianta tipica di Canudos, e il luogo da loro prescelto, ai margini della città fu chiamato Morro do Favela.
Divenuto sinonimo di agglomerato di catapecchie, il termine restò legato quel genere di agglomerati periferici, che si diffusero a Rio in particolare dagli anni ’30 in poi: la crisi globale del ’29, e in particolare il crollo del mercato del caffè che tanta attività portava ai latifondi brasiliani, provocarono ondate migratorie dalle campagne alle città e Rio fu il principale approdo di chi cercava sistemi per sopravvivere. Si rifugiarono in case di fortuna costruite con legnami e lamiere di scarto, in zone prive dei sevizi più elementari, sorta di accampamenti stabili.
Il successivo sviluppo della capitale come centro turistico, in particolare dagli anni ’70, continuò ad alimentare l’afflusso dalle campagne. I braccianti di giorno costruivano le strade e gli hotel di lusso nelle zone pianegiganti lungo la costa (Botafogo, Ipanega, Copacabana), di notte si rifugiavano nelle bidonville. Queste crebbero a dismisura nei boschi (Rio è la città che include la maggiore area forestale al mondo) arrampicati sulle pendici dei colli. E si creò la “contiguità separata” tra le zone ricche, denominate “asfalto” perché dotate di strade carrabili, e le zone povere, denominate morro (collina).
Negli anni ’70, quando il Brasile era governato da una dittatura militare, molteplici furono i tentativi di rimuovere queste aree di emarginazione con la forza delle armi: questo favorì il saldarsi del controllo di bande criminali in alcune di queste zone. Intanto si andava sviluppando il commercio di droga, con lo strascico di corruzione e imbarbarimento che questo porta con sé.
Dagli anni ’80 in poi sono stati messe in atto diverse iniziative per ricollegare le favelas alla città. Si è scoperto che la criminalità non covva ovunque e che per la maggior parte le favelas erano semplicemente luoghi di povertà. Molte favelas furono collegate alla rete idrica ed eletrica. Sono state favorite le iniziativa locali volte all’educazione degli abitanti, si è deciso di integrare il più possibile il “morro” e lo “asfalto”. Sui sei milioni di abientanti di Rio, uno vive in questi quartieri poveri: non proprio una minoranza.
La loro prima qualità è che sono zone di forte vocazione comunitaria: le persone fanno vita all’aperto, e nelle vie tra le baracche si intrecciano canti e balli, le serenate degli innamorati alle fanciulle sono seguite da tutti perché le pareti diu fortuna non isolano dai suoni. Quando qualcuno sta male, gli altri si mobilitano. L’omertà, cresciuta là dove imperano le mafie della droga, diventa solidarietà umana dove le persone hanno accesso a lavori onesti.
E come nella New Orleans dell’emarginazione nera si sviluppò il jazz, nelle favelas può crescere oggi una nuova cultura popolare. Avrà i ritmi e i colori della samba. E forse potrà chiarire a molti che la vera ricchezza non sta nel potere del danaro.
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