Paesaggi: rovinati dall’avanzare dell’industria, della cementificazione, delle strade… Sulle montagne più limpide e splendenti, dove saltava lo stambecco e urlava la valanga, gli impianti di risalita arpionano i pendii e d’estate spargono ruggine meccanica tra il verdeggiare di foglie accanto a canaloni di sassi che sventrano i boschi per fornire facili discese alle masse che si aggrapperanno agli skilift d’inverno, dopo essere giunte in quota stremate da affollate traversate autostradali a passo d’uomo per l’intasamento da traffico.
Per non dire delle coste, ormai tutte affiancate da teorie di villette e condomini che spalleggiano le cabine di legno o plastica allineate a ridosso dei battaglioni di ombrelloni. O delle colline un tempo ridenti di fiori e alberi e strade sterrate silenti nei pomeriggi di sole, oggi sede di imprese, aziende, cementifici, capannoni a volte abbandonati, e di asfalti che snodano ovunque. Panorami da recuperare, sognando epoche primigenie, ove tutto questo non esisteva e la natura sfolgorava la sua vitalità incontenibile in un ordine sublime.
La giornata nazionale del panorama evoca desideri di ritrovare il paradiso che l’arroganza tecnologica ha perduto, ove si distinguerà pure il bene dal male, ma poi sembra si scelga più spesso quest’ultimo rispetto al primo – almeno a giudicare dello stato della conservazione dell’ambiente.
In realtà non è così semplice. Perché il panorama non è mai condizione incontaminata, ch’è frutto della fantasia: è invece conseguenza di lunghi processi insediativi e di diuturne opere di trasformazione. Basta un singolo edificio per apportare una variazione notevole tra i campi. E i campi sono di solito coltivati: conseguono al lavoro, non nascono da natura selvaggia.
Il Codice Urbani, che regola dal gennaio 2002 la gestione dei beni culturali, per la prima volta indica che il paesaggio va valorizzato: ovvero rielaborato consciamente per migliorarlo. Certo, spesso si parte dalla necessità di arrestare l’accanimento insediativo. Ma l’essenza del problema è come si possa recuperare l’armonia dinamica del convivere tra cultura e natura.
Gli splendidi paesaggi delle colline senesi, con alberi sapientemente disposti, dimostrano come questo sia effettivamente avvenuto: gli alberi, gli edifici, i campi sono tutti ben disposti, sono giardini di fatto.
Negli anni siamo stati abituati alla nostalgia di un impossibile ritorno a un tempo perduto; ma chiunque abbia sperimentato ambienti veramente selvaggi potrà veramente sostenere che siano più belli di quelli disegnati con sapienza rispettosa, come sulle colline senesi.
Dunque il problema non è conservare, bensì produrre il paesaggio: essere coscienti di esserne responsabili, e tradurre tale responsabilità in progetti sensati. Dove gli elementi costruiti stiano ben spaziati, non affastellati su quanto v’è di naturale. E dove la natura possa tornare a sua volta ad abitare anche là dove sta il costruito. Da tempo si parla di tetti e facciate verdi: sono il sistema più facilmente disponibile per recuperare nuovi paesaggi amici, sia dell’abitare, sia del contemplare. Pur dove la città è dilagata ovunque. Non conservare, ma produrre paesaggio è la chiave per difenderlo.
(LS)
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