Mentre è in corso una escalation militare di cui non sono prevedibili gli sviluppi, è fondamentale capire la genesi e le ragioni dell’invasione di Putin, non tanto per sconfiggere l’odiato nemico ma per elaborare una strategia che superi lo stallo attuale ed eviti un conflitto generalizzato. Dopo il crollo del comunismo, la Russia ha mostrato le sue enormi difficoltà di adattamento alla modernità, mentre negli USA si affermava una dottrina avventuristica che puntava alla “leadership globale americana” che ha portato alla destabilizzazione attuale. Il diario puntuale di un inviato di razza ci aiuta a capire come tutto è cominciato.

Forse la fine dell’URSS non è stata la «più grande tragedia geopolitica nella storia del XX secolo», come ha detto Putin, ma ha certamente rappresentato un collasso dai drammatici costi umani di cui in Occidente non ci si è resi ben conto. Nel suo ultimo libro il noto inviato Rai Alessandro Cassieri ci fornisce delle immagini che rendono in modo vivido il significato profondo di eventi che hanno segnato la storia e, cosa ancora più importante, hanno plasmato il futuro a cui stiamo andando incontro. Mentre Stati Uniti ed Europa esultano per il successo e si beano della propria superiorità morale ed economica, Cassieri osserva «donne in coda sul ghiaccio prima dell’alba per un filone di pane, gli uomini in prigione per aver rubato un sacchetto della spesa, le madri costrette a offrire le figlie nelle stazioni della metropolitana in cambio di qualcosa da mangiare, quadri viventi di un tracollo violento».

Un grande momento storico, ma nessuno sa coglierlo

Nel momento in cui lo storico Francis Fukuyama parlava di “fine della storia”, Cassieri intervistava Brian Jenkins, un ex Berretto verde statunitense arrivato ai vertici della Rand Corporation per diventare, infine, “zar dell’antiterrorismo”. L’intervista per L’Europeo si concludeva con una previsione clamorosa: caduto il Muro, venuta meno la contrapposizione tra i blocchi Est-Ovest, si sarebbe ridotta vertiginosamente anche la possibilità di controllare la conflittualità tra Stati e all’interno degli Stati. Una nuova dimensione dell’insicurezza si sarebbe imposta: «Rimpiangeremo gli anni della Guerra Fredda» le sue parole. Valutazioni molto controcorrente perché, di fronte al fallimento del nemico storico, gli Stati Uniti erano stati travolti dal delirio di onnipotenza di un mondo unipolare, dominato dagli USA. Viene anche creato il termine “iperpotenza” per definire lo status dell’America vincitrice ma poi, impietosamente, la storia si è incaricata di dimostrare la fallacia di questa visione.

Il 16 aprile 1992 il sottosegretario al Pentagono Paul Wolfowitz aveva redatto un memorandum di 46 pagine nel quale, dopo integrazioni e correzioni da parte dei vertici politici e militari della Difesa, si condensava la dottrina per garantire agli Stati Uniti una «egemonia globale nel nuovo ordine mondiale». Convinti che la Russia fosse ormai un gigante incapace di ogni reazione, Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale modulavano il credito a Mosca secondo criteri di sviluppo non sempre in linea con le dimensioni e la complessità dell’universo russo e delle repubbliche che ancora gli ruotavano intorno. Da «Kaliningrad a Vladivostok, invece, lungo undici diversi fusi orari, lo shock fu profondo. Con la riduzione di tre volte del reddito precedente, la perdita di milioni di posti di lavoro, l’aumento vertiginoso dei delitti e dei suicidi, l’abbassamento impressionante dell’aspettativa di vita della popolazione maschile, la più colpita dalla scomparsa della Superpotenza».

Le promesse di democrazia, di più libertà, di ideali modellati sull’esempio occidentale corrispondono, nella pratica, a una insopportabile miseria. L’America non sembra tanto interessata ad aiutare la Russia ad incamminarsi faticosamente sulla strada della democrazia, quanto ad approfittare della sua drammatica debolezza. Le promesse di non allargare a Est la NATO vengono fatte soltanto verbalmente e prese per buone, prima da Gorbaciov e poi da Eltsin. Dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia, l’alleanza militare dei Paesi comunisti, né Bush senior, né la successiva amministrazione Clinton colgono l’opportunità di ridurre il bilancio militare e aumentare gli investimenti per lo sviluppo nel Sud del mondo. Nel solco del memorandum Wolfowitz, Clinton si rivela incapace di tagliare il bilancio della Difesa: «In assenza della Russia comunista, la minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti – è la nuova tesi degli strateghi militari – poteva provenire da due crisi locali regionali. Due sfide contemporanee. E questo pur in assenza di pericoli reali, come scritto in premessa da Wolfowitz». Viene poi ripreso il discorso sull’allargamento a Est della NATO che, nelle intenzioni di Zbignew Brzezinski, l’ex Consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza Carter, avrebbe addirittura dovuto portare alla liquidazione della Russia.

Il diplomatico e storico USA George Kennan (1904-2005) è stata una delle figure chiave della Guerra Fredda e un acuto analista dei rischi impliciti nella politica di allargamento della NATO a est (Foto prodotta dall’ambasciata USA a Mosca).

Percependo l’intenzione dell’amministrazione Clinton di procedere con l’allargamento, il 5 febbraio del 1997, George F. Kennan, l’ideatore della “dottrina del contenimento”, pubblica un articolo sul New York Times in cui definisce l’espansione della NATO come «l’errore più fatale della politica americana nell’intero periodo post-Guerra Fredda». Per Kennan, l’allargamento a Est avrebbe provocato una reazione estremamente negativa in Russia, portando alla luce «la visione consolidata dal tempo di una Russia oggetto innocente delle concupiscenze di un ambiente mondiale malvagio ed eretico». A quel punto, secondo Kennan, ci si sarebbe potuti aspettare che la Russia espandesse i suoi legami militari e che cercasse di rafforzare le sue relazioni con Cina e Iran. «Era il 1997 –scrive Cassieri-, il Paese capofila tra quelli in procinto di entrare nell’Alleanza Atlantica era la Polonia e Kennan tracciava la parabola che, a suo avviso, quella decisione avrebbe determinato. “Non ci vedo altro che una nuova Guerra Fredda, che probabilmente finirà con una guerra calda, e la fine degli sforzi per raggiungere una democrazia praticabile in Russia. Vedo anche la fine totale, tragica e non necessaria di un rapporto accettabile tra quel Paese e il resto dell’Europa”».

La battaglia per l’Ucraina

Nel dicembre del 1998 Clinton aveva lanciato l’operazione “Desert Fox “contro l’Iraq senza chiedere l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza dell’ONU e, il 24 marzo 1999, era scattata l’operazione “Allied Force” contro la Serbia, contrabbandata come una “guerra umanitaria”, con l’appoggio della NATO e di varie cancellerie europee, ma senza l’assenso dell’ONU. È in questo contesto che Putin arriva al potere, prima come premier e, successivamente, come presidente. L’attacco terroristico contro le Torri gemelle del settembre 2001 fa grande scalpore a Mosca perché anche il Cremlino deve fronteggiare una grave minaccia da parte del fondamentalismo islamico, presente in Cecenia e in altre aree russe. Per questa ragione, Putin si mostra molto disponibile nei confronti di Washington che si accingeva ad attaccare l’Afghanistan, base di Al Qaida. «Venne concesso il permesso di sorvolo e, aspetto ancora più rilevante sul piano strategico, fu consentito al Pentagono di insediare una base militare a Manas, presso Bishkek, la capitale del Kirghizistan, storicamente sotto influenza russa». Ma la solidarietà derivata dalla comune battaglia contro il fondamentalismo islamico non dura a lungo e l’Ucraina comincia a delinearsi come un possibile terreno di scontro.

La tensione aumenta dopo le elezioni presidenziali del 21 novembre 2004 che vede confrontarsi il filorusso Viktor Yanukovich e Viktor Yushchenko, capofila delle forze pro-occidentali. Il risultato iniziale vede in testa Yanukovich ma viene contestato dall’opposizione che denuncia brogli e scende in piazza Maidan sventolando bandiere arancioni che ben presto diventeranno il simbolo di quella protesta che verrà definita “rivoluzione arancione”. Mentre si teme lo scoppio di una guerra civile, si trova una soluzione di compromesso con Yanukovich alla presidenza e la rappresentante delle forze democratiche Juljia Tymoshenko come premier. Ma il contesto politico rimane instabile perché, anche dopo le nuove elezioni del 2007, «la mappa del voto conferma una volta di più la netta spaccatura del Paese, con il sud-est industriale, russofono, massicciamente schierato con il filorusso Yanukovich. Il resto, a cominciare dalla capitale, aggrappato al sogno occidentale».

I nodi arrivano al pettine nel novembre 2013 quando il presidente Yanukovich lascia cadere un’offerta europea di tre miliardi di euro per firmare un Accordo di associazione e libero

La maggioranza degli ucraini concepisce il proprio futuro nell’ambito dell’Occidente. (Manifestazione filoeuropea in piazza dell’Indipendenza a Kyiv nel novembre del 2013. Foto di Evgeny Feldman Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported license).

scambio e si rivolge alla Russia, poi cambia idea e contatta nuovamente Bruxelles. Ma la situazione è ormai incandescente. Ci sono decine di migliaia di manifestanti in piazza Maidan e iniziano gli scontri, con morti e feriti su entrambi i fronti. Un tentativo di mediazione in extremis, che vede l’invio del ministro degli Esteri francese Fabius, quello tedesco Steinmeier e il collega polacco Sikorski, sembra aver successo. Nonostante l’accordo, però, le forze in piazza continuano a fronteggiarsi. Il presidente filorusso Yanukovich fugge a Kharkiv e, da lì, in Russia. Nasce un nuovo regime politico che guarda all’Europa e alla NATO. «Alla fine, il numero dei morti supererà il centinaio, molti di più i feriti. Indiscrezioni sempre più dettagliate ipotizzano una regia dietro la carneficina finale». Il resto è storia di oggi.

Nel 2014 truppe speciali russe che operano senza mostrine si infiltrano in Crimea e, dopo un referendum farsa, Putin annette la penisola alla Russia. Nello stesso tempo, il Cremlino invia consistenti aiuti militari alle forze filorusse del Donbass e Donetsk a cui Kyiv risponde con interventi militari e bombardamenti che fanno vittime anche tra i civili. Le due regioni sono successivamente annesse alla Russia. Come è ben noto, il 24 febbraio 2022, Putin lancia la sua «operazione militare speciale» contro Kyiv, con l’intenzione di reintegrare l’Ucraina nella sfera di influenza russa. La guerra, costata finora centinaia di migliaia di morti, è ancora in corso e non si intravedono soluzioni negoziate. Cassieri ricorda correttamente che per fare un buon giornalismo (ma io direi giornalismo tout court, perché in caso contrario si tratta semplicemente di propaganda) bisogna dare tutte e due le campane, cosa che viene puntualmente fatta dal suo diario.

L’autore nota che nella prima protesta contro Yanukovich nel 2004 ci sono palazzi attrezzati con le cucine, i bagni, i letti per chi partecipa alla protesta. Un servizio d’ordine efficientissimo gestisce il flusso dei dimostranti. Chi ha predisposto e pagato tutto? «È la gente stufa di questo sistema di potere corrotto», rispondono i dimostranti. Viene anche citato un articolo del 26 novembre di Ian Traynor, una delle firme più note del britannico Guardian, che sottolinea il ruolo degli Stati Uniti nella “rivoluzione arancione”. Traynor scrive che: «La campagna è una creazione americana, un esercizio sofisticato e brillantemente concepito di branding occidentale e marketing di massa che, in quattro Paesi in quattro anni, è stato utilizzato per cercare di salvare elezioni truccate e rovesciare regimi sgraditi». Quando c’è la volontà di un popolo di battersi per la libertà non c’è da stupirsi che i Paesi occidentali, nati sulla base di quel principio, intervengano con aiuti e propaganda. Putin reagisce con una risposta militare brutale, mostrando apertamente che il linguaggio della forza è quello in cui si senta più a suo agio.

Col passare dei mesi appaiono profetiche le parole del Capo degli Stati Maggiori americani, Mark Milley, che a tutti i livelli esprimeva dubbi sulla possibilità di riconquistare significative porzioni dei territori controllati dai russi, nel Donbass come in Crimea. Come finirà questo scontro che nessuno ha saputo, o voluto, evitare? «Avremo un’Ucraina più piccola e una Russia più povera. Sono loro i Paesi in prima linea sul proscenio, ma nel nuovo quadro risulterà che avremo perso tutti. L’Europa più degli altri», conclude Cassieri.

 Alessandro Cassieri
Tra Russia e Ucraina
Diario del conflitto
dalle origini a oggi
RAI Libri, pp. 336, euro 19

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