Mario Lettieri e Paolo Raimondi
Pur essendo intervenuti più volte negli anni passati su molti argomenti relativi alla finanza, alle banche a al debito anche a livello internazionale, nella scorse settimane, invece, abbiamo volutamente deciso di astenerci da ogni commento sulla questione del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità detto anche fondo salva stati. La ragione è stata quella di non essere ingoiati nei giochi elettorali dei vari attori in campo.
La questione, però, è di grande importanza e merita di essere affrontata senza clamori e artifizi mediatici.
Il MES è operativo dal 2012. In discussione è la sua riforma. Forse se ne è parlato troppo superficialmente. Il primo aspetto della riforma è la possibilità che il Mes possa affiancare il Fondo di risoluzione unico per le banche in caso di una qualche grave crisi bancaria.
Dal 2015, il Fondo è lo strumento operativo del Comitato di risoluzione unico (SRB, l’acronimo in inglese) dell’Unione bancaria europea. È costituito dai capitali provenienti dal sistema bancario europeo, non dagli Stati. Il suo compito è garantire la ristrutturazione ordinata delle banche in seria difficoltà e ridurne l’impatto negativo sull’economia reale e sulle finanze pubbliche.
Oggi lo SRB vanta attivi superiori a 22 miliardi di euro. La Banca Popolare di Vicenza e la Veneto Banca non ne hanno potuto beneficiare perché si è ritenuto che “il loro fallimento non avrebbe rappresentato una minaccia alla stabilità finanziaria”.
Nella riforma si prevede che il Fondo possa chiedere aiuto al Mes in caso di mancanza delle risorse necessarie per affrontare eventuali situazioni di grave emergenza, come avvenne negli Usa nel 2008 con la bancarotta della Lehman Brothers. La stabilità del sistema bancario è nell’interesse di tutti gli europei, non solo della Germania. Certo, alcune banche tedesche e francesi sono considerate too big to fail e quindi sistemiche. Non è questo il caso della Popolare di Bari che dovrebbe essere di esclusiva pertinenza del governo e del sistema bancario italiano.
Un altro aspetto della riforma riguarda l’assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà per l’eccessivo debito pubblico. Il Mes potrà dare il suo sostegno a condizione che il debito e la capacità di rimborso siano sostenibili. A questo proposito le valutazioni saranno compiute dalla Commissione europea di concerto con la Bce e il Mes e, ove possibile, insieme al Fmi. Il Mes può decidere una ristrutturazione parziale del debito. Non vi è, però, nessuna ristrutturazione automatica. Per una votazione d’urgenza si richiede la maggioranza di 85% dei voti e l’80% dei voti per procedure a maggioranza qualificata. La quota dell’Italia è del 17,9%. È quasi un potere di veto, quindi.
Si ricordi comunque che il Paese che si rivolge al Mes per accedere ai crediti precauzionali deve soddisfare tre condizioni: un disavanzo pubblico inferiore al 3% del pil, un debito pubblico inferiore al 60% del pil oppure dimostrare che nei due anni precedenti la richiesta, era già impegnato a ridurre la parte eccedente il menzionato 60% a un tasso medio di un ventesimo l’anno. Per l’Italia ciò vorrebbe dire una riduzione del debito eccedente pari a 3,5% annuo.
Qualora questi requisiti non fossero rispettati, è prevista una certa discrezionalità per l’erogazione di una linea di credito a condizioni rafforzate, sempre che vi siano una situazione economica e finanziaria solida e un debito pubblico sostenibile.
Una lettura attenta della riforma del Mes induce in ogni caso a delle riflessioni. Prima di tutto, gli interventi previsti sono di fatto delle “misure tampone” a fronte di una crisi conclamata. Per cui non tanto il Mes, ma l’Europa e i governi interessati dovrebbero preventivamente intervenire per correggere le cause delle distorsioni finanziarie.
Per quanto riguarda il settore bancario, il maggiore fattore di rischio è sicuramente la crescita esagerata, esponenziale, dei prodotti finanziari derivati, in particolare degli over the counter (otc). Infatti, l’ultimo rapporto dell’Esma, l’autorità europea per la vigilanza sui mercati finanziari, evidenzia che a fine 2018 il mercato europeo dei derivati aveva un valore nozionale di 735mila miliardi di euro (con un aumento dell’11% in un anno!), di cui 90% otc.
La preoccupazione riguarda soprattutto le banche europee too big to fail. A cominciare dalla Deutsche Bank che avrebbe in pancia derivati per un valore nozionale di ben 43.500 miliardi di euro.
A questo proposito, non è più rinviabile la separazione tra le banche d’investimento e quelle commerciali. Le autorità europee dovrebbero vietare a queste ultime le operazioni speculative, elevare i depositi di garanzia per le operazioni rischiose e, comunque, limitare le vendite allo scoperto.
A nostro avviso il vero nodo delle economie europee più fragili è quello di ridurre il rapporto debito/pil e promuovere la crescita attraverso una politica d’investimenti e di sostegno, anche da parte dell’Europa, alle produzioni e ai commerci.
Perciò sembra strano che si preveda che il Mes possa accedere ai mercati di capitale con l’emissione di titoli e obbligazioni per proteggere il sistema bancario e i Paesi con una difficile situazione debitoria. Non si comprende, però, perché le istituzioni europee, con gli stessi strumenti e nelle dimensioni necessarie, non garantiscono nuovi crediti e capitali per gli investimenti, le infrastrutture, la ricerca e l’innovazione.
Da troppo tempo si parla di euro bond per la crescita ma manca l’effettiva volontà di realizzarli. Perché?
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