Il 10 marzo 2023, alla presenza di Wang Yi, responsabile della politica estera del Partito comunista cinese, Arabia Saudita e Iran hanno firmato a Pechino un accordo che li impegna a riaprire i contatti diplomatici dopo sette anni di rottura. Non è scontato che questo sviluppo possa placare tutte le tensioni in una delle aree più instabili del mondo, ma rappresenta indubbiamente un successo della diplomazia cinese che inizia così ad agire esplicitamente da superpotenza globale. Dopo la Turchia, anche l’Arabia Saudita prende le distanze dalle alleanze tradizionali e mostra di voler allentare i legami con gli Stati Uniti. L’amministrazione Biden appare spiazzata, mentre l’israeliano Netanyahu vede arretrare le prospettive aperte dagli ”Accordi di Abramo”.
Il documento ufficiale sancisce il “raggiungimento di un accordo tra il regno dell’Arabia Saudita e la Repubblica islamica dell’Iran che li impegna a riprendere le relazioni diplomatiche e a riaprire le loro ambasciate e missioni entro un periodo di due mesi”. Riad e Teheran, che si affrontano in una guerra per procura in Yemen, hanno entrambi buone motivazioni per ridurre le tensioni nell’area. Il regime degli ayatollah è molto isolato a livello internazionale, ha una pessima situazione economica e deve fronteggiare una gravissima protesta interna che non ha perso di intensità. La monarchia saudita, guidata dal giovane erede al trono Mohammed bin-Salman, intende realizzare un ambizioso progetto per emanciparsi dalla dipendenza del petrolio e vuole svincolarsi dallo stretto rapporto con Washington che lo mette in imbarazzo per l’insistenza sulla questione dei diritti umani.
L’accordo è il frutto di un cambiamento in atto da anni e segnala l’entrata in gioco in Medio Oriente di un nuovo attore di cui bisognerà tener conto per il futuro. La Cina è diventata il principale importatore mondiale di petrolio saudita dal 2017, mentre nel 2022 Riad ha esportato nel Paese del dragone il 20 per cento della propria produzione. Questo è stato possibile perché i rapporti dei sauditi con Washington si sono complicati a causa di una serie di eventi. Nel 2018, dopo l’assassinio del giornalista e oppositore saudita Jamal Khashoggi, la CIA ha pubblicato un rapporto dove accusava apertamente il principe ereditario di essere il mandante dell’omicidio. Nel 2019 quando i ribelli houthi, che in Yemen combattono il governo sostenuto militarmente da Riad, hanno colpito con missili le strutture petrolifere saudite, bin Salman si aspettava un sostegno militare da parte degli USA che, invece, non mossero un dito. “Quello è stato un attacco contro l’Arabia Saudita –disse l’allora presidente Donald Trump- non contro di noi”. Quindi quando Biden si è recato in Arabia Saudita per chiedere un aumento della produzione di petrolio, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, si è trovato di fronte a un netto rifiuto.
Le reazioni di USA e Israele
La maggior parte degli analisti concorda sul fatto che la firma dell’accordo potrebbe avere ampie ripercussioni positive in Libano, Siria, Iraq e, potenzialmente, anche in Yemen ma non sarà certo un processo automatico perché le ragioni della contrapposizione tra Iran e Arabia Saudita sono complesse e profonde. Ciò non toglie che la diplomazia cinese sia riuscita a conseguire un brillante successo, in un’area in cui gli Stati Uniti hanno da sempre un’influenza determinante. Quindi, anche se la Casa Bianca ha ufficialmente salutato con favore l’accordo, molti funzionari hanno minimizzato la portata dell’intesa e il ruolo svolto da Pechino, dileggiando le analisi che vedono in questo sviluppo un’erosione dell’influenza americana nella regione. Washington non lo ammette, ma è chiaro che la mediazione nella riapertura delle relazioni tra due Paesi chiave in Medio Oriente segna una svolta nella politica estera cinese che intende far pesare, a livello politico e diplomatico, il suo ruolo di seconda economia mondiale. Questo ruolo dovrebbe essere confermato dal viaggio ufficiale che Xi Jinping si appresta a fare a Mosca (e forse anche in Ucraina) dal 20 al 22 marzo 2023.
Secondo Amy Hawthorne, del Project on Middle East Democracy, “non c’è modo di girarci intorno: questa è una cosa grossa. È vero, gli Stati Uniti non avrebbero potuto mediare un simile accordo in questo momento con l’Iran, dal momento che non abbiamo relazioni. Ma in un senso più ampio, il prestigioso risultato della Cina la proietta diplomaticamente su un nuovo livello, oscurando tutto ciò che gli Stati Uniti sono stati in grado di ottenere nella regione da quando Biden è entrato in carica”. In un articolo che Michael McFaul e Abbas Milani hanno pubblicato il 14 marzo 2023 su Foreign Affairs viene sostenuto in modo consolatorio che l’accordo è un aiuto per il corrotto regime iraniano ma non intacca né la crisi economica, né l’opposizione al regime che prosegue imperterrita. Secondo i due autori, l’accordo voluto da Xi Jinping può essere complementare alla diplomazia USA, con il vantaggio che ora il leader cinese condivide il peso del mantenere la pace in Medio Oriente. L’articolo si conclude ricordando che da decenni Washington è il principale fornitore di armamenti di Riad e che, con molta probabilità, continuerà ad esserlo anche in futuro.
Un altro politico che non ha certo fatto salti di gioia alla notizia dell’accordo, è l’israeliano Benjamin Netanyahu, nel mezzo di uno scontro durissimo con
l’opposizione per una riforma della giustizia che darebbe all’esecutivo il controllo sull’apparato giudiziario. Per molti anni, il Primo ministro più longevo nella storia di Israele ha tenacemente tessuto un’articolata rete volta a isolare l’Iran e forgiare un’alleanza, anche militare, che potesse distruggere una volta per tutte la minaccia rappresentata per Israele dal regime degli ayatollah. Un alleato fondamentale di questa politica era proprio l’Arabia Saudita, molto impaurita dall’aggressività militare iraniana e sfidata anche nel suo ruolo di guida del mondo sunnita. Il nuovo corso tra nemici acerrimi rischia ora, se si traducesse veramente in fatti concreti, di infliggere un colpo gravissimo alla strategia di Netanyahu che puntava al sostegno delle monarchie del Golfo per annichilire l’Iran, capofila del movimento sciita.
L’analista israeliano Zvi Bar’el ha scritto su Haretz che “il sogno di Israele di formare un’alleanza araba contro l’Iran è stato fatto a pezzi venerdì [il 10 marzo] dalla notizia che l’Iran e l’Arabia Saudita avevano accettato di riallacciare relazioni diplomatiche entro due mesi”, aggiungendo che “è molto probabile che questo drammatico annuncio ridisegni la mappa degli amici e dei nemici e avrà conseguenze globali”, visto che fornirà all’Iran “la legittimità di cui aveva un gran bisogno all’interno del mondo arabo”. In un tweet, il capo dell’opposizione Yair Lapid ha descritto l’accordo come il “crollo delle mura difensive regionali che avevamo costruito contro l’Iran” e ha affermato: ”Questo è quello che succede quando ci si concentra sulla follia giudiziaria invece di lavorare contro l’Iran e rafforzare i legami con gli USA”.
Le ragioni dell’accordo
Nel 2016 le relazioni diplomatiche tra Teheran e Riad vennero interrotte dopo che Nimr al-Nimr, un esponente del clero sciita, era stato condannato a morte in Arabia Saudita e giustiziato, nonostante le proteste iraniane. Da allora, le tensioni tra i due Paesi sono ulteriormente cresciute per ragioni religiose, sciiti i primi, sunniti i secondi; militari, l’Iran sostiene i ribelli Houthi in Yemen che combattono contro il governo appoggiato dai sauditi; geopolitiche, per l’egemonia regionale; nucleari, per il timore saudita che gli iraniani si possano dotare di un ordigno nucleare. I negoziati tra i due contendenti erano andati avanti stancamente per circa due anni ma quello che ha spinto entrambi alla firma sono state ragioni di interesse contingente. Il regime iraniano, profondamente corrotto e inefficiente, sta attraversando una crisi economica e finanziaria molto grave, ulteriormente esacerbata dalle conseguenze delle sanzioni occidentali. Dopo la morte in carcere di Mahsa Amini il 16 settembre 2022, è iniziato un movimento di protesta guidato dalle donne che contestano il regime con lo slogan “donna, vita, libertà” e che, nonostante la repressione brutale, continua a scendere coraggiosamente in piazza.
La valuta nazionale iraniana, il rial, era arrivata a un tasso di cambio di 60mila rial per un dollaro. Il 10 marzo era a 47mila. Dopo la firma dell’accordo è sceso fino a 40mila. La Cina, che ha già un intenso rapporto commerciale con Teheran- è il loro principale acquirente di petrolio- ha deciso di aumentare ulteriormente il suo intervento elaborando un ambizioso piano per l’investimento di 400 miliardi di dollari nell’arco di venticinque anni. Si capisce quindi che Pechino ha molte carte da giocare per fare pressioni su Teheran, soprattutto da quando l’Iran è stato accettato come membro (l’entrata sarà ufficializzata nell’aprile 2023) della Shanghai Cooperation Organisation, un organismo intergovernativo di cooperazione economica in cui la Cina occupa un posto centrale. Anche se non risolve i suoi problemi economici, l’accordo è una boccata d’ossigeno per il regime degli ayatollah che non è più in grado di finanziare la propria proiezione militare in Yemen, in Siria, in Libano e far fronte contemporaneamente alle proteste di chi non riesce a mettere insieme il pranzo con la cena.
L’accordo con l’Iran rafforza il principe Mohammed bin Salman e il suo ambizioso piano ‘Vision 2030’ i cui obiettivi non sono realizzabili mentre è in corso una guerra in Yemen. Il regno saudita è da tempo impegnato in una diversificazione delle alleanze internazionali e in una strategia economica che punti a superare la dipendenza esclusiva dal petrolio. Inoltre, a partire dalle rivolte arabe del 2011, gli Stati Uniti non vengono più percepiti come gli unici affidabili garanti della sicurezza nel Golfo. Washington rimane il principale fornitore di armamenti, ma l’Arabia Saudita punta anche a sviluppare un’industria nazionale della difesa per rendersi più indipendente. Il 6-9 marzo 2022 si è svolta a Riad la prima edizione del World Defense Show, un appuntamento biennale che ha ospitato 600 espositori provenienti da 42 Paesi, durante il quale i sauditi hanno annunciato contratti con compagnie francesi, sudcoreane e cinesi. I sauditi stanno inoltre sviluppando un proprio programma missilistico in cui la Cina potrebbe giocare un ruolo importante.
La trasformazione economico-sociale delineata da ‘Vision 2030’ ha bisogno di capitali stranieri e capitale umano qualificato quindi, allineandosi a una decisione già presa dagli Emirati Arabi Uniti, Riad ha deciso di offrire la cittadinanza ai professionisti altamente specializzati di cui ha bisogno nel settore tecnico, legale, medico, scientifico, culturale, sportivo. La diversificazione post-petrolifera è anche caratterizzata da progetti urbani innovativi che, nelle intenzioni, dovrebbero diventare un’attrazione turistica. La novità è la realizzazione di Trojena, una struttura per il turismo di montagna nel cuore di Neom, l’avveniristica città del futuro che è in costruzione nel nord-ovest del regno. Questi progetti sono stati favoriti anche dall’aumento incontrollato del prezzo del barile seguito all’invasione dell’Ucraina. Nel 2022 i profitti della compagnia petrolifera nazionale Aramco sono aumentati del 46 per cento, arrivando alla ragguardevole cifra di 161 miliardi di dollari, e hanno nuovamente collocato la Aramco tra i principali gruppi mondiali per capitalizzazione. Sono quindi prevedibili intensi scambi commerciali con la Cina in cui le tecnologie elettroniche per la sicurezza e il riconoscimento facciale giocheranno un ruolo importante.
Il disegno globale del dragone
L’accordo firmato a Pechino mostra esplicitamente che la Cina è pronta sfidare l’egemonia degli Stai Uniti non solo nel Mar cinese meridionale e a Taiwan ma anche in aree che, tradizionalmente, erano terreno di caccia esclusivo degli americani. Dobbiamo però ricordare che l’accordo non è una pax sinica, visto che Pechino non si fa garante dei risultati, ma rappresenta un riconoscimento del ruolo da protagonista che la Cina intende giocare nelle relazioni internazionali, accollandosi tutti i vantaggi ma anche i rischi che ne derivano. La ripresa delle relazioni diplomatiche tra Iran e Arabia Saudita è l’esito di un lento processo di disgelo che era passato per incontri in Iraq e, successivamente, in Oman. Pechino ha saputo cogliere con prontezza l’occasione e intende proseguire nel tentativo, visto che secondo il Wall Street Journal se la riconciliazione andrà a buon fine, è previsto un incontro al vertice in Cina a cui parteciperanno i monarchi dei sei Stati arabi del Consiglio di Cooperazione del Golfo e l’Iran.
Nel documento ufficiale di riconciliazione le lingue usate sono state il mandarino, l’arabo e il farsi, con esplicita esclusione dell’inglese, l’unico idioma in cui gli interlocutori avrebbero potuto capirsi. Questo sottolinea l’intenzione esplicita di tener fuori sia gli Stati Uniti che l’Occidente in generale. D’altronde, la Cina, ma anche la Russia, offrono dei vantaggi che gli Stati Uniti o l’Europa non saranno mai in grado di garantire, come l’assenza di un’approvazione parlamentare per la fornitura di armamenti o le richieste di chiarimenti sui diritti umani. Alcuni commentatori hanno notato come l’accordo sia il frutto dell’azione di un “esclusivo club di autocrati” ma, per ora, rimane difficile ipotizzare che la Cina si metta alla testa di tutte le autocrazie mondiali in una sfida esplicita all’Occidente liberale. Un aspetto collaterale dell’abile strategia diplomatica cinese è l’ulteriore indebolimento della posizione di Putin che, finora, aveva giocato un ruolo importante in Medio Oriente, dopo l’intervento militare in Siria. A Mosca si incontreranno tra pochi giorni un drago cinese molto rafforzato e un orso russo la cui immagine è stata pesantemente indebolita dall’impasse militare in Ucraina e dal mandato di arresto appena emesso dalla Corte penale internazionale dell’Aia.
Non ci sono informazioni al riguardo, ma un aspetto che andrebbe studiato e conosciuto maggiormente è il tentativo cinese di allargare l’uso internazionale della valuta cinese. Negli accordi per il già citato piano di investimenti in Iran, lo yuan è previsto esplicitamente, e sia la Russia che il Vietnam commerciano con Pechino in quella valuta. Dato il suo ruolo crescente nell’area e grazie al suo notevole peso economico, non è escluso che altri Paesi mediorientali inizino ad accettare lo yuan nelle transazioni finanziarie. Sta diventando sempre più chiaro che il vero scopo della Belt and Road Initiative (BRI) cinese non era quello di offrire doni a tutti i poveri del mondo, come farebbe Babbo Natale, ma creare un sistema finanziario internazionale alternativo al dollaro che vedesse la Cina al centro. Non dimentichiamo poi che il non compianto governo Conte I era stato l’unico in Europa a firmare sconsideratamente il protocollo di intesa per la BRI. I furbissimi ministri italiani pensavano di essersi aperti un accesso illimitato all’enorme mercato cinese, mentre i cinesi ritenevano che Roma fosse uscita dall’Occidente per entrare nell’area di influenza cinese, come una qualunque Corea del Nord.
La stampa italiana non ha dato nessun risalto all’incontro del CELAC (la Comunità degli Stati latino americani e caraibici) tenutosi a Buenos Aires a fine gennaio 2023, ma il discorso in video di Xi Jinping, che prometteva di aumentare la solidarietà e di sviluppare ulteriormente la “collaborazione sud-sud”, ha avuto un grande impatto, tanto da preoccupare i rappresentanti degli Stati Uniti e dell’unione Europea. Argentina, Brasile e Venezuela hanno stretti rapporti di cooperazione sia economica che nel campo della sicurezza con Pechino e hanno aderito alla BRI. Dal 2000 al 2020 gli scambi commerciali dell’America latina e dei Caraibi con il dragone sono aumentati di 23 volte, arrivando a 310 miliardi di dollari, alle spalle degli Stai Uniti. Secondo il World Economic Forum questo valore raddoppierà nel 2035, fino a superare i 700 miliardi dell’interscambio statunitense. La Cina è già oggi la potenza economica di riferimento in Africa e, se la tendenza continuerà, rischia anche di divenirlo in America Latina.
Sleepy Washington
Gli Stati Uniti sono la prima potenza militare al mondo ma, negli ultimi anni, hanno visto progressivamente diminuire la loro influenza politica a causa delle profonde divisioni che li lacerano e che hanno impedito finora di elaborare una coerente strategia che giustificasse la posizione preminente alla testa del “mondo libero”. Il Partito repubblicano è stato cannibalizzato da una minoranza fanatica e ideologizzata mentre il Partito democratico è spaccato tra l’ascolto delle istanze sociali tradizionali e le rivendicazioni deliranti dei sostenitori della cosiddetta cancel culture. La linea seguita dalle varie amministrazioni in Medio Oriente è stata una lunga catena di insuccessi e, ancora più grave, invece di moderare le tendenze oltranziste dello Stato ebraico, la politica statunitense si è progressivamente “israelianizzata” arrivando a puntare sul solo strumento militare come fattore risolutivo. Come dimostrano le crudeli e inutili invasioni israeliane del Libano o i brutali interventi nei territori occupati, la guerra in sé non risolve un bel nulla, ma crea soltanto altri odÎ e rancori, fomentando ulteriore risentimento che sfocerà in un altro conflitto.
Chi vuole essere la guida e la coscienza delle società aperte e democratiche non può tollerare che, ciclicamente, la polizia massacri cittadini inermi. Certamente, come dimostra il caso Cucchi, episodi di violenza avvengono anche in Italia, ma sono l’eccezione, non la regola. Un altro elemento che lascia basiti i cittadini del resto del mondo è l’incredibile tasso di violenza della società americana, drasticamente aumentato dalla libera vendita di armi da guerra. Come si può essere credibili nella tanto sbandierata “lotta al terrorismo” quando ogni anno negli Stati Uniti viene ucciso da armi da fuoco un numero di persone che equivale a tutti i caduti nella lunga guerra del Vietnam? In America, un ex Presidente che ha perso le elezioni e ha cercato di rovesciare il risultato facendo un uso squadrista dei propri sostenitori, che hanno attaccato le istituzioni democratiche, non sta in galera ma è di nuovo un concorrente alle primarie. Ma che razza di modello democratico è questo?
Un politico di grande esperienza come Biden è riuscito finora a tenersi fuori dallo scontro diretto con i russi in Ucraina, anche se ci stiamo avvicinando pericolosamente a quel punto. Purtroppo, in un momento come quello attuale, i semplici politici non servono a nulla. Sono necessari degli statisti che abbiano una visione a lungo termine e non sembra che l’attuale inquilino della Casa Bianca ne abbia una. Il Segretario di Stato Antony Blinken corre affannosamente dietro alle varie crisi e, di solito, arriva in ritardo, anche se chi ha la pretesa di guidare il mondo dovrebbe essere in anticipo sugli eventi. Un problema aggiuntivo è rappresentato dall’ideologia iperliberista che domina la finanza e che è contraria a ogni forma di regolamentazione. Il fallimento della Silicon Valley Bank è arrivato come una sorpresa perché l’amministrazione Trump aveva rimosso una serie di limiti introdotti dopo la gravissima crisi finanziaria del 2008. Queste sono contraddizioni da eliminare prima possibile, altrimenti c’è il rischio concreto che Pechino riesca veramente a mettersi alla guida di un “asse dei despoti” che sfidi con successo l’Occidente.
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