Due scritti tanto diversi ma dal comune denominatore: il futuro.
Il futuro dell’architettura (Ardizzola P., “La bellezza ai tempi del corona”, in https://www.academia.edu/42442515/La_bellezza_ai_tempi_del_Corona) e il futuro della politica (Cacciari M., “Leggo, sono agitato. I capelli? Li taglio da solo”, in Corriere della Sera, 4 aprile 2020), pur se assai distanti e ampiamente contraddittori, proprio per questo lasciano spazio ad una serie di riflessioni sul nostro comune futuro a breve e a lungo termine, nonché sul futuro senso della bellezza, quale che sia il significato che a questa parola si voglia e si vorrà attribuire.
Umanista di pregio, l’Ardizzola, studiosa delle avanguardie artistiche del ‘900, emigrata per forza (come tanti altri talenti del Bel Paese), punta il dito alla bellezza intrinseca delle nostre città, frutto di quella “cultura della civitas, che contraddistingue la Gens Italica fin dai primordi” e dalla quale è scaturita la più grande fioritura artistica che l’umanità ricordi (un po’ riduttivo ma rende l’idea), in special modo nel campo dell’architettura.
Di contro Cacciari segnala come da tempo ormai il divario fra i ricchi e i poveri si sia allargato a tal punto, per cui è facile fare i generosi dagli attici di 300 metri con vista sul parco del Sempione (pura fantasia ma rende l’idea), quando altri vivono “in 5 in 50 metri quadrati” in case “che non sono esattamente quelle dei nani e delle ballerine che dalla TV vi dicono state a casa” con le evidenti conseguenze per il sistema nervoso, messo a dura prova da tale convivenza coatta (che, al confronto, i coatti di Pasolini erano meno coatti giacché liberi di scorrazzare).
Dunque mi domando: di quale bellezza parliamo, in un Paese nel quale la politica da governo della polis è diventato il biglietto della lotteria per pochi; nel quale si disinveste dalla ricerca, dalla scuola, dall’università e dalla sanità, con i risultati che sono evidenti a chi li volesse cogliere, tolto il velo dell’ipocrisia per la quale prima o poi una poltrona potrebbe capitare anche a me, e tutti gli altri si fottano, per cui è meglio tacere complici piuttosto che manifestare liberi?
Che senso ha parlare di bellezza architettonica in un paese nel quale la bruttezza impera, coadiuvata dalle mille competenze di Stato, Regioni, Provincie, Comuni e perfino Municipi, che non riescono a formulare una politica comune neanche di fronte all’emergenza? Un Paese nel quale “da trent’anni non si fanno riforme vere, sburocratizzare, sministerializzare” ? (Cacciari, ibid.)
Che senso ha parlare di bellezza e di architettura in un contesto nel quale secondo il compianto Aldo Loris Rossi, il 75% di quanto è stato costruito dal dopoguerra ad oggi sarebbe da demolire senza che piangerne memoria? Si rimpiangono invece gli interventi Ina Casa e le tanto vituperate “167”, sulle quali la mia generazione si è formata, banco di prova per i Maestri del dopoguerra, che ancora oggi danno da studiare agli esegeti.
Vengo al dunque. Cosa significa ripensare la bellezza in architettura oggi, con un patrimonio immobiliare per lo più obsoleto, prossimo al collasso, non ecologico né sostenibile? Significa riformulare il tema etico della Bellezza nella Società-che-ci-aspetta (sarebbe meglio dire che aspetta la nostra progenie). Significa intendere quali siano le categorie disagiate, vorrei dire a rischio della catastrofe, del non accesso al bello degli attici al Parco Sempione o affacciantisi su Piazza Navona o più semplicemente al vivere in 5 in 50 metri quadri.
Individuare le categorie a rischio significa concentrarsi principalmente su due gruppi sociali: giovani e anziani, che sono il patrimonio di qualunque cultura e società che abbia consapevolezza di se stessa. I primi perché mirati al futuro; i secondi perché portatori di sapienza, con un occhio al passato.
Ecco che torna attuale il lavoro dell’Ardizzola.
Una società consapevole, che guardi al passato per fondare il futuro, consapevole del presente: questa soltanto è in grado di affrontare il tema della bellezza. Questa fece la fortuna delle italiche genti nel mondo.
E ancora.
Quanti fra politici e tecnici (leggi “architetti”), sono oggi in grado formulare un pensiero oggettivo sull’abitare al tempo del coronavirus?
Sono essi consapevoli del fatto che nulla di nuovo sotto al sole è comparso nel campo del costruire, che non sia un pasticciato senso dell’ecologia e del risparmio? Costruiremo in terra cruda, in paglia o in mattone? Solare, fotovoltaico o geotermico?
Rimedi dell’ultima ora dopo aver dimenticato come si costruisce correttamente secondo natura, orientando gli edifici (cosa peraltro impossibile grazie ai catasti ed i PRG), ventilandoli e dotandoli di inerzia termica.
Fatti noti perfino ai tempi del romanico impero.
Case vecchie, mal disposte (i bagni sono sempre in fondo al corridoio); che non rispondono alle esigenze delle categorie a rischio di cui sopra.
Cosa se ne faranno i nostri figli al tempo del telelavoro, del salotto borghese, del tinello e dei tripli servizi? E come fanno i nostri anziani a vivere in case pensate per tutti genericamente – in maniera statistica – tranne che per i vecchi medesimi e soprattutto pensate più di cent’anni fa? Già, perché dal punto di vista della tipologia, nulla di nuovo si trova sotto al sole dai tempi dei lotti berlinesi, dalla manualistica ottocentesca, dalle case modello dei primi del ‘900, nella progettazione delle quali, peraltro, i Maestri appaiono oggi assai più moderni delle case da < Immobiliare Palazzinara de’ Noantri>.
Sono ancora da considerarsi valide le tipologie in linea a torre a schiera e a ballatoio, così come le conosciamo oggi? E la casetta isolata stile Paperino a Paperopoli?
Per non dire del fatto che il taglio medio delle famiglie negli ultimi settant’anni è diminuito fino ai due – tre componenti massimo: dalle coppie con figlio, ai singoli per vocazione o per necessità, che si vedono offrire dal mercato immobiliare appartamenti da 100 metri quadri, 120, 150, tagli non più accettabili e che infatti per lo più vanno agli uffici e agli studi professionali con conseguente cambio di destinazione di interi quartieri che una volta si sarebbero detti “borghesi”, e che oggi si dicono oggi “misti” se non del tutto a terziario; e con la conseguente espulsione dell’ex ceto medio in periferie sempre più brutte ed abbandonate a se stesse.
Cosa c’entrino il futuro e la bellezza in tutto questo è presto detto.
Quando una Civiltà si trasforma in civilizzazione (Kultur e Zivilisation, diceva Spengler); quando viene meno quell’Etica Sociale che “trasmette e diffonde i suoi simboli, metafore e immagini alle leggi, alle istituzioni, alle politica di una società” (Zecchi S., 2012), cessa di esistere quella che genericamente chiamiamo Arte, della quale l’Architettura è parte essenziale giacché, come intuì Heidegger, noi non costruiamo per abitare ma costruiamo perché abitiamo.
Cosa? Il Mondo, che per sua stessa definizione vorrebbe essere mondo, cioè pulito.
(scritto di getto in un noioso pomeriggio di quarantena)
S. Mavilio 2020
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