La frase più celebre della commedia Napoli milionaria di Eduardo De Filippo, andata in scena per la prima volta il 15 marzo 1945, è “Adda passà ‘a nuttata”, entrata ormai nel linguaggio comune. Passerà anche la tragedia del Covid-19, lasciando dietro di sé una scia di devastazioni, morti ma anche di coraggio e gesti di eroismo individuale. Sta arrivando il momento di pensare a come rimettere in sesto l’Italia e mobilitare le energie migliori per raggiungere un obiettivo che non possiamo permetterci di mancare. A questo proposito, senza togliere nulla al genio e all’inventiva italica, sarebbe molto utile studiare gli insegnamenti che possiamo trarre dalla ricostruzione postbellica della Germania.
Nello scorso mese di marzo è circolata ampiamente su internet una citazione attribuita a Winston Churchill che riafferma il suo coriaceo anticomunismo, ma esprime umana vicinanza ai russi che pagarono con 27 milioni di vittime la lotta titanica contro il nazismo. La frase termina con l’affermazione che i tedeschi sono il vero problema dell’Europa. La citazione è molto probabilmente un falso, ma è stata ampiamente usata per contribuire a creare un clima di ostilità verso la Germania, nel momento in cui l’Europa sta discutendo iniziative comuni per affrontare la drammatica crisi economica causata dalla pandemia ancora in corso. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale la ricchezza prodotta dall’Italia nel 2020 crollerà di oltre il 9 per cento, il dato peggiore dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il turismo, come pure il commercio e le esportazioni, hanno subito un colpo durissimo a causa della pandemia e nessuno è in grado di fare previsioni affidabili su come riuscirà a ripartire la nostra macchina produttiva.
Anche se usato in maniera retorica, il paragone con il secondo dopoguerra è perfettamente calzante. Ma una differenza sostanziale è che nel 1945 la nostra ricostruzione fu guidata da personaggi che si chiamavano Einaudi, De Gasperi, Mattei, Olivetti, mentre l’attuale classe politica e industriale veleggia molto al di sotto di quello che un momento così drammatico richiederebbe. Per questo motivo sarebbe molto utile studiare come, nell’arco di una manciata di anni, una nazione sconfitta, meticolosamente rasa al suolo, con il proprio territorio spartito e governato dalle potenze vincitrici della guerra, sia riuscita non solo a riprendersi ma a diventare la principale potenza industriale del continente (ricordiamo anche che se la Germania è il primo produttore europeo, alle sue spalle si colloca l’Italia). Oggi la Germania rappresenta il cuore pulsante dell’industria europea e non un problema, anche se al gigante economico corrisponde un nano politico che continua a rifiutare di assumere tutte quelle responsabilità che ci si aspetterebbe da un Paese con la sua potenza industriale. Soltanto un analfabeta, totalmente digiuno di politica internazionale, può ipotizzare che la crisi in cui si dibatte oggi l’Europa possa essere affrontata senza la Germania oppure contro di essa.
La competizione tra l’apparato industriale britannico e tedesco
Per comprendere meglio i termini della questione è necessario ricordare alcuni eventi storici fondamentali che hanno caratterizzato la nascita della società moderna. La Rivoluzione industriale inizia in Inghilterra nella seconda metà del ‘700 e la trasforma in quella che fu definita “l’officina del mondo” che, per più di un secolo, non ebbe rivali né concorrenti, fino a quando, nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, il Prodotto interno lordo (Pil) degli Stati Uniti raggiunse, e poi superò, quello britannico. Il vero pericolo per i britannici non era però rappresentato dagli USA, che erano amici e alleati, ma dal tumultuoso sviluppo dell’industria tedesca che, solo vent’anni dopo la nascita di una Germania riunificata nel 1871, sfidava il primato britannico in un comparto industriale dopo l’altro, dall’acciaio, alla chimica, al settore elettrico, a quello minerario.
Come scrive Edward N. Luttwak in The Rise of China vs the Logic of Strategy, un saggio del 2012, nel 1890 “gli imprenditori e i dirigenti britannici non avevano l’istruzione sufficiente per trarre il massimo dalla scienza e dalla tecnologia: erano le università tedesche, infatti, e non quelle britanniche, a promuovere queste e, di fatto, quasi tutte le altre discipline. Inoltre, nelle miniere e nelle fabbriche britanniche – spesso teatro di una vera e propria lotta di classe – i sindacati si opponevano strenuamente ai macchinari e alle tecniche che implicavano l’utilizzo di meno manodopera, vale a dire alla maggior parte delle forme di innovazione. I lavoratori tedeschi, invece, erano molto più tutelati e ciò li rendeva ben disposti ad accogliere l’innovazione: godevano delle prime pensioni di anzianità e di invalidità del mondo, dell’assicurazione sanitaria e infortunistica. Il vantaggio tedesco era dunque sistemico”.
La Germania scontò abbastanza presto il fatto di essere diventata una nazione unitaria sotto
l’impulso della Prussia e questo caratterizzò pesantemente la politica nazionale, fino a sfociare nella Prima guerra mondiale. Gli storici concordano oggi che le onerosissime riparazioni di guerra imposte da Francia e Gran Bretagna alla Germania sconfitta non fecero altro che alimentare il revanscismo tedesco, spianando la strada all’ascesa di Hitler e allo scoppio della Seconda guerra mondiale, come denunciato da John Maynard Keynes. Questo non è certo il luogo per un’approfondita analisi storica di una tragedia immane e complessa come il secondo conflitto mondiale, mi limito a sottolineare come nelle preoccupazioni britanniche ci fosse non soltanto l’impegno spasmodico per sconfiggere un nemico come il nazismo ma anche l’esplicita volontà di annientare una volta per tutte l’apparato produttivo tedesco.
A causa dell’influenza britannica, il comando aereo alleato condusse una distruzione sistematica di tutte le infrastrutture industriali e urbane, ben oltre le necessità belliche in senso stretto. Bisognava fare tabula rasa della Germania per trasformarla, nel successivo dopoguerra, in un Paese agro-pastorale, incapace di porre alcuna minaccia alla declinante industria dell’impero britannico. In quest’ottica si comprende meglio la scelta britannica di non appoggiare nessun tentativo di colpo di stato militare contro Hitler, la cui permanenza al potere avrebbe prolungato il conflitto e le vittime, ma anche garantito la distruzione totale della Germania, come purtroppo avvenne. La terribile ironia della storia è che, dopo il completo annichilimento, l’apparato industriale tedesco non solo è rinato ma è diventato il principale polo produttivo europeo.
La Guerra fredda cambia le carte in tavola
Nella Conferenza di Potsdam del luglio 1945, l’ultimo dei tre grandi incontri tenuti dagli alleati per definire gli accordi postbellici, si decide la divisione della Germania in zone di influenza americana, britannica, francese e russa. Il progetto per la zona occidentale è lo smantellamento dell’industria pesante, e punta sullo sviluppo dell’agricoltura, secondo le linee del Piano Morgenthau, elaborato nel 1944 dal segretario al Tesoro degli Stati Uniti. Le direttive sono fissate da un documento dello Stato maggiore della difesa americano, in sigla il JSC 1067, che limitava fortemente il tipo di assistenza che si sarebbe potuta portare al Paese sconfitto. Inizialmente le truppe di occupazione mostrarono un atteggiamento punitivo verso la popolazione, affamata e terrorizzata, che doveva scontare la “colpa collettiva” di aver aderito al nazismo. Il compito di applicare questa politica fu affidato al gen. Lucius Clay, un ingegnere di formazione ma anche un esperto di ricostruzione, con una vasta esperienza durante i massicci progetti del New Deal dell’amministrazione Roosevelt.
Clay si rese immediatamente conto che quella che lui definì “pace cartaginese” imposta alla Germania avrebbe favorito la strategia sovietica e che oltre a denazificare il Paese bisognava puntare a una massiccia ricostruzione economica. “Non c’è scelta–ripeteva spesso- tra il diventare comunista a 1500 calorie al giorno o sostenere la democrazia a 1000 calorie al giorno”. Clay iniziò a fare pressioni su Washington affinché si ridiscutesse l’approccio punitivo dei primi mesi dell’occupazione e si riconsiderasse una partecipazione dei tedeschi alla gestione dei loro affari. Finalmente, nell’inverno del 1946 il presidente Truman licenziò il segretario di Stato James Byrnes, convinto sostenitore della politica di durezza, e lo sostituì con il gen. George Marshall che, sulla base di valutazioni di “sicurezza nazionale”, elaborò una nuova direttiva, la JCS 1779, che considerava la ricostruzione della Germania e dell’Europa in termini geostrategici per dar vita a un’economia prospera e a sicuri riferimenti democratici. Era la nascita dello European Recovery Program (ERP), meglio noto come Piano Marshall, che segnava una nuova era per la Germania e per l’Europa a cui erano concessi prestiti generosi, ma non mastodontici, per la ricostruzione. L’ERP puntava soprattutto a mobilitare le energie degli europei, a consolidare le istituzioni democratiche e a crearne di nuove, coinvolgendo sia i vincitori che gli sconfitti.
La nuova strategia consentì di aumentare le razioni di cibo alla popolazione e puntare sulla ricostruzione delle aree industriali della Ruhr e del Reno. L’unificazione dei settori americano, britannico e francese, il miglioramento dei livelli di vita e il chiaro impegno per rimettere in piedi l’apparato produttivo sollevò il morale della popolazione tedesca e spianò la strada alle riforme democratiche che consentirono alla Germania di tagliare definitivamente i ponti col suo passato nazista. Nel maggio del 1949 il cancelliere Konrad Adenauer (che, ricordiamolo, è stato uno dei padri fondatori dell’Europa moderna insieme a De Gasperi e al francese Schuman) redige, insieme a funzionari militari alleati, la Legge fondamentale, l’equivalente di una Costituzione, per quella che diventerà la Repubblica Federale di Germania (ben distinta dalla Repubblica Democratica Tedesca, sotto l’influenza sovietica). La caduta del muro di Berlino del 9 novembre 1989 e il successivo crollo della Germania dell’Est portarono a intense trattative tra i due stati tedeschi che sfociarono in un trattato di riunificazione, firmato il 3 ottobre 1990.
Tutto merito dello European Recovery Program?
Il piano che prese il nome dal segretario di Stato americano George Marshall (offerto anche all’Unione Sovietica e ai satelliti comunisti che però rifiutarono di partecipare) è rimasto negli annali della storia e, ancora oggi, nonostante sia durato dal 1948 al 1952, viene citato continuamente e riproposto per tutte le situazioni e per ogni area geografica. Si è invocato un Piano Marshall per l’agricoltura, il Medio Oriente, per l’Africa, per il Mezzogiorno d’Italia e ora anche per la ricostruzione dell’Europa dopo la catastrofe Covid-19. Finora, è sempre stato riesumato a vanvera, più come artificio retorico che come opzione realistica e operativa. Visto che l’Europa è l’area economica più prospera del mondo, è indubbio che il piano di ricostruzione patrocinato dal segretario di Stato americano ha rappresentato un grade successo storico ed economico, ma è necessario ricordare che gli aiuti furono concessi a moltissime nazioni europee e non tutte li utilizzarono allo stesso modo.
Il principale beneficiario (i dati sono in miliardi di dollari del 1948) fu la Gran Bretagna (3,189), seguita da Francia (2,713), Italia (1,508) e Germania Occidentale (1,390), più altri Paesi con importi minori. La filosofia generale dell’intervento fu delineata in un discorso che Marshall tenne all’università di Harvard il 5 giugno del 1947 dove venne specificato che “prima che il governo degli Stati Uniti possa procedere nei suoi sforzi per migliorare la situazione e aiutare gli europei ad imboccare la strada della ripresa economica, ci deve essere un qualche accordo tra i Paesi europei su ciò che viene richiesto dalla situazione e va delineato che ruolo intendono svolgere quegli stessi Paesi per produrre l’effetto adeguato ai vari interventi che questo governo intende mettere in campo”. Posti di fronte a questa necessità, gli europei crearono l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OCEE, oggi diventata OCSE) per coordinare il Piano Marshall e questo non fu certamente facile perché non esisteva una tradizione di collaborazione tra gli stati e, allora come oggi, la Gran Bretagna era molto restia a limitare la propria sovranità. La Germania, il grande nemico finalmente sconfitto, non entrò subito a far parte dell’organizzazione ma appena l’OCEE si rese conto che l’Europa aveva bisogno della Germania almeno quanto la Germania aveva bisogno dell’Europa, venne ammessa nel 1949.
Mentre si conducono discussioni arroventate su una politica che metta in comune le risorse europee per fronteggiare la crisi economica causata dalla pandemia di coronavirus, dovremmo ricordare che i fondi americani non furono concessi soltanto alla Gran Bretagna, l’alleato di sempre, ma anche al nemico tedesco, che aveva causato la morte di centinaia di migliaia di soldati americani. Non si trattava di buon cuore, ma di considerazioni strategiche. Allen Dulles, uno dei principali agenti dell’intelligence durante la guerra e capo della CIA dal 1953, spiegò che “il Piano Marshall …non è un’impresa filantropica…è basato su ciò che riteniamo necessario per la sicurezza americana…è l’unica via pacifica a nostra disposizione con cui possiamo rispondere alla sfida comunista al nostro sistema di vita e alla nostra sicurezza nazionale”.
Come abbiamo visto, i fondi ricevuti dalla Germania furono relativamente limitati ma vennero investiti in modo oculato ed efficace, tanto che prima ancora dell’adesione al piano era stata fondata la Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW, Istituto di credito per ricostruzione) con sede a Francoforte con lo scopo di garantire prestiti a lungo termine a tutti quei settori dell’economia che fossero importanti per la rinascita industriale della Germania. Il KfW fu creato indipendentemente dal Piano Marshall e spesso integrò con propri fondi i prestiti americani, divenendo il principale veicolo per la rinascita industriale tedesca. L’80 per cento dei crediti dell’ERP passò infatti attraverso il KfW che operò per garantire lo status di Berlino, situato al centro della Germania comunista, per sostenere le piccole e medie imprese che rappresentavano la spina dorsale dell’economia, per permettere a individui intraprendenti di iniziare nuove attività economiche, per l’innovazione e la ricerca e per garantire la sicurezza sui posti di lavoro. Il KfW esiste ed è attivo ancora oggi, ha avuto alti e bassi, è incappato in qualche brutto scandalo ma, sul lungo termine, ha svolto una fondamentale funzione nell’arco dei decenni, senza essere legato alle contingenze politiche e alle scelte dei governi che si sono man mano succeduti. Una lezione che potrebbe essere molto utile per le sfide che l’Italia si trova oggi di fronte.
di Galliano Maria Speri
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