di Axel Famiglini
La conclusione dell’esperienza statuale dell’ISIS in Medioriente rappresenta indubbiamente un momento assai significativo in seno alle lunghe ed articolate vicissitudini relative alla travagliata ed annosa questione mediorientale. Gli sforzi della coalizione internazionale, a guida americana, sono stati infine coronati dal successo, permettendo al governo di Baghdad, alle milizie sciite e ai Curdi siriani ed iracheni di sloggiare le truppe del sedicente Califfato da gran parte del territorio un tempo da queste occupato. Certamente questo risultato segna un punto importante a favore della cosiddetta “lotta al terrorismo”, tuttavia quanto accaduto va letto in un contesto più vasto nel quale i grandi movimenti della storia e della politica plasmano esiti e conseguenze di più ampio respiro sia temporale che storico.
Occorre innanzitutto ricordare che l’amministrazione Obama, al fine sia di dare atto ad una politica di progressivo disimpegno internazionale dagli scenari bellici globali che di porre contestualmente un argine all’ISIS in Iraq, ha platealmente consentito all’Iran di mettere piede ufficialmente in territorio mesopotamico, sancendo di fatto il diritto di Teheran a supportare le proprie aspirazioni geopolitiche in Siria, nella penisola arabica e, più in generale, nel più vasto scenario mediorientale. La firma dell’accordo sul nucleare iraniano ha costituito in tal senso il coronamento di un processo di avvicinamento fra Occidente ed Iran che se da un lato ha soddisfatto gli appetiti economici di determinati attori internazionali, dall’altro ha accresciuto notevolmente la complessiva instabilità internazionale. E’ in tal senso evidente che l’aver concesso “de facto” all’Iran un salvacondotto internazionale per congiungere territorialmente i propri interessi globali dalla Persia al Mediterraneo si è rivelato un boomerang fatale sia per la stabilità della regione che per gli stessi interessi occidentali nell’area. Ciò si è potuto concretizzare nonostante gli Americani fossero a conoscenza del fatto che l’Iran sciita, pur di perseguire i propri obiettivi geostrategici, avesse offerto ad Al-Qaeda armi, soldi ed addestramento nei campi di Hezbollah in Libano al fine di ottenere in cambio dai fondamentalisti sunniti attacchi terroristici contro gli interessi americani in Arabia Saudita e nel Golfo. Da questo punto di vista la responsabilità principe della nuova penetrazione iraniana in Medioriente ricade sugli Stati Uniti, i quali ora non sanno più come riportare entro i propri confini naturali un alleato di comodo ormai fin troppo scomodo. I Curdi iracheni rappresentano, al contrario, una della principali vittime della politica opportunistica ed irresponsabile degli Usa nella regione. Prima usati come fanteria di linea contro i miliziani dell’ISIS, non appena la situazione è iniziata a stabilizzarsi, i Curdi sono stati stati scaricati da Washington in nome di una concordia nazionale irachena e di un accomodamento con la Turchia che allo stato attuale appaiono ben lungi dall’essersi concretizzati. La condanna internazionale nei confronti del referendum sull’indipendenza del Kurdistan iracheno ha rappresentato il fallimento di un progetto curdo finalizzato ad acquisire la propria definitiva autonomia politica offrendo in cambio sul piatto degli equilibri internazionali il sangue versato dai propri combattenti nella lotta contro l’ISIS. Parimenti sia la Turchia che l’Iran hanno trovato sul territorio dell’indipendentismo curdo un comune terreno di dialogo teso primariamente a spezzare ogni possibile anelito indipendentista dei Curdi che possa minare l’integrità territoriale sia di Ankara che di Teheran.
Appare in tal senso velleitario il tentativo dell’amministrazione Trump, già minata da laceranti contrasti interni e dallo spettro delle inquietanti macchinazioni esercitate dalla “longa manus” del Cremlino, di riportare l’Iran all’interno di un’accettabile sfera di influenza, in particolare dal momento che Teheran è stata accompagnata nel suo dilagare fra i meandri delle sabbie del Vicino Oriente da una Russia di Putin in piena ascesa geopolitica. Mosca ha abilmente saputo occupare, assieme all’Iran, i vuoti lasciati da un Occidente in pieno disorientamento, contribuendo in maniera determinante, attraverso l’impiego dei sofisticati mezzi militari a propria disposizione, a garantire la tenuta del regime di Assad, dimostrandosi così indispensabile non solo per il regime stesso ma anche nei confronti dell’Iran e ciò sia sul piano delle operazioni militari che dello scacchiere della diplomazia internazionale. Infatti, per quanto Teheran abbia sostenuto sia militarmente che economicamente Assad fin dai primordi della rivoluzione siriana, è stato l’impiego dei mezzi militari moscoviti l’elemento che ha volto le sorti della guerra civile in Siria a favore del regime, dimostrando quanto il ruolo di Mosca possa essere determinante e risolutivo sul piano internazionale. Gli Stati Uniti, dal canto loro, durante la presidenza di Obama, hanno a più riprese dimostrato di voler iniziare a rinunciare al consueto ruolo di guida politica globale, salvo essere trascinati nel conflitto mediorientale per via di una consolidata consuetudine leaderistica che però l’attuale compagine politica americana stenta sempre più ad interpretare, a comprendere se non a riconoscere come propria. Risiede essenzialmente nel progressivo decadimento della qualità politica ed intellettuale della classe dirigente degli Stati Uniti la crisi geopolitica che l’Occidente sta vivendo in questi ultimi anni e che è divenuta fenomenica, dopo essere rimasta in una fase di quiescente maturazione almeno fin dall’epoca della presidenza Reagan, con il mandato di Barack Obama. Chi oggi rimpiange il predecessore di Trump dovrebbe al contrario considerare come in realtà sia stato Obama a rafforzare il blocco sociale che ha generato l’attuale inquilino della Casa Bianca. Il presente stato di disorientamento e di debolezza del mondo occidentale sullo scenario globale, nonostante i primi sintomi fossero già riconoscibili alcuni decenni fa, è potuto giungere a piena maturazione a causa di una presidenza profondamente ideologica e radicale quale è stata quella di Barack Obama. E’ altresì da sottolineare che, per quanto fossero evidenti le manovre del Cremlino tese ad influenzare le elezioni americane (e non solo quelle), Obama non ha posto alcun argine alle mire moscovite, il che dovrebbe far riflettere su quanto una più che probabile inimicizia per Hillary Clinton abbia infine avuto la meglio rispetto a quello che sarebbe dovuto essere il mero senso di responsabilità nazionale di un presidente degli Stati Uniti. La Russia si è inoltre ben resa conto fino a che punto i nuovi media (social network) rendessero possibile ciò che i vecchi strumenti di propaganda non erano riusciti ad ottenere, sopratutto in considerazione del fatto che un uso distorto dei mezzi di comunicazione unito ai postumi sociali della crisi economica avevano creato terreno fertile per la diffusione di una propaganda della peggior specie presso un elettorato poco avvezzo ad esercitare il proprio spirito critico e a praticare il settore della conoscenza. Ormai da lunghi anni Mosca sta organizzando e pagando centinaia di persone che, attraverso aziende di copertura create ad hoc, intervengono quotidianamente dalla Russia sui principali siti internazionali di dibattito presenti su internet (forum di quotidiani, siti di informazione, facebook, twitter tanto per citare solo alcuni esempi) con lo scopo di manipolare l’opinione pubblica e condurla, bufala dopo bufala (fake news), ad abbracciare i desiderata del Cremlino (per non parlare delle decine di siti di pseudoinformazione più o meno correlati ad attività legate all’azione di propaganda orchestrata da Mosca sul web). Pertanto, così come dopo l’imperatore-filosofo Marco Aurelio regnò il tiranno Commodo, allo stesso modo, dopo il populista “radical-chic” Obama, è giunto alla presidenza degli Stati Uniti il populista filorusso e destrorso Donald Trump. In tal senso non appare stupefacente che dopo i lunghi e tormentati decenni della guerra fredda, Mosca sia riuscita in ciò che nemmeno Stalin avrebbe mai potuto pensare di realizzare, ovvero influenzare l’elettorato americano a tal punto da portare alla Casa Bianca il candidato sponsorizzato dal Cremlino. Purtroppo, per quanto inizialmente si fosse tentato di costituire un argine tra le intemperanze presidenziali e la stanza dei bottoni, il presidente Trump si sta rivelando una personalità non sempre facilmente controllabile e ciò si sta riflettendo sempre più negativamente sulla credibilità globale degli Stati Uniti. La decisione di Donald Trump di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme rappresenta l’ultima deliberazione di un presidente che nulla sa di politica internazionale e che pur di compiacere determinati ambiti del proprio elettorato (in particolare gli elettori di confessione evangelica) è disposto a sconvolgere gli equilibri internazionali in nome di un piano di pace Usa che non esiste più da anni e che il presidente stesso ha contribuito a tumulare definitivamente. La medesima scelta di non certificare l’accordo sul nucleare iraniano, per quanto condivisibile in seno all’analisi degli errori commessi nel momento della sottoscrizione del trattato, non pone le sue fondamenta su un piano strategico ben preciso, ma su medesime riflessioni estemporanee di ordine elettorale. In quest’ottica un Paese come Israele dovrebbe ben riflettere su quali conseguenze possa produrre per il proprio futuro la politica di un presidente americano quale è Donald Trump. Il sostegno incondizionato offerto a Trump da Netanyahu potrebbe rivelarsi assai controproducente perché se un tempo gli Stati Uniti potevano essere considerati quali una sorta di “padre saggio” dell’Occidente, oggi assai difficilmente si potrebbe confermare un analogo senso di fiducia da parte dei partner degli Americani. Purtroppo gli Stati Uniti odierni hanno perso quel grado di affidabilità, di chiarezza strategica e di obiettività che li rendeva leader indiscussi dell’Occidente. Il Mondo occidentale è indubbiamente ancora primariamente legato alle sorti ultime e definitive che scaturiscono dai soverchianti arsenali militari statunitensi, tuttavia, sul piano politico e delle relazioni, Washington ha perduto moltissimo del pristino prestigio politico che un tempo possedeva. Le decisioni assunte in seno alla Casa Bianca, avendo subito un evidente scadimento sia in termini di qualità politica che di acume strategico, non sono più caratterizzate da quel senso di affidabilità assoluta che prima le contraddistingueva. In quest’ottica Tel Aviv dovrebbe riflettere bene su quali mosse intenda promuovere in Medioriente visto che le azioni e, ormai, le provocazioni di Washington potrebbero produrre conseguenze non positive per lo status geopolitico dell’America e ancor meno per il destino di Israele stesso. In particolare le ultime guerre americane hanno insegnato a caro prezzo agli Usa che l’impiego in grande stile dei propri arsenali militari comporti un esborso finanziario insostenibile per le casse federali e pertanto non appare al momento chiaro quanto gli Stati Uniti possano essere disponibili in futuro a spendere per correre in soccorso di Israele se gli eventi in Medioriente dovessero seriamente precipitare. Israele sta osservando con viva apprensione il dilagare della presenza politico-militare iraniana nella regione, tuttavia non dovrebbe farsi abbindolare dalle intransigenti dichiarazioni di Donald Trump contro Teheran che non sono sostenute né da una reale lucidità di intenti né da una concreta concordia istituzionale in seno alla medesima amministrazione USA. Basti in tal senso pensare a quanto sia aspra la polemica tra il presidente degli Stati Uniti ed apparati fondamentali dell’amministrazione americana e quanto abbia delegittimato l’autorità della Casa Bianca il sospetto che il Cremlino possa aver manipolato le elezioni americane. E’ sufficiente solo considerare questo dato per comprendere in quale stato di prostrazione giacciano le istituzioni statunitensi. Il fatto che il presidente degli Stati Uniti abbia dichiarato di riporre più fiducia nelle parole di Putin che in quelle dei servizi di sicurezza americani offre una fin troppo chiara cartina di tornasole su quale sia il clima politico a Washington, soprattutto nel momento in cui il presidente degli Stati Uniti è accusato di aver “fatto comunella” con i servizi segreti russi per screditare Hillary Clinton e vincere a tutti i costi le elezioni presidenziali.
E’ in tal senso evidente che, al di là dei toni bellicistici (che, a seconda della situazione, possono addirittura trovare sostenitori “bipartisan”) e roboanti del presidente Trump, gli Stati Uniti al momento stentano di dimostrare al mondo quella indispensabile lucidità intellettuale necessaria a contrastare le mire egemoniche di Russia, Cina ed Iran, per quanto gli Usa abbiano ufficialmente dichiarato di considerare tali Paesi quali principali minacce globali per la sicurezza e gli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati. Dovrebbe pertanto apparire chiaro che le dichiarazioni che promanano da Washington sono viziate da un gioco di equilibri che a volte promuove le posizioni di coloro che avversano Donald Trump, mentre altre volte fa emergere le istanze di coloro che sostengono le “visioni” dell’inquilino della Casa Bianca, con un presidente che talvolta legge le dichiarazioni preparate dall’opposizione interna al suo governo mentre in altre occasioni, in un impeto di ribellismo, “salta il recinto” ed inizia a “twittare” a ruota libera.
Allo stesso modo un Paese quale l’Arabia Saudita, nazione ormai attanagliata da una lotta esistenziale contro l’Iran degli Ayatollah, la quale ha troppo a lungo sperato in un appoggio muscolare americano sulla questione, sembrerebbe riporre una fiducia eccessiva, se non irrazionale, nei confronti di ciò che talvolta esterna, dopo anni di insopportabile latitanza verbale statunitense, il presidente Trump. Occorrerebbe infatti considerare che, a parte un folkloristico sostegno morale presidenziale ed una certamente più interessante (per Washington) serie di contratti di fornitura bellica “a stelle e a strisce”, alla fine dei giochi la patata bollente mediorientale della lotta a tutto campo contro l’Iran se la stanno “sbucciando” quasi in toto Riyad ed alleati dato che altri attori internazionali o stanno cercando ancora di evitare lo scontro totale con Teheran o addirittura vogliono esclusivamente intrattenere rapporti politico-commerciali con quest’ultima. Aver “rotto” con il Qatar ha rappresentato un errore geostrategico assai importante per i Sauditi, i quali non hanno compreso che l’aver abbandonato l’alleanza con Doha da un lato ha danneggiato l’unità dei Paesi arabi in Siria, infliggendo un duro colpo alle ultime speranze di sopravvivenza dei ribelli siriani, dall’altro ha consegnato una parte importante delle milizie siriane all’uso esclusivo di una Turchia, alleata del Qatar, la quale ormai sta giocando una partita in gran parte autonoma rispetto ai Paesi del Golfo. La mossa di Riyad tesa a trasferire il terreno dello scontro in Libano e a coinvolgere Israele militarmente non ha avuto gli esiti sperati visto che Tel Aviv non ha abboccato all’amo e Macron è intervenuto prontamente per salvare il premier libanese Hariri da una situazione a dir poco esplosiva. L’annuncio relativo allo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme è stato condannato da tutti i Paesi arabi, ciononostante alcuni commentatori hanno notato una sospetta freddezza da parte dell’Arabia Saudita. Non è in tal senso improbabile che lo spauracchio del comune nemico iraniano abbia fatto infine venire meno la pluridecennale ostilità di Riyad nei confronti dell’idea di Gerusalemme capitale di Israele, in ragione sia della crescente potenza dimostrata dal nemico persiano che della vicinanza di Hamas sia al Qatar che a Teheran. Forse non è un caso che proprio da Ankara siano state elevate le più vibranti proteste sulla questione di Gerusalemme, probabilmente in relazione proprio a quel canale di comunicazione e collaborazione in essere con l’Iran e con il Qatar che oppone la Turchia a Tel Aviv e a Riyad. Da questo punto di vista la Turchia, dopo aver accusato a suo tempo i Paesi arabi di essere stata lasciata da sola a “sbrigarsela” con la Russia di Putin, sta dimostrando una volta di più come le proprie priorità geostrategiche stiano via via divergendo rispetto quelle degli altri Paesi arabi. Ankara infatti si è posta alla ricerca di una ricomposizione della crisi siriana che in primo luogo tuteli i propri interessi nell’area. Il presidente Putin si è dimostrato assai abile a delegittimare il processo di pace promosso dall’ONU a Ginevra attraverso la sponsorizzazione e l’organizzazione delle conferenze di pace di Astana e Sochi. Utilizzando tavoli diplomatici paralleli dove il Cremlino possa godere di una assoluta maggioranza e di una controparte debole e minoritaria, Mosca spera di pervenire ad una pace separata, in base alle regole stabilite dal Cremlino e supportate da Teheran, con la Turchia. Si tratta in definitiva di un processo diplomatico che esclude del tutto i sostenitori arabi ed europei dei ribelli siriani, ormai ridotti a mal partito, ben sapendo, fra le altre cose, che la Turchia in realtà poco possa fare di fronte alle soverchianti forze congiunte russo-iraniane, un aspetto che forse Ankara non ha ancora ben considerato. Infatti, nonostante le tanto sbandierate zone di tregua stabilite in Siria, il conflitto tra regime, alleati di Assad e i ribelli siriani continua senza sosta e gli eventuali rovesci di questi ultimi si tramutano in un continuo mutare delle condizioni poste sul tavolo delle trattative, ovviamente a favore di Mosca e Teheran. Questa tattica, promossa da Mosca, caratterizzata da continue e false profferte di pace accompagnate da un’incessante azione militare sul terreno, costituisce una vera e propria spirale discendente nella quale Ankara rischia di farsi risucchiare se non riuscirà a trovare appigli a cui agganciare le proprie prerogative. Non bisogna dimenticare che il regime ed i suoi alleati hanno in primo luogo concentrato i propri sforzi bellici contro i ribelli siriani (considerati come la primaria minaccia alla sopravvivenza del regime), accordandosi e facendo affari con l’ISIS stesso in numerose occasioni (se non partecipando “de facto” al parto del “Califfato”). Quando i ribelli siriani sono stati ridotti all’impotenza e l’alleanza internazionale anti-regime è stata messa definitivamente in crisi dopo la caduta di Aleppo, il regime, sentendosi sufficientemente forte e con le spalle protette, ha concentrato i propri sforzi militari contro l’ISIS per regolare una volta per tutte i conti con il loro scomodo “alleato”, in particolare nel momento in cui la coalizione internazionale stava mietendo i primi successi decisivi contro il “Califfato”. In tale prospettiva, per quanto la Turchia possa tentare di dettare le proprie condizioni sullo status del nord della Siria e sul futuro politico-amministrativo dei Curdi siriani, alla fine il regime siriano sarà comunque intenzionato, una volta chiusa la partita con l’ISIS, a volgere le proprie schiere contro le sacche di resistenza esistenti nel nord della Siria stessa e nel resto del Paese. Si tratterà pertanto di capire fino a che punto la Turchia sarà intenzionata o sarà in grado di proteggere Idlib e le milizie ribelli colà presenti le quali rappresentano, a livello diplomatico, una parte importante del peso politico di Ankara sullo scenario siriano. La Turchia ha, nei fatti, dovuto porre nel cassetto l’istanza relativa alla destituzione del presidente Assad per ripiegare verso una ricomposizione del conflitto siriano che scongiuri la formazione di uno stato curdo a ridosso dei propri confini e che la esenti il più possibile dalle conseguenze di una non improbabile disfatta dei ribelli in Siria, ovviamente, in quest’ultimo caso, in riferimento al ruolo che questa ha svolto come sponsor dell’opposizione al regime di Damasco. Appare altresì evidente che la politica promossa da Erdogan sul piano interno (in particolare dopo il fallito golpe) ed internazionale nonché le posizioni critiche assunte dall’Europa nei suoi confronti (per quanto comprensibili in un contesto comunitario, lo sono assai meno per una realtà extra-UE) non hanno agevolato il travaglio geopolitico di una nazione, quella turca, che deve confrontarsi in modo pressoché solitario con la spada di Damocle rappresentata da Russi ed Iraniani alle porte. Lo sfilacciamento della coalizione degli “Amici della Siria” ed il mutamento di prospettiva di alcuni suoi membri nel corso della crisi politico-militare dell’opposizione siriana non hanno certamente giovato ad Ankara nel momento in cui ha dovuto gestire “da sola” il tracollo delle speranze della rivoluzione anti-Assad di porre un termine al regime di Damasco. Gli stessi Stati Uniti, al di là delle frasi di circostanza di alcuni suoi alti funzionari, non hanno la benché minima intenzione di supportare il rovesciamento del regime di Assad, soprattutto ora che la presidenza Trump ha messo ulteriormente in discussione le priorità della politica interna ed estera americana. Certamente esistono a livello politico e burocratico forze che perseguirebbero l’obiettivo della deposizione di Assad a Damasco sia sul campo di battaglia che nelle stanze della diplomazia, tuttavia quello che emerge dalla sintesi della variopinta e spesso contrastante serie di posizioni e di dissidi propri dell’amministrazione USA è il desiderio, già espresso dall’altrettanto sfaccettata amministrazione Obama, di pervenire ad una ricomposizione con Mosca e Teheran che crei meno grattacapi possibili e certamente, a conti fatti, la soluzione più semplice sta nel mantenimento dello status quo (con buona pace dei Curdi stessi), compresa la conservazione di massima dell’accordo sul nucleare iraniano ed una sostanziale accettazione di un fumoso codominio con Teheran e Mosca su alcune aree mediorientali. Questo ovviamente non significa che gli Stati Uniti non intendano avere voce in capitolo in Siria. Ciò, al contrario, è ben dimostrato dalle recenti scaramucce che hanno visto velivoli americani e russi reclamare specifiche zone di influenza nei cieli siriani, in considerazione di speculari zone di influenza sul terreno. Ciononostante né Mosca né Teheran intendono rinunciare ad Assad e pertanto neppure gli Usa si opporranno alla sua conservazione, essendo gli Americani più interessati a concentrare le proprie risorse nell’Estremo oriente, dove gli Usa si stanno giocando la propria credibilità internazionale nella crisi della Corea del Nord, ponendosi su un vertice di un triangolo assai pericoloso condiviso con Russia e Cina. E’ in tal senso degno di nota che secondo i Britannici l’Iran sia sospettato di aver aiutato la Corea del Nord nel recente rapido sviluppo del proprio arsenale atomico. Inoltre appena pochi mesi fa sarebbero state intercettate due navi nordcoreane che trasportavano materiale relativo ad armi chimiche diretto verso la Siria.
Rimane pertanto l’Europa quale ultima speranza per i ribelli siriani, anche se indubbiamente l’Europa, nella specificità dei singoli stati, possiede posizioni sulla crisi in Siria anche piuttosto diverse. E’ interessante il ruolo recentemente assunto dalla Francia di Macron, la quale ha cercato da un lato di calmierare l’avventurismo saudita in Libano e dall’altro di supportare le istanze arabe su Gerusalemme. Il tentativo francese di costituire un canale di dialogo diretto con Mosca sulla Siria è fallito e ciò per il semplice fatto che Mosca, molto pragmaticamente, non vuole conferire alla Francia un ruolo di peso quando può benissimo interloquire direttamente con i maggiori sostenitori finanziari e militari dei ribelli siriani i quali da un lato posseggono le più sostanziali ed efficaci leve politico-militari sul terreno e dall’altro appaiono diplomaticamente poco resilienti. Ciononostante Parigi ha fatto sentire il suo peso, sia a Riyad che a Beirut, nei fatti chiarendo una posizione occidentale sul caso Hariri che Washington non era stata in grado di definire. Parimenti da parte inglese si è mosso il ministro degli esteri Johnson il quale ha supportato, ribadendo la necessità di un allontanamento di Assad dal potere, quella che è l’istanza ufficiale dell’Unione Europea sul caso siriano, ovvero che se non ci sarà una transizione politica in Siria, l’Europa non sborserà un centesimo per la sua ricostruzione. La posizione europea nelle vicende mediorientali è stata in passato (e lo è tuttora) assai contraddittoria in quanto viziata da interessi politici ed economici contrapposti. L’Europa ha tentato di rovesciare Assad “al minor costo possibile” e nel contempo ha cercato di riallacciare rapporti economici con l’Iran. Ovviamente questi due approcci hanno mostrato tutte le loro contraddizioni che si sono drammaticamente palesate in Siria. L’interesse europeo nel mantenimento dei rapporti commerciali con l’Iran si è nuovamente espresso con forza nel momento in cui Trump ha minacciato di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano. Parallelamente l’Europa si è opposta al trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, essendo comunque interessata a creare meno frizioni possibili con i Paesi arabi e a non incoraggiare ulteriori situazioni destabilizzanti e nuovi flussi di migranti. Da questo punto di vista l’Europa, pur nella posizione di precaria debolezza in cui si trova, potrebbe riuscire a calmierare sia l’avventurismo saudita, il quale, alla ricerca di un riscatto di qualche tipo (fra le altre cose Riyad sta probabilmente mal sopportando la necessità, a seguito dei rovesci strategici subiti, di intavolare con Mosca contratti di fornitura militare al fine di mostrare una sorta “di buona volontà” al dialogo e di imbastire contestualmente con la Russia accordi sul prezzo del barile di greggio a fronte del mancato e sperato tracollo del sistema petrolifero moscovita), non sta portando da nessuna parte, sia le politiche di potenza promosse da Russia ed Iran i quali si troverebbero comunque a confrontarsi con una ricostruzione siriana dai costi proibitivi in una terra dove la guerriglia non cesserebbe mai del tutto di persistere. Sia Mosca che Teheran dovrebbero interrogarsi sul fatto che potrebbe costare loro molto caro cercare una vittoria totale in Siria perché comunque i problemi inerenti quella nazione ricadrebbero integralmente sulle loro spalle per un tempo del tutto indefinito. Sia la Francia che il Regno Unito, dopo aver subito i contraccolpi negativi sul piano internazionale di un’errata strategia in Siria, del parziale fallimento del fronte ribelle anti-Assad e dei ripetuti bastoni posti fra le ruote della loro azione diplomatica dalla Russia in sede ONU, sono ad ogni modo assai determinati a far pesare e a tenere in costante debita evidenza tutte le violazioni dei diritti umani (compreso l’utilizzo di armi chimiche) commesse in Siria dal regime e dai suoi alleati e a condurre, presto o tardi, i responsabili di tali violazioni di fronte ad un tribunale internazionale. Il Regno Unito ha inoltre recentemente chiesto all’Arabia Saudita di allentare il blocco dei rifornimenti umanitari allo Yemen. Questa mossa potrebbe essere inquadrata nel più vasto tentativo messo in atto da parte di alcuni Paesi europei di far comprendere all’Arabia Saudita che sparare “a caso” non solo non produca benefici ma che comporti costi assai elevati in termini finanziari e ciò nonostante l’appoggio incondizionato del presidente Trump al giovane ed inesperto rampollo della dinastia saudita. Allo stato attuale, dal momento che una soluzione militare alla crisi siriana sembra impossibile, vista la riluttanza di vecchia data da parte degli Europei (orfani da lungo tempo dell’efficace ed assai rassicurante macchina da guerra USA) a perseguire una strada di questo genere, l’unico modo per permettere la sopravvivenza dell’opposizione siriana e garantirle un ruolo in un prossimo futuro è cercare di non perdere i contatti con Teheran e nel contempo evitare che l’Arabia Saudita inizi ad agire in maniera “distruttiva” se non del tutto “sconclusionata”, trascurando erroneamente sia il fronte siriano che il più che necessario ristabilimento del canale diplomatico con il Qatar (Paese costretto dagli eventi ad allacciare fondamentali contatti con Teheran visto il blocco economico imposto dai Sauditi stessi). La costituzione di una qualificata delegazione dell’opposizione siriana per i colloqui di pace organizzati dall’ONU, plasmata primariamente dall’Arabia Saudita, certamente va nell’auspicabile direzione di un modus operandi più riflessivo ed organico per l’intera crisi siriana.
Nonostante le contraddizioni insite negli interessi espressi dagli Europei, l’approccio che potrebbe nascere da tali contraddizioni potrebbe essere il migliore esprimibile nel contesto attualmente in atto. Parimenti rimane altresì fondamentale un canale di dialogo con Mosca anche se è sempre bene accompagnare al necessario senso di fiducia una certa dose di scetticismo. Infatti ciò che il Cremlino solitamente si impegna ad implementare va poi sempre verificato sul campo dato che sovente il governo russo a parole promette azioni che poi il più delle volte non si concretizzano nella pratica, come nel caso ucraino o, per l’appunto, siriano.
Appare ad ogni modo evidente che occorra quanto prima porre un termine alla guerra in Siria ed il motivo principale di una tale urgenza, oltre all’aspetto umanitario, sta nel fatto che l’ISIS, per quanto attualmente ridotto a mal partito, è latore di un’ideologia, posta alla base del fondamentalismo islamico tutt’ora imperante, i cui esiti sarebbero catastrofici per tutto l’ordine internazionale. Già ai tempi di Osama Bin Laden, una volta spazzata via la cortina fumogena rappresentata dalla propaganda di bassa lega diffusa dalle montagne dell’Afghanistan, l’idea di fondo posta a fondamento del programma politico di Al-Qaeda è rappresentata dalla creazione di un “Califfato internazionale”, un super-stato musulmano di natura intollerante ed integralista il quale, stando a quanto sostengono i sostenitori di una tale visione politica, una volta debellate le attuali compagini amministrative figlie del colonialismo e dell’interesse occidentale, si proporrebbe di imporre l’Islam delle (presunte) origini al mondo intero. Al di là delle “decorazioni mitologiche” figlie del fanatismo ma anche della frustrazione sociale, politica ed economica, è evidente che finché nei Paesi musulmani regnerà l’instabilità, la paura e la precarietà, coloro che propongono un tale disegno politico avranno la possibilità di trovare spazio e proseliti, soprattutto laddove esistano effettivamente regimi incapaci di soddisfare i bisogni primari delle popolazioni nonché di venire incontro ad una generale richiesta di libertà individuali e civili. In tal senso, se analizziamo quanto accaduto dall’attentato alle torri gemelle di New York fino al giorno d’oggi, ci rendiamo conto di quanta strada abbia fatto il fondamentalismo islamico dalla prima Al-Qaeda fino all’ISIS. Si è infatti passati da un’organizzazione terroristica strutturata in celle ad un gruppo armato di tutto punto che è riuscito a costituire uno stato embrionale che in precedenza non aveva alcuna strutturazione sul territorio. Esiste una potente forza di fondo insita nelle idee politiche dell’ISIS e del fondamentalismo internazionale che non va sottovalutata affatto ma che anzi deve costituire un monito per la comunità internazionale affinché non si creino le condizioni per la costituzione ed il radicamento di una nuova ISIS ancora più insidiosa ed efficace dell’attuale gruppo ora abbarbicato sul confine posto tra Iraq e Siria.
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