Ormai, ci sono pochi dubbi che l’attuale primo ministro israeliano sia un personaggio shakespeariano, non un eroe tragico, che splende di una sua fosca grandezza, ma un malvagio di mezza tacca, parossisticamente legato al potere che ha costruito sul sangue di decine di migliaia di palestinesi e qualche migliaio di israeliani. È un incrocio tra Riccardo III e Macbeth e, come loro, finirà nella polvere ma non prima di aver inferto lutti e sofferenze inenarrabili ai due popoli che abitano la regione. La sua carriera ha imboccato, tra lutti e distruzioni immani, il viale del tramonto ma ci vorranno anni prima che il danno enorme che ha inflitto al concetto di diritto internazionale e all’immagine di Israele come stato democratico venga riparato e, soprattutto, che venga modificato il suo approccio bellicista e di totale disprezzo per i diritti umani.
Assunta la carica di primo ministro per la prima volta nel 1996, ha perso e riacquistato il potere diverse volte, fino a diventare il più longevo politico dello Stato ebraico e, dal suo inizio, ha spinto sempre più a destra il governo da lui guidato. Sicuramente un politicante molto abile, è riuscito a stare al potere cambiando di volta in volta gli alleati, fino a identificarsi totalmente col destino di Israele. Netanyahu si è costruito negli anni il profilo del duro, della guida che non tentenna mai e che non esita a usare la violenza più brutale per colpire i nemici di Israele. Pretendeva di presentarsi come “Mr Security”, ma già dai primi anni al potere ha intrattenuto col terrorismo un rapporto molto ambiguo, sfruttando al meglio lo sgomento e la paura provocati dagli attacchi terroristici ma guardandosi bene dal fare qualunque mossa che potesse rimuoverne le cause e ridurre quindi il rischio di attentati.
La carriera
Dopo che il laburista Ytzhak Rabin aveva iniziato il processo di dialogo per la nascita di un futuro Stato palestinese, che avrebbe poi preso la forma degli Accordi di Oslo nell’agosto del 1993, Netanyahu diventa leader del partito conservatore Likud nello stesso anno e comincia a profilarsi come un tenace oppositore del dialogo con i palestinesi. Nell’estate del 1995 partecipa a una dimostrazione contro il primo ministro, con tanto di finto funerale e di cappi sventolati, mentre la folla gridava “morte a Rabin” considerato un vero e proprio traditore. Il 5 novembre un nazionalista religioso militante dell’estrema destra israeliana assassina Rabin, ponendo fine di fatto a qualunque potenziale negoziato per arrivare alla creazione di uno Stato palestinese.
Nelle elezioni del maggio 1996 Bibi, come ama farsi chiamare, aveva poche probabilità di essere eletto perché, dopo la morte di Rabin, il Paese si era stretto intorno al laburista Shimon Peres che risultava ampiamente favorito dai sondaggi. Ma, due mesi prima del voto, terroristi palestinesi organizzarono quattro attentati suicidi in nove giorni causando la morte di 61 israeliani. Netanyahu riuscì a convincere gli elettori che Peres era debole e incapace di fronteggiare la minaccia terroristica e che era necessario puntare su un “uomo forte” che usasse il pugno di ferro contro i palestinesi. Vince con un margine risicatissimo e diventa così il più giovane primo ministro israeliano dal 1948. Dopo quella vittoria iniziale, Bibi ha vinto e perso diverse elezioni, fino a tornare al potere nel dicembre del 2022, quando forma un governo con l’appoggio sostanziale degli estremisti religiosi e dei partiti che sostengono l’espansione indefinita degli insediamenti ebraici nei territori palestinesi.
A differenza dei suoi alleati religiosi che hanno un’idea messianica di Israele, Netanyahu è un laico che non si rifà certo alla Bibbia per opporsi alla soluzione dei due Stati. Secondo Joshua Leifer del Guardian la sua visione del mondo è stata plasmata da un profondo pessimismo che lui ha assorbito da suo padre Benzion, uno storico dell’Inquisizione spagnola che concepisce la storia degli ebrei come una lunga sequenza di olocausti. Il suo distaccato disincanto è poi stato rafforzato dalla morte in azione di Yonathan Netanyahu, il fratello maggiore che guidò un commando di militari israeliani per liberare gli ostaggi di un dirottamente in Uganda. Negli anni, Bibi ha trasformato il Likud in un partito personale, modellato sulla sua persona e sulle sue necessità. Quello che era una volta un partito fortemente nazionalista, ma che includeva anche dei liberal a livello sociale o economico, è diventato un partito populista e autoritario che ruota intorno alla personalità carismatica del suo leader. Probabilmente, Netanyahu si considera come una sorta di Re Sole ebreo, che si identifica e incarna lo spirito stesso dello Stato. Sua moglie Sara ha ripetuto diverse volte che «senza mio marito Israele è condannato». La Storia si incaricherà di mostrare la piccolezza dell’uomo e il suo ruolo nefasto in un’area che, dal 1945, ha conosciuto soltanto guerre.
Il patto col diavolo
Il problema vero è che quello che potremmo chiamare il “modello Netanyahu”, secondo il quale l’occupazione dei territori e le rivendicazioni dei palestinesi potevano essere controllate a tempo indeterminato, è ampiamente condiviso nel Paese. Nel 2018, un importante intellettuale di centro-destra, il filosofo Micah Goodman, pubblicò il saggio Catch-67 nel quale suggeriva che nell’impossibilità di “risolvere” il problema palestinese, questo poteva almeno essere “minimizzato”. La stessa opposizione non si è mai distaccata da questa strategia. Ci sono dei singoli cittadini e organizzazioni di volontari israeliani che continuano a difendere i diritti umani e a prodigarsi per portare bambini palestinesi colpiti da cancro negli ospedali dello Stato ebraico ma, a livello politico, non esiste nessuna componente che si discosti dalla feroce strategia che può essere riassunta con “ammazziamoli tutti”. Ovviamente, Netanyahu è stato anche abbastanza furbo da dirsi ambiguamente favorevole alla nascita di uno Stato palestinese, ponendo però condizioni che i palestinesi non avrebbero mai potuto sottoscrivere, facendo quindi ricadere su di loro il fallimento.
Dopo aver puntato sul mantenimento dell’occupazione, Netanyahu ha elaborato una esplicita strategia per impedire che il movimento palestinese
potesse mai unificarsi e cominciare a rivendicare con più credibilità un’apertura verso la futura creazione di un proprio Stato. Questo obiettivo è stato raggiunto dando più potere agli islamisti di Hamas a Gaza a spese dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina guidata da Fatah. Non è certo un mistero che, per rafforzare Hamas a Gaza, su richiesta di Tel Aviv il Qatar ha accettato di trasferire miliardi di dollari al gruppo islamista. D’altronde, è agli atti un discorso diventato oggi tristemente famoso che Netanyahu tenne nel 2019 a una riunione del Likud. «Chiunque voglia impedire la creazione di uno Stato palestinese -disse in quell’occasione- deve sostenere il rafforzamento di Hamas. Questo fa parte della nostra strategia per dividere i palestinesi tra quelli di Gaza e quelli in Giudea e Samaria». E questo è lo stesso politico che, dopo il 7 ottobre, continua a guidare le operazioni per «la distruzione completa» di Hamas.
Ricordiamo che nel luglio del 2014 Netanyahu aveva ordinato un’operazione su vasta scala a Gaza in risposta al lancio di missili dalla Striscia. Dopo 50 giorni di bombardamenti massici e operazioni mirate con migliaia di morti civili, il primo ministro israeliano dichiarò di aver inflitto un colpo durissimo alle capacità logistiche di Hamas. Non dobbiamo quindi meravigliarci che un sondaggio realizzato dall’Università Bar Ilan nei primi giorni di novembre 2023 abbia dimostrato che meno del 4 per cento degli israeliani ritiene “credibile” Netanyahu. Secondo il quotidiano israeliano Maariv se si andasse a votare oggi i 32 seggi che il Likud controlla alla Knesset si ridurrebbero a 17, mentre l’Unità nazionale guidata dall’ex capo di Stato maggiore Benny Gantz vedrebbe i propri seggi passare da 12 a 42. Secondo tutti gli analisti la carriera politica di Bibi è finita, il fatto è che lascia dietro di sé un cumulo di macerie insanguinate e fumanti e un Paese che non è mai stato così insicuro e impaurito. L’unico fil rouge che unisce gli israeliani è l’odio verso Hamas e i palestinesi, certo non un buon viatico per la costruzione di un futuro diverso.
L’amico americano
Il più longevo politico israeliano ha legami molto stretti con gli Stati Uniti visto che in gioventù è cresciuto tra Gerusalemme e Philadelphia. Dopo la laurea al MIT di Boston ha lavorato come consulente per il Boston Consulting Group, per rientrare in Israele nel 1978. Dal 1984 al 1988 è stato il rappresentante permanente di Israele alle Nazioni Unite. Ha avuto quindi modo di crearsi una fitta rete di contatti che non ha esitato ad attivare per sostenere le proprie politiche. Diversi analisti militanti continuano a considerare Israele come un fantoccio nella strategia imperialistica di Washington, ma le cose sono molto più complicate di così. Da tempo Israele è diventato una potenza regionale con un’agenda che, a volte, si differenzia da quella degli USA e non esita a scontrarsi con l’America per sostenere la propria linea politica. In violazione degli accordi internazionali sul disarmo nucleare, lo Stato ebraico si è inoltre dotato da anni di bombe atomiche e possiede missili adeguati per colpire qualunque Stato potesse minacciarlo. Secondo gli specialisti militari, Tel Aviv possiede dalle 100 alle 400 testate e ha minacciato in diverse occasioni di usarle contro i propri nemici. Una ventina d’anni fa un capo di Stato Maggiore israeliano si vantò durante un’intervista alla BBC che i siriani avevano subito abbassato la cresta quando lui si era detto pronto a usare l’arma atomica. L’ultimo caso è quello di Amichai Eliyahu, ministro dei Beni culturali che, ai primi di novembre 2023, ha dichiarato che sganciare una bomba atomica su Gaza rappresentava «una delle possibilità a disposizione». Il 5 novembre, il governo israeliano lo ha sospeso a tempo indefinito.
Negli anni ’80 fece molto scalpore il caso di Jonathan Pollard, un cittadino americano di origini ebraiche che lavorava come analista civile per il servizi segreti americani, che passò al Mossad israeliano una grande quantità di segreti militari. Fu arrestato dal FBI nel 1985 e, due anni dopo, condannato all’ergastolo. Passò 30 anni in prigione e fu rilasciato nel 2015 sulla parola. Nel 2020, contravvenendo agli impegni presi col dipartimento della Giustizia statunitense, si imbarcò su un volo privato per Israele. Al suo arrivo fu ricevuto come un eroe dal primo ministro Netanyahu. Ma forse il caso più eclatante della sfrontatezza israeliana si è visto durante l’offensiva lanciata da Tel Aviv contro i negoziati dell’Amministrazione Obama con l’Iran per fermare il programma nucleare di Teheran. Nel gennaio del 2015, Netanyahu accettò un invito del Congresso USA per parlare sul tema dell’Iran. Il suo intervento al Congresso, un’interferenza sfacciata sulla strategia diplomatica della presidenza, avvenne il 3 marzo, due settimane prima delle elezioni in Israele. Questo creò un notevole scandalo perché l’invito era stato fatto dallo Speaker della Camera senza informare la Casa Bianca, una violazione del protocollo previsto per tutti i capi di governo in visita, e uno schiaffo esplicito a Obama.
Visto che da più di un decennio le varie amministrazioni statunitensi hanno elaborato una politica ufficiale per spostare verso Oriente il loro asse commerciale e politico e fronteggiare la seria minaccia strategica rappresentata dalla Cina, molti hanno paventato il rischio di uno sganciamento degli Stati Uniti dal Medio Oriente, un’area che rischiava di diventare marginale per gli interessi globali di Washington. Questa tendenza si è rafforzata ulteriormente dopo che con lo sfruttamento degli scisti bituminosi e la tecnologia del fracking gli USA hanno raggiunto l’autosufficienza energetica. Ma, contrariamente a quanto si potrebbe immaginare, i falchi israeliani (e i loro alleati negli USA) hanno visto questa prospettiva con molto favore perché consentirebbe loro di avere le mani più libere nel perseguire la loro strategia aggressiva, senza il fastidio del rispetto dei diritti umani e di tutti i bei discorsi sulla democrazia che, almeno formalmente, sono ancora le linee guida di Washington.
Scelte autonome dagli USA
Nel 1996 un gruppo di centri studi neoconservatori coordinati da Richard Perle, che sarebbe entrato successivamente nell’amministrazione di George W. Bush, pubblicò uno studio intitolato A Clean Break: a New Strategy for Securing the Realm nel quale veniva delineato come un governo a guida Netanyahu «avrebbe potuto rifondare le relazioni con gli Stati Uniti su basi diverse». Gli autori ritenevano che Israele avrebbe potuto ottenere una «maggiore libertà di azione ed eliminare un significativo strumento di pressione nei suoi confronti» se fosse stato in grado di “liberarsi” dal sostegno americano «liberalizzando la propria economia». Un’analisi attenta rivela che i vari governi Netanyahu che si sono succeduti hanno applicato alla lettera questa strategia. È stata messa in atto un’aggressiva politica di privatizzazione delle banche e delle imprese che erogano e gestiscono servizi, le tasse sono state ridotte di pari passo con la diminuzione delle spese e dei servizi forniti dallo Stato, mentre sono stati ridotti i diritti sindacali. Quella che alla fondazione dello Stato era un’economia basata su princìpi comunitari e socialisti, ancora applicati nei kibbutz, e fortemente statalista, è stata trasformata in un’economia totalmente liberalizzata il cui fulcro è l’esportazione di armamenti e di apparati ad alta tecnologia per la sorveglianza. Certo, questo ha anche comportato la crescita delle ineguaglianze sociali ma, nell’attuale clima da nemico alle porte, nessuno si può permettere di criticare il complesso militare-industriale israeliano.
Sul Guardian del 21 novembre 2023, il già citato Joshua Leifer scrive che, dal 2008, la costante crescita economica ha permesso a Israele di non dover ricorrere alle garanzie statunitensi nelle sue attività finanziarie. «Perfino l’aiuto militare USA –afferma Leifer- anche se ammonta all’enorme cifra di 38 miliardi di dollari, avviene sotto forma di uno sconto per gli acquisti di armi americane e per i finanziamenti al sistema di difesa missilistico, il che equivale essenzialmente a un sussidio per i costruttori di armi statunitensi». La politica estera di Netanyahu è sganciata da quella americana, a partire dai rapporti che rimangono cordiali con Putin, vista la corposa presenza di ebrei russi in Israele. Nonostante il presidente ucraino Zelensky sia ebreo, Netanyahu si è ben guardato dal condannare esplicitamente l’invasione e ha costantemente tergiversato sull’invio di armamenti avanzati all’Ucraina.
Nel primo decennio di questo secolo, tentando di prevenire condanne da parte dell’Unione Europea, Bibi non ebbe remore nello stringere rapporti con l’ungherese Orban o il polacco Jarosław Kaczyński, infischiandosene delle tante accuse di antisemitismo che venivano loro rivolte. Il fatto che sia Trump che Biden hanno identificato la Cina come avversario strategico per gli Stati Uniti, non ha impedito a Netanyahu di partecipare al progetto della Nuova via della seta cinese. Nel 2021 Tel Aviv ha concesso alla Shanghai International Port Group, un gruppo di proprietà statale, di operare nel terminal spedizioni del porto di Haifa, attraverso cui passa circa il 50 per cento delle merci del Paese. Inoltre, delle imprese cinesi hanno realizzato importanti progetti infrastrutturali come il nuovo sistema di metropolitana leggera di Tel Aviv.
Questa fase è arrivata alla fine. Ben presto le tante inchieste sulle accuse di corruzione arriveranno ai tribunali a cui si aggiungeranno probabilmente anche le accuse di incompetenza e superficialità che hanno consentito ad Hamas di perpetrare i massacri del 7 ottobre. Bibi il duro, il mastino che consentiva ai cittadini israeliani di dormire sonni tranquilli, il politico che sfidava impunemente la Casa Bianca si è rivelato un tragico bluff, soprattutto ora che emerge come c’erano state decine di segnalazioni su insolite attività di Hamas ai confini della Striscia. Tutto è stato ignorato perché un’offensiva terroristica di quelle dimensioni non rientra negli eventi che possono accadere.
Eppure, nei due decenni precedenti c’erano stati diversi segnali di come certi disegni viziati dal delirio di onnipotenza potevano portare a disastri dai costi umani, politici ed economici enormi. Come è finito l’ambizioso progetto dei neoconservatori come Richard Perle che, sulla punta delle baionette, sognavano di esportare la democrazia in Medio Oriente senza tenere in alcun conto la storia e la cultura locali? Macerie, morti, devastazioni e le condizioni ottimali per una nuova ondata di conflitti e terrorismo. Questo è quello che lascia Netanyahu a cui si aggiunge il fatto che chiunque lo sostituirà seguirà le sue orme perché lo Stato di Israele, morti da tempo i padri fondatori e finiti i grandi ideali iniziali, è basato su un’economia legata agli armamenti e alla tecnologia della sicurezza che ha bisogno constante di paura, instabilità, conflitti, terrorismo. Rimane aperta la questione palestinese, una popolazione che supera i 5 milioni e che, come dimostrano i massacri del 7 ottobre, non si può continuare a ignorare. Chiunque governerà dopo Netanyahu rischia di vedersi comparire davanti lo spettro insanguinato di Banquo, nelle sembianze delle decine di migliaia di morti palestinesi che continuano a non trovare pace.
(L’immagine di copertina ritrae Benjamin Netanyahu durante il servizio militare nel 1967, IDF Spokesperson’s Unit / CC BY-SA 3.0)
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