di Axel Famiglini
La parte orientale della città di Aleppo è recentemente caduta nelle mani del regime di Assad, ponendo fine in questa antichissima città ad anni di sanguinosi e logoranti combattimenti fra le truppe poste a sostegno del governo di Damasco e i gruppi armati dell’opposizione siriana. Dopo il decisivo intervento dell’aviazione russa nel conflitto in Siria ed il crescente supporto offerto dalle milizie sciite organizzate ed inviate in gran numero dall’Iran degli Ayatollah, il tracollo delle difese preparate da parte dei ribelli asserragliati ad Aleppo si è concretizzato in tutta la sua straziante drammaticità, nonostante la caduta della città fosse già stata annunciata da mesi da parte di numerosi osservatori e reputata dai più come una mera questione di tempo. La resistenza che per lunghi anni i ribelli siriani avevano opposto al regime è stata infine spezzata da una devastante pioggia di bombe a cui si è accompagnato un assedio inumano e mortale sia per i combattenti che per i civili.
Da un punto di vista geopolitico, la caduta di Aleppo ha rappresentato un duro colpo per tutti quei Paesi che in un modo o nell’altro intendevano supportare le proprie istanze geostrategiche nell’area attraverso il sostegno offerto ai gruppi anti-Assad in seno alla guerra civile siriana. Si tratterà pertanto di comprendere nelle prossime settimane in che modo gli attori principali in gioco abbiano intenzione da un lato di capitalizzare il successo ottenuto ad Aleppo e dall’altro di limitare gli effetti negativi della sconfitta subita sul campo di battaglia siriano. Le cause che hanno portato alla caduta di Aleppo sono molteplici e si riferiscono innanzitutto alla scarsità di mezzi che i ribelli siriani hanno potuto impiegare per difendersi a fronte dell’azione martellante della macchina da guerra russo-iraniana verso la quale non erano assolutamente in grado di opporre resistenza nel medio e lungo periodo. Allo stesso tempo la vittoria alle elezioni americane di Donald Trump, il vuoto politico legato alla transizione presidenziale presso la Casa Bianca ed il tramonto di ogni possibile (e vana) speranza in un intervento americano nel conflitto hanno posto gli alleati internazionali dei ribelli siriani in una condizione di totale impotenza, non avendo questi mai contemplato altra soluzione che quella di convincere in qualche modo, un giorno o l’altro, gli Americani a fare qualcosa di militarmente tangibile per sostenere i propri obiettivi geopolitici nella regione o quella di costringere, nel più breve termine, attraverso pressioni di ogni tipo e l’opera di mediazione di influenti personalità statunitensi ben disposte alla bisogna, l’ostile Casa Bianca ad intervenire attraverso i canali della diplomazia al fine di salvare le sorti dell’opposizione siriana nei momenti di maggior crisi come accaduto abbastanza efficacemente nei primi mesi dell’anno. Dando uno sguardo alla situazione attuale, appare pertanto evidente che la rivoluzione siriana è stata condotta ad un passo dal tracollo definitivo sia dal venir meno del tradizionale canale diplomatico “di soccorso” americano (fra le altre cose diplomaticamente fallito) che a causa del sempre più evidente deficitario supporto politico-militare offerto da parte di coloro che “a parole” avevano promesso aiuti e sostegno ai ribelli mentre, dall’altra parte della barricata, Russi ed Iraniani pianificavano in maniera concreta la soluzione militare “pro domo sua” al conflitto in Siria, al punto tale da abbandonare nuovamente Palmira al suo destino in mano all’ISIS pur di concentrare l’azione militare del regime ed alleati attorno Aleppo contro i ribelli sostenuti da Occidente, Turchia e Paesi arabi (testimoniando una volta di più quali siano le reali priorità di Mosca in Siria, essendo indubbiamente esclusa fra queste la lotta allo Stato Islamico) . Pertanto nel momento in cui diveniva vieppiù evidente che le ormai soverchianti forze del nemico stavano avendo la meglio sui rivoluzionari siriani e che le risorse destinate alla Siria non sarebbero bastate più per mantenere gli equilibri in essere, in particolare a fronte di un completo abbandono politico-diplomatico da parte americana, lo “zoccolo duro” dei sostenitori dei ribelli siriani non ha ritenuto di poter far altro che contemplare lo sfacelo posto di fronte ai propri occhi, probabilmente dimostrandosi del tutto impreparato a fare fronte ad una situazione che avrebbe richiesto azioni risolutive di carattere militare, possibili solamente nel caso fosse stata presente una corale volontà politica tesa ad assumersi finalmente le proprie responsabilità in territorio siriano ed in Medioriente. Evidentemente le precarie condizioni politico-economiche in essere in Europa e nel Golfo, nonché una sostanziale impreparazione di fondo a sobbarcarsi oneri che amplierebbero enormemente l’esposizione internazionale di certi Paesi ed i relativi oneri connessi al questo nuovo status, hanno fatto desistere questi governi dall’assumere un ruolo che sarebbe stato logicamente conseguente se i propositi inizialmente formulati avessero avuto alle spalle una solida base di convincimento complessivo. Al contrario sia la Russia che l’Iran, non dovendo, fra le altre cose, rispondere alle multiformi esigenze di un elettorato e di una opinione pubblica democratica come invece sono chiamati a fare i governi europei, hanno potuto condurre fino alle estreme conseguenze i propri piani politici, nei fatti dimostrando che un’azione politica che non sia supportata dalla minaccia delle armi poco o nulla può fare se il proprio opponente ritiene che la guerra sia la mera continuazione della politica. E’ pertanto evidente che nel momento in cui le ricadute geopolitiche di questo fallimento “in fieri” si stanno già da qualche tempo concretizzando negativamente in maniera differente a seconda di quelle che sono la posizione internazionale e i punti deboli dello stato coinvolto, non è strano che un Paese quale la confinante Turchia, vera chiave di volta della rivoluzione in Siria, abbia già da tempo cercato di trovare strade alternative rispetto ad un sistema di alleanze, edificato attorno al progetto di mutamento della collocazione internazionale di Damasco, che, rebus sic stantibus, rischia, al contrario, molto presto di implodere in un “si salvi chi può” generale.
Russia, Iran e Turchia
La Turchia, nel corso degli ultimi mesi, ha promosso una politica che, a fronte sia dell’inazione internazionale nella crisi siriana che dei propri gravi problemi di politica interna, è stata sempre più indirizzata verso il tentativo di trovare la quadra di un conflitto che sta destabilizzando non solo il Medioriente ma anche la Turchia stessa. Preso atto della sostanziale impotenza del fronte anti-Assad rispetto all’azione militare congiunta russo-iraniana in Siria e del completo sbandamento dell’Occidente sul piano internazionale, la Turchia ha proseguito nella sua operazione di avvicinamento “tattico” nei confronti di Mosca e Teheran, sperando in tal modo di calmierare una possibile sconfitta in terra damascena, conquistandosi il diritto a ricoprire un ruolo di primo piano sul tormentato tavolo delle trattative recentemente monopolizzato da Russi ed Iraniani. Da questo punto di vista, contrariamente a quello che pensano alcuni commentatori, Erdogan non ha improvvisamente cambiato idea rispetto al destino del presidente Assad, semplicemente allo stato attuale la Turchia non può più pensare che Assad possa essere costretto a dimettersi per opera di qualche forza a lui ostile e probabilmente sta cercando di salvare le milizie anti-regime in Siria intervenendo essa stessa nel conflitto al fine di garantire a queste (e a se stessa) uno spazio di manovra militare (e politico-diplomatico) nei pressi di Aleppo, sottraendo a tale scopo terreno all’ISIS, azione che non rischia di mettere in conflitto la Turchia con nessuna potenza rilevante in gioco. La stessa Giordania, la quale sostiene il cosiddetto “Fronte Sud” dei ribelli siriani, avrebbe già da tempo condotto una politica analoga, accordandosi con Putin per evitare bombardamenti russi a ridosso del proprio confine nel momento in cui è parso evidente che la campagna ribelle stava conoscendo una sconfitta dopo l’altra e che Assad non avrebbe mai rinunciato volontariamente al potere. Oltretutto sottrarre territorio all’ISIS agevola la Turchia nell’altrettanto problematico conflitto parallelo in corso tra Turchi e Curdi siriani, di fatto ottenendo due potenziali vantaggi al prezzo di uno solo. La Russia dal canto suo ha trovato nel conflitto siriano un’occasione per esercitare la propria forza militare al fine di ristabilire a livello internazionale il proprio ruolo di potenza egemone ed è sicuramente ben lieta di aver in qualche modo indotto la Turchia ad accettare il fatto che in questo momento Mosca possieda il controllo della situazione mentre Ankara si trovi progressivamente isolata (anche per colpa di una Unione Europea che non appare in grado di formulare una politica estera coerente, perseguendo gli stessi stati membri a volte politiche opposte fra loro, basti pensare che ci sono Paesi quali la Spagna che stanno cercando di riavviare relazioni diplomatiche con il regime di Damasco e più in generale è presente un vasto fronte che a vari livelli vuole tornare a cooperare economicamente con la Russia). Quindi se da un lato la Turchia si atteggia come se fosse stata indotta verso più miti consigli dalla mano forte del Cremlino, dall’altro i Russi giocano la solita carta tipica del modus operandi del vecchio impero zarista in seno alla questione d’oriente, ovvero quella di portare progressivamente il governo turco in un tale stato di crescente sudditanza da causarne o la capitolazione (il recente omicidio dell’ambasciatore russo ad Ankara potrebbe segnalare qualche elemento di sofferenza interna su questo aspetto) o la più completa sottomissione a fronte della totale assenza degli alleati della Turchia stessa. Tuttavia la Russia ha altresì necessità di porre un termine alla guerra e di riportare le relazioni con i Paesi del Medioriente ad una situazione di relativa pace per lavorare assieme ad essi ad un rialzo del prezzo del petrolio, per cui Mosca non può permettersi né di annichilire Ankara né si sobbarcarsi totalmente le proprie responsabilità sulla Siria che tramuterebbero l’attuale vantaggio bellico in una vittoria di Pirro, in particolare in campo economico. Oltretutto l’Iran, ora che ad Aleppo le armi apparentemente tacciono e la vittoria totale contro i Sunniti sembra essere realmente a portata di mano, non darebbe l’impressione di essere così desiderosa quanto la Russia di una cessazione delle ostilità mentre, preferirebbe, tra pulizie etniche e spostamenti di popolazioni sunnite ostili in Siria, proseguire il conflitto in modo da cementare tramite una vittoria totale un arco di influenza politica sciita che parta ad oriente dall’Afghanistan e che termini ad occidente in Libano con Hezbollah (temprata ed enormemente rafforzatasi grazie alla guerra civile siriana) pronta a minacciare l’esistenza stessa di Israele. Pertanto Mosca e Teheran potrebbero iniziare a valutare la possibile evoluzione degli eventi futuri in Medioriente in maniera assai differente anche se una vera e propria frattura tra Russia ed Iran rimane allo stato attuale poco più di un’ipotesi. La stessa Israele vede con preoccupazione quanto sta accadendo in Siria in merito al ruolo conquistatosi da Hezbollah nel Paese e già da tempo ha avviato contatti con Mosca per capire se Putin possa farsi garante o meno di una politica iraniana che non crei nuova instabilità ai propri confini.
Regno Unito e Francia
Se la pioggia di “dure condanne”, articoli giornalistici e comunicati stampa sollecitati o preparati dai rispettivi organi governativi franco-britannici avesse avuto lo stesso effetto delle bombe russe scaraventate su Aleppo, a quest’ora non sarebbe rimasto molto né del regime di Assad né dei suoi alleati. Purtroppo l’idea di fondo coltivata a Londra e a Parigi che vedeva nella presunta elezione di Hillary Clinton un mezzo per mutare il nefasto corso degli eventi derivato dalla mancata azione militare del 2013 si è rivelata del tutto errata. In tal senso né il Regno Unito né la Francia, all’indomani dell’elezione di Trump e nel corso tutta la penosa agonia di Aleppo est, hanno avuto più carte in mano da spendere concretamente per supportare le proprie richieste in campo internazionale, soprattutto a fronte del fatto che Trump ha promesso nel corso della campagna elettorale un riavvicinamento a Putin e la fine del sostegno (per quanto già assai scarso e contraddittorio nel corso della presidenza Obama) all’opposizione siriana. Sia il governo francese che quello britannico, assediati in casa da crescenti problemi interni, non hanno avuto la forza di costruire un’alternativa né al vuoto prodotto dall’amministrazione Obama né al clima di totale incertezza che la presidenza Trump potrebbe causare nel mondo di qui a breve tempo. Parimenti le prossime elezioni presidenziali francesi potrebbero portare al governo della Francia e all’Eliseo partiti e candidati (quali ad esempio Le Pen, Fillon, Mélenchon) che hanno già dichiarato una propria predilezione per un dialogo molto stretto ed assai conciliante con il presidente russo Putin e pertanto il sostegno francese ai ribelli sullo scenario siriano potrebbe terminare entro pochi mesi (per quanto non si possa escludere che i funzionari del Quai d’Orsay possano avere la meglio sui politici come spesso accaduto in un passato sia recente che remoto). Se ciò si dovesse verificare Londra si troverebbe sostanzialmente sola ad affrontare una situazione nella quale da un lato gli Usa potrebbero esprimere la propria volontà di trovare un’intesa con la Russia e dall’altro l’Europa, sulle scia delle prossime imminenti elezioni politiche di numerosi stati continentali, potrebbe essere presto caratterizzata da uno scenario nel quale partiti populisti e filorussi via via potrebbero mutare radicalmente le politiche di interi governi di Paesi storicamente alleati al Regno Unito, accrescendo ulteriormente la crisi della stessa UE in concomitanza con i primi atti formali della Brexit. Infatti il problema che nel giro di poco tempo potrebbe sconvolgere la vita pubblica degli stati europei può essere individuato nell’inarrestabile affermazione dei partiti legati al populismo sia di destra che di sinistra i quali considerano il modello offerto dalla Russia di Putin quale risposta adeguata alla crisi sistemica degli apparati politici tradizionali di carattere social-liberale, liberal-democratico e cristiano-sociale che hanno retto il continente europeo dalla fine della seconda guerra mondiale in avanti. In questo senso le omissioni e gli errori che i governi europei hanno compiuto nel corso degli ultimi anni di crisi (come la pessima gestione dei flussi migratori), uniti, per alcuni di essi, alla stessa debacle di Aleppo, al fallimento della propria politica estera siriana (e non solo) e al periodico ripresentarsi “ad orologeria” del problema del terrorismo, come recentemente accaduto a Berlino (evento occorso nello stesso giorno dell’attentato all’ambasciatore russo ad Ankara e su cui occorrerebbe aprire una seria riflessione a livello di “intelligence” dato che i terroristi islamici, tolta dalla superficie la patina religiosa di facciata, appaiono essere in realtà meramente mercenari che facilmente possono entrare, anche indirettamente, al servizio di qualche agente internazionale), possono creare le condizioni per una recrudescenza ulteriore del fenomeno del populismo, nei fatti trascinando, con il tempo, in una crisi irreversibile gli attuali sistemi democratici e l’architettura di alleanze attualmente ancora in essere sul piano continentale e globale. In questo contesto appare evidente che l’unico beneficiario di una tale situazione caotica non potrà che essere la Russia di Putin la quale si troverà a confrontarsi con un continente europeo diviso e potenzialmente connotato da governi ad essa solidali se non addirittura affini. Pertanto la pretesa di Regno Unito e Francia di limitare la propria azione politica ad affermare che Assad se ne debba andare o che Putin debba riconsegnare la Crimea all’Ucraina senza accompagnare a tali affermazioni e ad un eventuale politica sanzionatoria corrispondenti e proporzionate azioni politico-diplomatico-militari di rilevo non farà altro che ulteriormente delegittimare governi che non appaiono in grado, dopo anni di insensati tagli alla difesa e “miracolistiche” aspettative nei confronti degli Stati Uniti, di esercitare leve concrete atte ad influenzare le decisioni dei propri competitori internazionali, salvo possedere ancora un certo potere contrattuale presso un delegittimato consiglio di sicurezza dell’Onu e in seno ad alcuni media mondiali. L’incontrastato passaggio in acque internazionali delle navi russe dirette in Siria ed il continuo sorvolo provocatorio di aerei russi sopra i cieli europei non fanno altro che sottolineare ogni volta di più la totale imbarazzante impotenza delle nazioni occidentali a fronte di un regime russo che non riesce a trovare avversari sulla propria strada che abbiano seriamente intenzione di opporsi ad esso, alimentando in questo modo i moti di ammirazione verso il muscolare “orso russo” che tanto piace ai sostenitori del populismo internazionale oramai foraggiato senza remore da Mosca ed amplificato dai media di tutto il mondo, manipolati a loro volta dalla formidabile macchina propagandistica globale messa in piedi dal Cremlino. Ci si potrebbe altresì domandare come il sostegno ai ribelli siriani si concili con la cooperazione “de facto” con le milizie sciite in Iraq le quali vengono poi spedite da Teheran in Siria a sostegno di Assad e se un’eccessiva compiacenza nei confronti dei confusi ed obliqui piani americani per il Medioriente nonché degli interessi di compagnie private in Iran non abbiano giocato pesantemente a sfavore dei piani geopolitici franco-britannici in Siria, danneggiando gravemente la complessiva credibilità governativa agli occhi degli alleati mediorientali. Allo stesso tempo la riluttanza occidentale nei confronti di un intervento aereo in Siria anche se finalizzato esclusivamente al lancio tramite paracadute di aiuti umanitari per le località assediate dal regime non ha giovato e non continua certamente a giovare alla credibilità di coloro che pur chiedendo la fine del regime siriano sostengono sia inopportuno assumersi unilateralmente il rischio di entrare in rotta di collisione con l’aviazione russa in Siria, mostrando una volta di più come non si possa produrre una azione geopolitica credibile e conservare il proprio status internazionale se non si posseggono la volontà o i mezzi per affrontare l’avversario su un pari livello.
Arabia Saudita, Paesi del Golfo ed Egitto
Anni di estenuanti conflitti mediorientali e di un contestuale confronto serrato con l’Iran, associati a prezzi del petrolio a lungo termine insostenibili per le economie del Golfo, hanno impegnato oltremodo le finanze di Sauditi ed alleati, i quali hanno a lungo sostenuto a suon di miliardi di petroldollari non solo i ribelli siriani ma anche la campagna militare in Yemen e Paesi quali l’Egitto controrivoluzionario di Al Sisi. La crisi del conflitto siriano, la progressiva “evaporazione” geopolitica dell’alleato americano e le crescenti criticità finanziarie di Riyad hanno a poco a poco suggerito ai Paesi del Golfo di allentare la tensione economica sia contro lo shale oil americano (il quale sembrerebbe essere riuscito a sopravvivere all’attacco frontale promosso dai Paesi arabi) che contro le esportazioni petrolifere russe che finanziano la politica estera mediorientale di Putin. L’Arabia Saudita ha da un lato dovuto venire incontro alle crescenti difficoltà economiche dei propri alleati del Golfo e parimenti dall’altro ha dovuto prendere atto di come la crisi delle proprie entrate finanziarie iniziasse a destabilizzare il precario equilibrio sociale che regge il regno dei Saud e che è intimamente legato alla pace sociale acquistata dalla monarchia attraverso generosissime sovvenzioni ed elargizioni popolari. In tal senso i Paesi del Golfo sono dovuti scendere a patti con Russi ed Iraniani per incrementare il prezzo del petrolio ed allentare la tensione che grava sui propri conti pubblici, permettendo nei fatti a Mosca e, soprattutto, ad un Iran sdoganato dalle sanzioni di sovvenzionare i propri conflitti regionali beneficiando di un prezzo del petrolio più elevato. I Paesi arabi, come i loro alleati europei, pagano altresì lo scotto della loro dipendenza strategica dagli Stati Uniti e del non essere riusciti a rispondere all’intervento russo-iraniano in Siria in maniera proporzionale ed efficace. Le recenti accuse promosse contro la Turchia tendenti a scaricare su Ankara la responsabilità della caduta di Aleppo non tengono tuttavia in considerazione il fatto che neppure gli Stati del Golfo si sono spesi per salvare in qualche modo la situazione di Aleppo, essendo tutti vincolati dal fatto che gli Stati Uniti hanno imposto il proprio veto sul trasferimento di tecnologia anti-aerea ai ribelli siriani. Parimenti la medesima accusa mossa alla Turchia di aver distratto una parte delle forze anti-Assad per promuovere la propria politica anti-curda nella Siria del nord si scontra altresì con il fatto che senza adeguate armi antiaeree la città di Aleppo sarebbe probabilmente caduta ugualmente mentre ora i ribelli siriani possono contare su un territorio patrocinato dalla Turchia nella quale non essere spazzati via come rischia di accadere al resto della rivoluzione siriana collocata al di fuori di questa vera e propria zona di sicurezza creata da Ankara. E’ emblematico in tal senso il caso dell’Egitto del presidente Al Sisi, Paese che inizialmente è stato salvato dal tracollo economico e finanziario grazie ai capitali iniettati dai Paesi del Golfo ma che con il tempo ha via via tentato di scrollarsi di dosso la tutela saudita per cercare di tornare a ricoprire il precedente ruolo guida posseduto dal Paese del Nilo nella regione. Mano a mano che Russi ed Iraniani acquistavano potere mentre i Paesi arabi incominciavano a mostrare i limiti della propria azione internazionale, l’Egitto ha progressivamente abbandonato il campo saudita fino a giungere sostanzialmente alla rottura con Riyad ed iniziare ad abbracciare un alleanza con Mosca e Teheran, presumibilmente offrendo un reale sostegno pratico al regime di Assad. Nonostante l’Egitto sia piombato nuovamente in una crisi economica di grave entità, il Cairo ha preferito saltare sul carro del possibile vincitore forse per illudersi di riacquistare presto un’autonomia che in realtà difficilmente potrà riottenere a fronte di una situazione finanziaria assolutamente catastrofica e di una Cina, tornata recentemente alla ribalta del fronte pro-Assad, che non ha ancora chiarito quanto desideri rivestire il ruolo di finanziatrice a fondo perduto di tutti gli Stati falliti del Medioriente. E’ in tal senso interessante ricordare una delle poche azioni dotate di una qualche lungimiranza politico-diplomatica promosse dalla UE sulla crisi siriana (iniziativa orchestrata per opera della diplomazia francese), la quale, al fine di dissuadere il Cremlino a ricercare una vittoria totale in Siria, ha inteso avvertire Mosca che se Russia ed Iran opteranno per una guerra totale che polverizzi le forze sostenute dall’Occidente e che se parimenti i russo-iraniani non aderiranno ad un piano formulato dalla UE per la pace in Siria, alla fine il conto della ricostruzione di Aleppo e di tutte le altre città ed infrastrutture siriane distrutte dalla guerra graverà integralmente su coloro che hanno voluto calcare la mano contro i ribelli anti-Assad, i quali, oltretutto, continueranno ad agire indefinitamente nel Paese usando mere tecniche di guerriglia. La difficile e sofferta opera di mediazione promossa dalla Turchia tra ribelli siriani, regime di Damasco e russo-iraniani per una resa onorevole di Aleppo, nonché per una evacuazione finale delle forze ribelli e dei civili, si è potuta probabilmente coronare con successo grazie proprio alla spada di Damocle economica posta pesantemente sopra la testa di Mosca dagli alleati dei ribelli siriani.
Dal Obamismo al Trumpismo
Occorre a questo punto rammentare in che modo gli Stati Uniti siano passati dall’essere il faro della democrazia liberale a rappresentare l’ultima vittima del populismo dilagante. Il 10 settembre 2001 gli Stati Uniti, pur non possedendo più da anni una classe dirigente realmente all’altezza del proprio ruolo globale ed un’economia reale propriamente solida (basti pensare alla rapida crisi della “new economy”), erano convinti, non senza ragioni, di essere rimasti l’unica potenza egemone presente sul globo e che niente e nessuno avrebbe potuto scalzare l’America dalla posizione più elevata del podio delle nazioni. L’indomani, a causa delle macchinazioni operate dalla mente perversamente acuta di Osama bin Laden (il quale forse, da novello Gavrilo Princip dei nostri tempi, non aveva neppure ben idea di cosa avrebbero realmente scatenato negli anni a venire gli attentati terroristici da questi organizzati), accadde l’impensabile e l’assai poco brillante presidente G. W. Bush pensò “bene” di dichiarare una guerra mondiale al terrorismo, malamente “condita” con meri interessi economici e politici di parte, invadendo prima l’Afghanistan e poi l’Iraq e trasformando un conflitto mal pianificato fin dall’inizio in una mera dissanguante guerra di logoramento per il controllo del territorio costata trilioni di dollari ed una montagna di debiti. Le due guerre americane per essere finanziate hanno richiesto bassi tassi di interesse pilotati da Washington i quali hanno prodotto la bolla dei mutui “subprime” e la crisi economica del 2008/2009 la quale si è trasmessa come un’onda sismica dagli Usa all’Europa. La rigida ed ottusa politica europea incentrata sull’interesse germanico ha fatto il resto, sconquassando intere economie continentali e rendendo per molti Paesi impossibile avviare una vera e propria ripresa economica. Anni di crisi finanziaria hanno prodotto una generale sfiducia nella classe media verso il sistema politico imperante, aprendo la strada al populismo e alla progressiva implosione di interi partiti travolti dalle conseguenze politiche della crisi dell’economia reale. Contemporaneamente a quanto accadeva in Europa negli Stati Uniti è subito emerso un populista “radical-chic”, l’attuale presidente uscente Barack Obama, il quale si è presentato allo spaventato elettorato americano come il nuovo uomo della Provvidenza. In realtà nel corso del suo ottennato non solo non è riuscito a risolvere in maniera sostanziale i problemi economici in cui versa una larga fetta della popolazione impoverita dalla crisi ma ha allo stesso tempo riaperto antiche ferite sociali che si presumeva ormai rimarginate da tempo, essendo il primo presidente “nero” della storia americana primariamente interessato a promuovere una politica di revanscismo ideologico più che di reale riconciliazione sociale, un revanscismo che applicato alla politica estera ha messo in crisi l’attuale sistema di alleanze, creando un vuoto che è stato prontamente sfruttato e riempito dai nemici storici degli Stati Uniti e dai loro alleati. La crisi geopolitica dell’Occidente e l’incapacità dei governi storicamente alleati agli Usa di avviare i consueti meccanismi politico-diplomatico-militari che garantivano alla propria porzione di influenza nel mondo di sostanziarsi hanno ulteriormente portato discredito su una classe politica occidentale già in difficoltà sul piano economico. Questa ulteriore crisi dei sistemi di governo occidentali è stata resa palese con il dilagare delle primavere arabe, il fallito intervento occidentale in Siria e l’impunita ingerenza russa nel Donbass i quali hanno finito per rappresentare la luce verde per Mosca e Teheran con la quale legittimare un più diretto intervento militare nelle aree mondiali di loro interesse ed una intromissione mediatico-propagandistica senza precedenti organizzata ai danni degli organismi posti a fondamento delle democrazie occidentali, da anni in piena crisi e pertanto già pesantemente erosi nella loro autorevolezza. L’elezione di Donald Trump e l’affermarsi di altri candidati e partiti populistici in Europa ormai direttamente connessi con Mosca rappresentano solo l’ultima fase di un processo di degenerazione politica della classe dirigente occidentale che trae le sue radici da una debolezza socio-culturale di fondo legata in parte ad un uso distorto dei media da parte della politica e dell’economia che data ormai diversi decenni e che al momento opportuno è stata sfruttata da chi voleva ottenere il caos in quello che considerava essere il campo avversario. Da questo punto di vista Trump non rappresenta l’elemento di discontinuità rispetto alla presidenza Obama ma piuttosto ne è la più diretta conseguenza logica originatasi da quelli che sono stati gli esiti della politica estremamente divisiva ed ideologica di Obama stesso. L’isolazionismo internazionale di stampo social-radicale promosso dal presidente uscente Obama costituisce lo specchio del medesimo isolazionismo della destra conservatrice ed illiberale propugnato da Trump, il tutto benedetto dall’interesse moscovita teso a continuare a tenere gli Stati Uniti il più possibile fuori dal agone internazionale.
Che cosa farà Trump?
A fine gennaio Trump si insedierà alla Casa Bianca ed inizierà a dettare le proprie linee programmatiche in politica estera. Ciò che il presidente eletto ha finora detto appare oltremodo contraddittorio. Si è espresso pesantemente contro la Cina, cercando un riavvicinamento formale con Taiwan e proponendo politiche di isolazionismo e protezionismo economico contro le merci cinesi. Ha promesso di denunciare il trattato sul nucleare iraniano e di supportare in maniera sostanziale le istanze israeliane in campo internazionale. Contemporaneamente però intende allacciare rapporti cordiali con Putin e trovare un accordo sulla Siria con il Cremlino ed Assad, abbandonando al proprio destino i ribelli siriani. Recentemente, sulla scia delle emozioni suscitate dalla caduta di Aleppo, Trump ha detto di avere l’intenzione di istituire delle zone di sicurezza in Siria, purché, però, i Paesi arabi paghino per esse (possiamo in tal senso effettuare un parallelo con la prima guerra del Golfo che fu sostanzialmente saldata proprio dai Paesi arabi, un fatto che non deve essere sfuggito neppure a Trump stesso). Tale proposta potrebbe altresì fare parte di un accordo con la Russia per procedere ad una partizione della Siria, fatto che troverebbe l’opposizione degli alleati europei e mediorientali dei ribelli siriani. Nel Regno Unito Trump sta cercando in tutti i modi di mettere in difficoltà il governo conservatore che durante la campagna elettorale, in particolare al tempo in cui Cameron era primo ministro, gli è stato pesantemente ostile, utilizzando a tale scopo la figura di Nigel Farage quale proprio cavallo di Troia nella politica britannica. Recentemente sia Trump che Putin hanno dichiarato di voler incrementare i propri arsenali nucleari ma nel contempo Putin manda lettere di congratulazioni a Trump da questi assai apprezzate. In questo caos appare evidente che c’è una chiara contraddizione in termini in ciò che Trump intende fare in quanto denunciare l’accordo iraniano significa entrare in rotta di collisione con la Russia di Putin (nonché con gli interessi economici europei) che è attualmente il principale alleato di Teheran sul piano internazionale. La stessa ostilità di Trump nei confronti della Cina non si concilia con il desiderio di Trump di addivenire a nuove intese con Mosca la quale a sua volta cerca di coordinarsi con Pechino nella maggior parte degli scenari mondiali. In tal senso si ha più che altro l’impressione che Trump non sappia esattamente cosa voglia fare ed ogni tanto ne “spari una delle sue” per compiacere il proprio elettorato. E’ interessante il fatto che la CIA abbia fatto trapelare il sospetto che l’elezione di Trump possa essere stata pilotata dal Cremlino, un’accusa inedita ed assai grave sullo scenario politico americano. La stessa Hillary Clinton aveva già accusato l’FBI di aver spalleggiato Trump ai suoi danni, portando ulteriore discredito sulla sua elezione. E’ possibile che Trump possa pertanto essere indotto a mitigare le proprie propensioni filorusse a fronte di una assai poco velata minaccia, espressa da parte di certi apparati “a stelle e a strisce”, di rendere la vita del presidente eletto assai ardua nel caso questi promuovesse politiche del tutto estranee alla tradizionale politica americana. Da questo punto di vista probabilmente la presidenza Trump, così come accaduto nel corso di buona parte dell’amministrazione Obama, sarà nella migliore delle ipotesi connotata, almeno in una prima fase, da un governo fortemente polarizzato tra Casa Bianca e rappresentanti dell’establishment governativo a questa opposti. Si tratterà in tal senso di capire chi potrebbe eventualmente prevalere nel tempo in questa lotta fra poteri forti e quali esiti questo confronto potrebbe generare sullo scacchiere internazionale. Allo stesso tempo l’abilità dell’Europa di districarsi fra il populismo dilagante, le tendenze protezionistiche e le intromissioni moscovite sarà fondamentale se si vorrà riprendere in mano le redini delle sorti della democrazia occidentale e delle nostre libertà civiche ed evitare che la caduta di Aleppo si trasformi per le nazioni occidentali nella Manzikert del nostro tempo, spostando il confronto in essere dalle piane siriane a quelle politico, elettorali e militari dell’Europa continentale.
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