La Cina, governata con pugno di ferro dal Partito comunista, è già oggi la seconda economia mondiale e possiede un esercito che è superato soltanto da quello degli USA. Xi Jinping, un vero e proprio imperatore, non fa più mistero delle aspirazioni cinesi a creare un nuovo ordine mondiale in cui Pechino sostituisca Washington, con il sostegno, o la benevola neutralità, del Sud del mondo. La vera forza della Cina, potenza globale di tradizione millenaria, è la debolezza, l’indecisione e l’avidità dei propri avversari. Moriremo cinesi? Un saggio approfondito e molto ben documentato fornisce gli strumenti di comprensione per quello che sarà il principale tema strategico dei prossimi decenni.
Maurizio Scarpari, autorevole sinologo, ha insegnato Lingua cinese classica all’Università Ca’ Foscari di Venezia e si dedica da molti anni allo studio della lingua, della storia e del pensiero filosofico della Cina antica e alla loro incidenza sulla politica attuale. Alle sue competenze di studioso unisce uno sguardo disincantato sul mondo, una profonda onestà intellettuale e il coraggio di riconoscere i propri errori. Il titolo del suo ultimo saggio riassume perfettamente le implicazioni strategiche della posizione cinese che, in meno di quarant’anni, è tornata a occupare sullo scenario globale la posizione che ha detenuto per secoli, mentre l’Occidente fingeva di non vedere anzi, forniva un aiuto determinante per l’affermazione di una superpotenza che intende rimpiazzare il modello rappresentato dalle democrazie liberali.
L’impero colpisce ancora
Oggi non è più possibile fingere di non vedere la natura egemonica del progetto di espansione cinese perché, ignorando le raccomandazioni di Deng Xiaoping, l’iniziatore del miracolo economico cinese, Xi Jinping non fa mistero di quale sia il suo disegno strategico: sostituire la concezione vestfaliana dell’ordine internazionale con un nuovo assetto globale che trae ispirazione dall’antica tradizione politica cinese, quando l’impero era il centro del mondo. Mostrando una gravissima miopia politica e una sostanziale incapacità di elaborare modelli adeguati per il futuro, dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso gli USA si sono adoperati per favorire lo sviluppo dell’economia cinese. Prima in funzione antisovietica e, successivamente, per sfruttare le enormi potenzialità dell’immenso mercato del Dragone. Numerosi studiosi, diplomatici, intellettuali e accademici accolsero con grande favore la svolta riformista e di apertura della Cina e sostennero con decisione la “crescita pacifica” cinese, prevedendo i numerosi vantaggi che ne sarebbero derivati.
Nell’arco di pochi anni un enorme flusso di investimenti è arrivato in Cina, insieme alle tecnologie più avanzate e, quasi senza rendersene conto, gli Stati Uniti e numerosi Paesi europei ed extraeuropei hanno ceduto il controllo di alcuni settori strategici, delegando, con un eccesso di fiducia nel sistema globalizzato, troppi ambiti rivelatisi fondamentali. Ovviamente, Pechino ha assecondato di buon grado questo atteggiamento e ha applicato le antiche massime contenute in un trattato di strategia militare di epoca Ming come «attacca il tuo nemico usando la forza di un altro» e «se vuoi fare qualcosa, fa’ in modo che il tuo avversario lo faccia per te». Ed è esattamente quello che è avvenuto. «Gli operatori economici –scrive Scarpari– si sono seduti ai tavoli delle trattative per gestire i propri interessi più immediati, come se il ritorno della Cina sulla scena politica fosse semplicemente ammettere un commensale in più a un banchetto che offriva posti e abbondanza per tutti. Si è trattato di un errore di sottovalutazione enorme, di un abbaglio che l’Occidente si troverà a scontare a lungo».
Nel trattare con la Cina gli occidentali, accecati dai vantaggi a breve termine, hanno dimenticato che stavano trattando con un impero, nato nel 221 a.C., che riteneva di avere una superiorità culturale e morale verso i “barbari” (gli occidentali). Nel Sunzi bingfa, la più importante opera dell’antichità cinese dedicata all’arte della guerra (IV secolo a.C.) si afferma che la dissimulazione (gui) è la pratica essenziale del modus operandi di un abile stratega-comandante:
La guerra è arte della dissimulazione. Pertanto, cela la tua abilità mostrandoti inetto; sii pronto, ma mostrati impreparato e se sei vicino, dà l’impressione di stare lontano e viceversa. Se i tuoi nemici sono avidi di profitto, tentali; quando il disordine prevale tra i loro ranghi, soggiogali; se mostrano compattezza, predisponiti ad affrontarli; se sono troppo forti, evitali. Se sono iracondi, stuzzicali; se sono umili, alimentane la presunzione; quando le loro truppe sono riposate, sfiniscile; adoperati per sciogliere alleanze a te contrarie, attacca quando i tuoi nemici non sono pronti ed esci allo scoperto cogliendoli di sorpresa. Questi principi non vanno rivelati, poiché è da essi che dipende il successo dello stratega.
L’attualità di questo passo è sconcertante, sia che lo si legga in chiave strategico-militare sia che lo si intenda in termini di scelte politiche. Una superpotenza economica, politica e militare come la Cina si presenta al Sud del mondo come un Paese in via di sviluppo, vittima delle aggressive campagne di sfruttamento degli odiati colonialisti occidentali. Pechino afferma che la sua strategia è mutuamente vantaggiosa per i Paesi che accettano gli investimenti cinesi. La linea ufficiale è che la Cina è amante della pace e non si sognerebbe mai di usare mezzi militari per portare avanti i propri interessi. Parlando al Simposio internazionale su «Confucianesimo: pace e sviluppo del mondo», tenutosi a Pechino nel settembre del 2014, Xi Jinping disse: «Le idee pacifiste sono connaturate nel mondo spirituale della nazione cinese, e costituiscono ancor oggi la filosofia di base nel gestire le relazioni internazionali. […] La pace è importante per l’umanità quanto la luce del sole e l’aria».
Le contraddizioni
Questa armonica visione confuciana non ha però impedito a Xi Jinping, tenace difensore del rispetto dei confini nazionali, di dare il suo appoggio a Vladimir Putin dopo l’invasione dell’Ucraina (da notare che, al pari di Mosca, Pechino non ha mai usato la parola “guerra”), né gli ha fatto accogliere le richieste di quei Paesi come lo Zambia o Sri-Lanka per rinegoziare un debito che stava strangolando le loro economie. Smettendo l’abito gioviale dello zio buono, Xi Jinping ha sostenuto il principio della «difesa e tutela dei legittimi interessi nazionali (cinesi)» che tende a contraddire la tanto sbandierata politica di «cooperazione orientata a ottenere risultati equamente vantaggiosi per tutti», la cosiddetta win-win cooperation in ogni ambito delle relazioni estere. Viene così esplicitamente ammesso che la cooperazione deve essere intesa come subordinata agli interessi nazionali e, in effetti, è sempre stato così nella pratica: «l’equo vantaggio» si è rivelato costantemente sbilanciato a favore della Cina.
Un altro esempio della discrepanza tra le dichiarazioni ufficiali di pace, rispetto e coesistenza è fornito dal rapporto stilato da Michelle Bachelet, Alta commissaria per i diritti umani dell’ONU, dopo una visita nella regione cinese del Xinjiang, abitata da una popolazione musulmana, nel maggio del 2022. Il rapporto non lascia dubbi circa le «gravi violazioni dei diritti umani» riscontrate, tali da poter essere considerate veri e propri «crimini contro l’umanità»: vengono ritenute credibili le numerosissime testimonianze, dirette e indirette, e le prove sulla detenzione arbitraria e discriminatoria di massa nei cosiddetti «campi vocazionali ed educazionali», sulla repressione sistematica dei diritti e delle libertà della popolazione uigura e di altri gruppi etnici a maggioranza musulmana, sulle pratiche di tortura e persecuzione, sui trattamenti medici forzati, sui provvedimenti volti alla riduzione della natalità, sul lavoro coatto, e altro ancora.
Di fronte al rischio che l’ONU si pronunciasse su questi «crimini contro l’umanità», Pechino si è mobilitato e, grazie a un massiccio lavoro di lobby, è riuscita a bloccare la richiesta di discussione del rapporto in sede di Consiglio ONU dei diritti umani avanzata da alcuni paesi, con 19 voti contrari, 11 astensioni e solo 17 voti a favore, impedendo così sul nascere il confronto diretto tra i 47 membri del Consiglio. È avvenuta una clamorosa delegittimazione della Commissione dell’ONU e si è avuta una dimostrazione pratica di come funziona la doppia veste – prima potenza con diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’ONU e al tempo stesso leader dei paesi del Sud globale – che la Cina indossa a convenienza per perseguire i propri interessi.
Un altro esempio della doppiezza cinese è rappresentato dalla restituzione della colonia britannica di Hong Kong che, in base al principio «un Paese, due sistemi», avrebbe dovuto continuare a mantenere un ordinamento politico diverso dalla Cina continentale, che conferiva al «porto profumato» un elevato grado di autonomia, tranne che nelle relazioni con i paesi stranieri e nel settore della difesa, ammettendo un sistema elettorale complesso. Contravvenendo all’impegno preso con il Regno Unito, la Cina ha represso ogni richiesta politica degli abitanti dell’isola per il rispetto degli accordi. Sono stati arrestati centinaia di oppositori e le uniche liste ammesse al voto sono state quelle di “patrioti” che avevano superato l’attento scrutinio di Pechino, uccidendo così un modello democratico che rischiava di influenzare la Cina continentale. La «democrazia con volto cinese» si è rivelata per quello che è: brutale pugno di ferro contro ogni forma di dissenso.
Invisibilità e manipolazione
Certo, può apparire un controsenso che un Paese enorme e attivissimo a livello internazionale riesca a passare inosservato. Eppure, è proprio quello che succede. Sotto l’occhiuto controllo del Partito comunista cinese, il Dipartimento centrale di propaganda e una miriade di agenzie e strutture in vari ambiti hanno stretto in una morsa invisibile e tentacolare il «mondo che conta» tramite un «sistema integrato di associazioni imprenditoriali, politiche, culturali o di amicizia, di cui fa parte anche la rete degli Istituti Confucio, gli oltre 500 istituti culturali cinesi sparsi nel mondo, al centro di vivaci controversie e polemiche per la loro presenza all’interno delle università e dei centri di ricerca». Secondo due studiosi citati nel saggio, è proprio l’invisibilità la caratteristica distintiva del potere di infiltrazione cinese.
La strategia cinese riesce anche a penetrare ambiti che difficilmente immagineremmo. Nell’edizione domenicale del Sole 24 ore del 28 marzo 2023, è comparso l’ennesimo inserto propagandistico di quattro pagine, che raccoglie una serie di articoli scritti da giornalisti dell’Economist China Daily, testata statale cinese, miranti ad attrarre investimenti fornendo una visione semplicistica, edulcorata e parziale del mondo imprenditoriale cinese e delle opportunità offerte dal progetto della “Nuova Via della seta”. L’inserto non era passato attraverso la revisione del Comitato di redazione, che ha protestato vivacemente. Nel 2019 l’agenzia ufficiale Xinhua era riuscita addirittura a stringere controversi accordi con Ansa, Adnkronos, l’Agenzia giornalistica italiana (Agi), Il Sole 24 Ore (con China Economic Daily), il Giornale, Class Editori, Mediaset, Rai. Queste ultime si relazionano con China Media Group (Cmg), controllato dal Dipartimento per la comunicazione politica del Comitato centrale del Partito comunista cinese e subordinato al Consiglio di stato.
Sono ritenuti fonte di preoccupazione anche gli attacchi informatici, finalizzati al furto o all’alterazione di banche dati o a ingerenze su elezioni e referendum all’interno dell’Unione Europea, il condizionamento dei sistemi politici degli stati membri della UE attraverso finanziamenti diretti o indiretti a partiti e organizzazioni varie, ma anche a leader politici, spesso cooptati da enti, aziende e università. È di inizio maggio 2023 la notizia della sospensione da parte di Meta, la società che controlla Facebook e Instagram e altre piattaforme di messaggistica, di oltre un centinaio di account fittizi riconducibili al centro studi cinese New Europe Observation, creato con lo specifico intento di promuovere la disinformazione tra il pubblico occidentale.
L’avanzata cinese non ha però nulla di ineluttabile, a causa dell’emergere di seri problemi come l’enorme indebitamento, la bolla speculativa nel settore immobiliare, la crisi demografica, le tensioni crescenti con i vicini a causa delle rivendicazioni territoriali di Pechino e la definizione di una politica più incisiva sia negli Stati Uniti sia in Europa. Il saggio si conclude con considerazioni ampiamente sottoscrivibili: «La concezione vestfaliana dell’ordine internazionale è oggi messa in seria discussione, in nome di un nuovo assetto globale che vorrebbe trarre ispirazione dall’antica tradizione politica cinese, quando l’impero era al centro del mondo, esprimendo così un desiderio di ritorno al passato, ai tempi in cui la Cina vedeva sé stessa e veniva vista dagli altri popoli come un faro di civiltà. Il realizzarsi di tali ambizioni richiede tuttavia qualcosa che la Cina di oggi non è in grado di esprimere: quella forza di attrazione e seduzione che può avere solo una solida cultura formatasi nel corso dei secoli sul rispetto della creatività e della libertà di pensiero e di espressione, in grado di forgiare quella “mentalità da grande potenza” di cui la Cina difetta».
Maurizio Scarpari
La Cina al centro
Ideologia imperiale e disordine mondiale
il Mulino, pp. 304, 20 euro
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