di Axel Famiglini
Guerra diplomatica tra Arabia Saudita ed Iran
Gli eventi che hanno dominato la cronaca internazionale degli ultimi mesi hanno approfondito la frattura in essere tra, da un lato, l’ “Entente” sancita tra i Paesi del Golfo e l’asse Londra-Parigi e, dall’altro, gli Stati Uniti, rendendo maggiormente evidenti alcune determinate intese geostrategiche stipulate, rigorosamente fuori dalle luce dei riflettori, tra la Russia di Putin e la Casa Bianca di Obama. L’anno indubbiamente non è iniziato nel migliore dei modi, giacché l’Arabia Saudita ha pensato “bene” di “celebrare” il 2016 promuovendo il 2 gennaio scorso l’esecuzione di 47 condannati, accusati a vario titolo di terrorismo, fra i quali l’importante leader sciita Nimr al-Nimr, causando la violenta reazione di Teheran e dei suoi alleati mediorientali tra i quali Hezbollah. Secondo alcuni osservatori, l’urgenza di eliminare di Nimr al-Nimr sarebbe stata determinata dalla volontà di vendicare la morte di Zahran Alloush, comandante ribelle del gruppo siriano Jaysh al-Islam sostenuto dall’Arabia Saudita, il quale è rimasto ucciso nei giorni precedenti per opera di un attacco aereo condotto o dalla Russia o dal regime di Damasco. Nella capitale iraniana le frange più estreme del regime degli Ayatollah, dopo aver minacciato ritorsioni contro personalità ed interessi sauditi in Europa, hanno preso d’assalto l’ambasciata dell’Arabia Saudita, provocando la conseguente contromossa di Riyad volta ad interrompere sia le comunicazioni aeree che le relazioni diplomatiche, oltreché commerciali, con l’Iran e a compiere altresì pressioni affinché gli alleati del Golfo seguissero la medesima linea del “muro contro muro” nei confronti del paese sciita. Essendo le interferenze iraniane in seno alla politica interna di numerosi paesi sunniti una spiacevole realtà che si concretizza, in particolare a seguito delle cosiddette “primavere arabe” e dei successivi “cataclismi politici” da queste ingenerati, attraverso l’invio di armi e l’organizzazione di gruppi terroristici presso le fazioni sciite più intransigenti residenti nella penisola arabica, stati quali Bahrain ed Emirati Arabi Uniti hanno seguito l’esempio saudita e hanno a vario grado limitato (il Bahrain si è dimostrato comprensibilmente più irremovibile nella sua reazione mentre gli Emirati hanno evitato di “sbattere in faccia” la porta agli Iraniani) le proprie relazioni diplomatiche con Teheran. Il Kuwait, pur condannando le azioni iraniane, ha assunto un atteggiamento più cauto mentre il Qatar è giunto buon ultimo ad esprimere la propria adesione alla linea saudita essendo ben noto quanto il Qatar, pur impegnato a disinnescare i piani iraniani in Siria, abbia collaborato e collabori con il regime degli Ayatollah in altre regioni quali, ad esempio, la Palestina e si trovi tutt’ora in diretta opposizione all’Arabia Saudita in realtà come quella libica. Altri due paesi che hanno rotto le relazioni diplomatiche con l’Iran sono stati Gibuti e, più sorprendentemente, il Sudan. In un tale scenario appare interessante accennare al mutamento della collocazione geostrategica del Sudan, un tempo alleato di ferro dell’Iran ed ora impegnato assieme ai Sauditi in Yemen. Il Sudan è stato per anni soggetto a sanzioni internazionali e la lunga guerra civile che ha per lungo tempo colpito il Paese ha progressivamente prosciugato le risorse economiche nazionali. Il colpo di grazia finale è giunto con l’indipendenza del Sud Sudan nel 2011 e la contestuale perdita di una fetta importantissima delle proprie risorse petrolifere. Il drastico calo del prezzo del petrolio ha fatto il resto e ha costretto il governo di Khartoum a richiedere l’assistenza finanziaria delle ricche monarchie del Golfo le quali non si sono fatte certamente sfuggire di mano l’opportunità di strappare dalle “grinfie” iraniane un importante alleato di Teheran e contestualmente farsi ripagare “in natura” – ovvero sotto forma di assistenza militare – tanta generosità finanziaria offerta. I rapporti tra Iran, Sudan e mondo arabo hanno indubbiamente conosciuto un’evoluzione con numerosi elementi contraddittori al loro interno (contraddizioni spesso correlate ad un altro elemento contraddittorio dello scacchiere internazionale ovvero il Qatar), ciononostante allo stato attuale l’Iran non sarebbe in grado di soppiantare il Paesi del Golfo nel livello di sostegno finanziario di cui il Sudan ha disperatamente bisogno, per quanto il Sudan stesso avesse chiesto in primo luogo supporto finanziario all’Iran senza tuttavia ricevere in cambio nulla di sostanziale, essendo stato quest’ultimo Paese parimenti soggetto per lungo tempo a sanzioni economiche ed isolamento internazionale. Allo stesso modo le oscillazioni della politica estera sudanese potrebbero sottintendere un altro elemento di importanza geostrategica, ovvero il fatto che la Cina, fondamentale alleato di Khartoum, non disdegni anch’essa di provare l’ebbrezza di giocare su più tavoli le carte della diplomazia, a seconda della piega presa dagli eventi che si consumano sulla scacchiera della politica internazionale.
Il tavolo siriano delle trattative e i bombardamenti russi
Mentre Arabia Saudita ed Iran si accusavano reciprocamente di minare la stabilità del Medioriente, la diplomazia internazionale ha intensificato i suoi sforzi con il fine di portare il regime di Assad e l’opposizione siriana moderata al tavolo delle trattative. Una delle prime richieste dei ribelli siriani inoltrate a Damasco con lo scopo di creare le condizioni per intavolare una soluzione negoziata al conflitto si è immediatamente indirizzata verso la conclusione degli assedi che il governo del regime siriano sta promuovendo con lo scopo di prendere per fame le città e i sobborghi in mano agli oppositori di Assad. L’allora ministro degli esteri francese Fabius ha prontamente fatto eco a Riyad Hijab, portavoce del fronte ribelle, chiedendo che località come Madaya cessino di essere stritolate dalla morsa degli assedianti filo-regime e che i bombardamenti russi e siriani contro i civili fossero immediatamente interrotti. Lo stesso Hollande ha rimarcato che Assad non deve avere alcun futuro nella Siria del domani. Da parte sua la Russia ha continuato a rilasciare informazioni artatamente ambivalenti, aprendo in una prima fase alla possibilità che Assad si rechi in esilio nella Federazione russa dopo un periodo di transizione politica ma rimarcando contestualmente il fatto che ciò possa accadere solo dopo che il popolo siriano si sia espresso in tal senso tramite un fumoso processo elettorale, nonostante Putin stesso avesse ammesso che Assad si fosse reso responsabile di gravi errori nel corso del conflitto. Al contrario il ministro degli esteri Lavrov ha negato che la Russia abbia mai ricevuto una richiesta di asilo e tanto meno offerto ricovero al presidente siriano. Da parte sua il premier britannico Cameron, pur concedendo che i ribelli siriani moderati, contrariamente a quanto affermato in precedenza, non siano ancora in numero sufficiente a sconfiggere l’ISIS, ha rimarcato la sua posizione di assoluta contrarietà ad un sostegno del presidente siriano Assad, aggiungendo che debba essere trovata una terza via tra la lugubre proposta statuale promossa dall’ISIS ed il governo del presidente Assad, definito da Cameron stesso con il termine di “macellaio”. Secondo Cameron ritenere che Assad costituisca l’unica opzione in Siria sarebbe solamente una prova di disperazione nonché di rassegnazione. Lo stesso ministro degli esteri britannico Hammond ha rincarato la dose, sostenendo che la Russia dovrebbe essere chiamata a rispondere di violazione delle leggi internazionali sui diritti umani a causa di deliberati bombardamenti su scuole ed ospedali in Siria. In particolare questi ha accusato la Russia di colpire ed uccidere in maniera pianificata i soccorritori operanti sul terreno, i quali accorrerebbero verso i luoghi colpiti dall’aviazione russa per tentare di salvare le vittime della prima ondata dei raid aerei e poi verrebbero colpiti a loro volta da una seconda pioggia di bombe, scientemente lanciata sui medesimi luoghi, in precedenza oggetto di bombardamento, proprio con lo scopo di “finire” i feriti ed indebolire la stessa macchina dei soccorsi (in tal senso occorre rammentare che la Gran Bretagna ha speso centinaia di milioni di sterline in aiuti umanitari in Siria). Hammond ha aggiunto che avrebbe sollevato la questione con il suo omologo russo Lavrov anche se ha ammesso che da parte russa probabilmente non avrebbe ottenuto nulla, nonostante l’atteggiamento moscovita rischiasse di far deragliare il processo di pace in corso. Il ministro Hammond, ribadendo quanto richiesto dall’opposizione siriana, ha insistito sulla necessità di un cessate il fuoco e di misure pratiche che contribuiscano alla costruzione di una fiducia reciproca fra le parti come la fine dei bombardamenti russi sui civili, la fine dell’utilizzo dei cosiddetti “barili bomba”, la fine degli assedi, la distribuzione di aiuti umanitari, il rilascio dei prigionieri politici e, ultimo ma non meno importante, le dimissioni finali di Assad dopo un eventuale periodo di transizione della durata massima di alcuni mesi. La diatriba politico-diplomatica sulla crisi siriana e sulle trattative in corso in merito all’apertura di nuovi colloqui di pace ovviamente non ha coinvolto solo Francia e Regno Unito da un lato e la Russia dall’altro, ma ha parimenti messo a confronto l’opposizione siriana (supportata in tale frangente in particolare dalla Turchia) e Mosca. L’ulteriore ragione del contendere che si è presentata si è incentrata sulla presenza o meno al tavolo delle trattative, al fianco delle organizzazioni rappresentative della resistenza siriana, dell’ PYD, braccio politico dei Curdi siriani, i quali vengono accusati sia dai ribelli anti-Assad e che da Ankara di essere in “combutta” con il regime di Damasco. La Russia, oltreché supportare la presenza della fantomatica opposizione “tollerata” dal regime damasceno, ha spalleggiato fin da subito l’organizzazione PYD nella sua richiesta di partecipare al tavolo delle trattative, tuttavia l’opposizione dei ribelli siriani, appoggiati dai loro alleati mediorientali, ha, allo stadio attuale, posto un freno alle istanze curde di partecipazione ai colloqui diplomatici assieme all’opposizione moderata. In particolare l’Arabia Saudita ha espresso il suo disappunto nei confronti di una strategia russa tesa a porre in una fase di stallo le trattative sulla Siria per fare in modo che il regime di Assad, rinfrancato da recenti successi militari, possa giungere al tavolo della diplomazia in una posizione di maggior forza. In tal senso occorre sottolineare che se inizialmente l’intervento russo sembrasse non aver sortito particolari benefici per il governo di Damasco ma che anzi le critiche internazionali piovute su Mosca avessero iniziato a riorientare i raid russi maggiormente verso le postazioni dell’ISIS e in misura minore su quelle dell’opposizione moderata supportata da Occidente, Paesi del Golfo e Turchia, in realtà da dicembre 2015 gli attacchi russi contro i ribelli anti-Assad hanno conosciuto una crescente intensificazione fino a produrre con l’anno nuovo i primi importanti avanzamenti di fronte a favore di Damasco ed alleati. Mano a mano che la “trattativa sulla trattativa” in merito ai colloqui di pace di Ginevra proseguiva nel corso delle prime settimane del 2016, la situazione sul terreno per i ribelli siriani è progressivamente divenuta sempre più critica fino a giungere a minacciare la caduta della porzione della città di Aleppo in mano da anni ai ribelli anti-governativi. La nomina quale capo negoziatore dell’opposizione siriana di Mohammed Alloush, cugino del defunto Zahran Alloush e figura di spicco di Jaysh al-Islam, fazione islamista sostenuta dall’Arabia Saudita e considerata da Damasco e Mosca quale gruppo terroristico, ha indubbiamente contribuito ad esacerbare ulteriormente gli animi. Mentre la preparazione dei colloqui di pace di Ginevra muoveva i suoi primi incerti passi è contemporaneamente riesploso il caso dell’omicidio di Alexander Litvinenko, dalla cui inchiesta pubblica promossa in Gran Bretagna sarebbero emerse le più che probabili responsabilità per il suo assassinio sia di Putin che dei servizi segreti russi, gettando così un’ampia ombra di discredito sul Cremlino e sul suo operato internazionale nonché accrescendo ulteriormente le distanze tra Londra e Mosca. La risposta russa non si è fatta attendere ed ha voluto sostanzialmente rimarcare il fatto che il Regno Unito stesse cercando di manipolare il caso dell’omicidio di Litvinenko solo per mettere ulteriormente sotto pressione Mosca a livello geopolitico. Al persistente pressing diplomatico franco-britannico finalizzato a supportare l’opposizione moderata siriana organizzata in delegazione dall’Arabia Saudita, si sono accompagnate le forti note di contrarietà espresse dall’ “Alto Comitato per i Negoziati” (HNC) dei ribelli siriani per la mancata applicazione delle risoluzioni ONU che avrebbero dovuto costituire la base per il successo di ogni possibile trattativa tra regime ed opposizione siriana. Gli Stati Uniti, dal canto loro, chiamati a fungere nel ruolo di mediatori, pur, “a parole”, s
tando nel campo dei ribelli moderati siriani, hanno condotto una politica a dir poco ambivalente e sempre più orientata a individuare un accomodamento con la Russia. Da un lato hanno cercato di incoraggiare l’opposizione siriana ed i suoi sostenitori mediorientali a partecipare ai colloqui di pace nonostante le precondizioni che erano state poste dai ribelli per l’avvio di una transizione politica nel Paese non fossero state messe in atto, dall’altro hanno minacciato di togliere ogni tipo di sostegno ai ribelli moderati stessi, centellinando nel frattempo il supporto militare offerto sotto forma di forniture belliche (pagato dai Paesi arabi), se questi avessero disertato i colloqui di Ginevra. L’opposizione moderata a sua volta ha accusato gli Stati Uniti di aver fondamentalmente rinunciato a supportare le loro istanze politiche e addirittura di prepararsi a tollerare una permanenza di Assad al potere in pieno accordo con la Russia di Putin, la quale è scesa nel campo di battaglia proprio per tenere in vita il regime ed i propri interessi politico-militari nel Paese. Nel campo occidentale sono nuovamente intervenute la Gran Bretagna e la Francia al fine di convincere l’opposizione siriana a partecipare ai colloqui di pace di Ginevra per evitare di fornire un alibi politico ad Assad ed ai suoi sostenitori internazionali. La notizia dei contrasti in corso tra gli Stati Uniti ed i ribelli siriani (nonché i loro alleati) ha indubbiamente messo in imbarazzo Washington la quale è corsa ai ripari pubblicamente cercando di rassicurare gli alleati sulla “fedeltà” degli Usa rispetto le istanze geopolitiche dei propri partner internazionali. I ribelli siriani, dal canto loro, dovendo salvare la loro credibilità e nel contempo non potendosi permettere di disertare il tavolo delle trattative, hanno infine accettato di partecipare ai colloqui dopo aver ricevuto assicurazioni da John Kerry, segretario di Stato Usa, che la risoluzione ONU 2254 sarebbe stata implementata integralmente. Pertanto, nonostante tutte le difficoltà incontrate e le minacce continue di diserzione e boicottaggio dei colloqui di pace espressi dalle due parti in conflitto, gli Stati Uniti e la Russia hanno preteso l’inizio di questo nuovo round negoziale durante il quale le bombe russe sono piovute sulle teste dei ribelli siriani come grandine, tant’è che solo dopo tre giorni di incontri negoziali Staffan de Mistura, inviato dell’ONU per la Siria, ha dovuto sospendere i colloqui per l’evidente impossibilità di imbastire un processo diplomatico mentre l’opposizione siriana moderata veniva bersagliata senza sosta sul campo di battaglia dalla controparte negoziale. In buona sostanza la Russia, la quale considera i prerequisiti dell’opposizione siriana ai colloqui di pace come “capricciosi”, ha semplicemente incrementato i propri attacchi aerei in maniera abnorme sui ribelli siriani proprio con l’approssimarsi della conferenza di Ginevra al fine di accrescere il potere contrattuale di Assad durante i colloqui, utilizzando la medesima tattica impiegata per ben due volte dalle milizie filorusse in Ucraina per estorcere a Kiev condizioni più favorevoli. Mosca fondamentalmente ha sponsorizzato la soluzione diplomatica ed ha utilizzato la “spada di Damocle” militare per mettere l’opposizione siriana contro un muro, in progressiva difficoltà mano a mano che i martellanti bombardamenti moscoviti conducevano i ribelli siriani sempre più vicini alla rotta generale e alla capitolazione definitiva. Da parte loro gli Stati Uniti, desiderosi di una pace a tutti i costi e di prendere tempo nell’attesa dell’ormai prossima conclusione della presidenza Obama, hanno, passo dopo passo, accettato di rinunciare a gran parte delle istanze promosse dall’opposizione siriana moderata pur di raggiungere un accomodamento con Mosca. Tale situazione ha suscitato le ire degli alleati degli Stati Uniti ed ha prodotto una situazione di grave dissidio interno nel campo occidentale che probabilmente mai si era vista dai tempi della crisi di Suez.
Usa Vs Alleati
Dal momento che gli Stati Uniti sembravano accettare che la Russia, supportata dall’Iran con truppe sul terreno, rovesciasse le sorti dell’opposizione siriana e che Mosca, Washington e Teheran si accingessero ad accordarsi sul futuro della Siria, il primo a tentare la carta della “voce grossa” è stata l’Arabia Saudita, la quale, adducendo quale scusante la lotta all’ISIS (la “madre di tutti i pretesti” nell’attuale scenario mediorientale), ha dichiarato l’intenzione di mandare uomini e mezzi in Siria. Ai Sauditi si sono aggiunti successivamente gli Emirati Arabi ed il Bahrain. Nel frattempo la Turchia, a fronte del tentativo dei Curdi siriani di sfruttare lo sbandamento dei ribelli siriani a proprio vantaggio, ha minacciato a sua volta un intervento in Siria con lo scopo di bloccare qualsiasi tentativo indipendentista curdo e salvare l’opposizione siriana da sconfitta certa. Allo stesso tempo i tentativi russi di stringere un’alleanza con i Curdi (fatto che ha allarmato non poco Londra) hanno conosciuto una brusca accelerazione che si è manifestata tramite l’istituzione di un ufficio di rappresentanza curdo a Mosca per aprire un canale di dialogo privilegiato con il Cremlino. Questo ulteriore elemento di destabilizzazione ha causato ulteriori preoccupazioni ad Ankara, in particolare a fronte della denuncia turca di movimenti di truppe russe verso il confine turco-siriano. L’evoluzione dei rapporti curdi con la Russia certamente ha suggerito ulteriori riflessioni rispetto alle relazioni tra Stati Uniti e Curdi e tra Russia e Stati Uniti nel senso che se sia la Russia che gli Stati Uniti collaborano con i Curdi siriani e i Curdi siriani, supportati dagli stessi gruppi armati arabi recentemente sostenuti dagli Usa in funzione anti-ISIS (è da rilevarsi che non a caso Mosca abbia recentemente dichiarato di collaborare con non specificati ribelli siriani, causando non poca sorpresa iniziale presso i commentatori internazionali), hanno colto la palla al balzo per attaccare i ribelli siriani sostenuti dall’Occidente e messi alle strette dai bombardamenti moscoviti, la lezione che allora se ne potrebbe trarre è che in realtà sia i Russi che gli Americani si siano messi d’accordo per chiudere la questione siriana eliminando le forze di opposizione anti-Assad, conservando l’integrità del regime e permettendo ai Curdi siriani, i quali hanno già formalizzato una parziale “dichiarazione di indipendenza”, di ricavarsi una propria realtà parastatale che trasformi, come suggerito dal Cremlino, la Siria in una realtà federale, non lungi da quanto Mosca avrebbe proposto a riguardo del caso ucraino in tema di “federalizzazione”. Una nuova presa di posizione senza precedenti è giunta dal governo francese da parte dell’uscente ministro degli esteri Fabius, vittima di un rimpasto interno all’esecutivo, il quale, ancora in carica, ha dichiarato che la politica americana in Siria è ambigua e che le parole di monito di John Kerry nei confronti degli alleati di Assad non corrispondono nei fatti con le reali intenzioni di Obama. Fabius ha aggiunto che la politica americana nei confronti della Siria è parte del problema e che ciò che gli Americani dicono e quello che effettivamente fanno è assai differente. Il Regno Unito, da parte sua, posta a coordinamento della conferenza internazionale dei donatori per la Siria, aveva già dichiarato in precedenza che la Russia ambiva a creare un mini-stato alawita per Assad e che Mosca, pur millantando di bombardare in primo luogo lo Stato Islamico, in realtà stava soprattutto colpendo i suoi nemici al fine di rinforzare Assad e di mettere ulteriormente in crisi l’opposizione siriana posta sotto pressione dall’ISIS proprio laddove la Russia martellava i ribelli anti-regime. Queste ultime affermazioni hanno causato una risposta piccata da parte di Mosca che ha accusato il ministro degli esteri britannico Hammond di produrre “pericolosa disinformazione”, ovviamente dimenticando che Mosca ha sempre negato l’evidenza anche quando compiva plateali bombardamenti indiscriminati sui civili. Come se ciò non bastasse il governo britannico ha reiterato la propria posizione sia in patria che in sede ONU (assieme alla Francia) richiedente un immediato cessate il fuoco, l’apertura di corridoi umanitari e l’avvio di un processo che determini l’allontanamento dal potere di Assad. Parimenti Londra non ha nascosto il fatto che, dal proprio punto di vista, gli Stati Uniti ormai sembrassero molto vicini alle posizioni russe. Dalla Turchia sono giunte dichiarazioni decisamente meno diplomatiche nei confronti degli Americani, che hanno spaziato dalla mera “ingenuità” di Kerry al “mare di sangue” che gli errori statunitensi avrebbero prodotto nella regione.
Si giunge ad una tregua
Certamente mai come in questa occasione gli Stati Uniti sono apparsi pubblicamente quali “ostaggi” delle aspettative e delle istanze internazionali dei propri alleati i quali, pur di non vedere vanificati anni di sforzi politici, diplomatici, economici e militari a favore dell’opposizione siriana, sono arrivati a minacciare Washington di scatenare ogni sorta di reazione che avrebbe potuto portare il Medioriente ed il mondo intero sull’orlo di una guerra totale. Indubbiamente la Casa Bianca si è trovata di fronte al fatto che se avesse proseguito con la politica di accomodamento con il Cremlino avrebbe generato delle conseguenze geopolitiche assolutamente inedite ed assai destabilizzanti, trovandosi improvvisamente isolata, con tutti gli alleati storici “contro” ed apparentemente schierata dalla parte di Russia ed Iran, i quali in realtà non vedono l’ora di soppiantare gli Stati Uniti quale potenza egemone nel Vicino Oriente (e non solo). La stessa Russia, colto lo spirito con il quale i Paesi arabi stavano minacciando l’intervento armato, ha lanciato un monito contro lo scoppio di un possibile conflitto mondiale e probabilmente neppure Putin ha avuto l’ardire di sfidare la sorte in uno scenario che si sarebbe potuto trasformare in una trappola mortale per le forze russe se effettivamente le potenze regionali fossero intervenute direttamente nel conflitto ed avessero politicamente obbligato gli Usa a scendere nel campo di battaglia al loro fianco. In tal senso occorre considerare che la Federazione russa è stata costretta a mettere personalmente piede sul terreno di scontro della Siria per evitare che il presidente Assad cadesse sotto i colpi dei ribelli siriani, trovandosi ormai in una posizione di evidente svantaggio rispetto ai ribelli sostenuti da Occidente, Paesi arabi e Turchia. L’intervento del Cremlino ha avuto successo nel puntellare il regime di Damasco perché l’opposizione siriana non dispone di armi che possano contrastare un’aviazione ben agguerrita. Ciononostante neppure la Russia possiede le risorse per impegnarsi in una guerra su vasta scala e pertanto sia gli Stati Uniti che Mosca hanno dovuto mettere da parte – almeno temporaneamente – le proprie “corrispondenze di amorosi sensi” per trovare un accordo a Monaco per un cessate il fuoco che prevedesse la fine dei bombardamenti sui ribelli siriani, con l’esclusione dei gruppi di Al Nusra (Al Qaeda) e l’ISIS, nonché l’invio di aiuti umanitari per le popolazioni assediate. La tregua ha richiesto ovviamente qualche tempo per essere messa in atto. Washington e Mosca si sono posti come garanti del cessate il fuoco (anche se gli Usa non sembrerebbero avere chiaramente il polso della situazione sul terreno) mentre Francia, Regno Unito, Paesi arabi e Turchia si sono posti nella qualità di “sponsor” dei ribelli siriani pronti a denunciare le possibili violazioni della tregua in atto da parte delle forze del regime o dei suoi alleati russo-iraniani. In particolare il cessate il fuoco è stato a più riprese visto con molto scetticismo dalla Gran Bretagna, affermando sostanzialmente, in particolare per voce di Philip Hammond, che la tenuta o meno della tregua dipendesse sostanzialmente dalla volontà della Russia di rispettarla e che comunque la temporanea cessazione delle ostilità potesse costituire solamente un espediente per guadagnare tempo a favore dell’esercito siriano. Allo scetticismo britannico si sono aggiunti il timore della Turchia per le manovre curde nei pressi del confine turco-siriano e i bombardamenti turchi in territorio siriano volti ad evitare che i Curdi potessero in qualche modo creare le condizioni per isolare i ribelli anti-regime dalle linee di rifornimento turche e porre le condizioni per proclamare uno stato autonomo. Da parte sua Assad, rinfrancato per la posizione di forza riguadagnata, ha dichiarato che si sarebbe accinto alla riconquista dell’intero Paese, tuttavia la Russia lo avrebbe dissuaso da mettere in campo iniziative che lo avrebbero potuto additare quale soggetto responsabile di violazioni del cessate il fuoco, facendo altresì comprendere ad Assad che ora è Mosca il soggetto politico principale che, assieme a Teheran, detta la linea politico-strategica della Siria sullo scacchiere internazionale e non certamente Damasco, la quale sopravvive solo grazie ai buoni uffici di Russia ed Iran. La tessa presenza di Al Nusra in alleanza con alcune fazioni dell’opposizione moderata è stata indicata qualche possibile pretesto per una prosecuzione dei bombardamenti russi sui ribelli siriani. Pare tuttavia che le parti abbiano concordato di non bombardare quelle aree dove non sarebbe stato possibile distinguere fra la branca siriana di Al Qaeda e gli altri gruppi ribelli. Il contestuale tentativo di Assad di penetrare nella provincia di Raqqa può essere inoltre letto come una mossa del regime tesa ad anticipare una possibile invasione saudita dalla Turchia qualora l’ISIS venga scalzato dall’area da Curdi e bombardamenti Usa e si creasse improvvisamente un vuoto da colmare. Con la proclamazione ufficiale del cessate il fuoco sono state segnalate da più parti delle violazioni (addirittura da parte israeliana sono arrivate accuse di utilizzo di armi chimiche contro i civili per opera del regime di Assad), tuttavia, mano a mano che la tregua è proseguita nel tempo, si è registrata un’evidente diminuzione della violenza ed una sostanziale tenuta del cessate il fuoco nonostante non siano state ancora definite le procedure su come monitore il cessate il fuoco stesso, fatto che ha consentito alla Russia di minacciare azioni unilaterali nel caso di eventuali violazioni della tregua. Il miglioramento della situazione sul campo ha infine permesso la ripresa dei colloqui di pace pur fra mille incognite e a fronte di un futuro del tutto incerto, in particolare vista l’assoluta contrarietà della delegazione del regime, forte del sostegno moscovita ed iraniano, di aprire una discussione sul destino Assad (in ultima istanza Ja’afari, il capo della delegazione del governo, avrebbe addirittura accusato Israele di curare i ribelli siriani feriti e di addebitare i costi del trattamento medico al Qatar). Gli stessi leader europei Cameron, Hollande, Merkel e Renzi hanno compiuto pressioni su Putin affinché la tregua fosse rispettata e ciò in considerazione della crisi umanitaria in corso che sta riversando fumi di immigrati verso le frontiere dell’Europa, un flusso in continuo aumento da quando la Russia ha iniziato i suoi bombardamenti in Siria. In particolare Regno Unito e Francia hanno ribadito la necessità che si avvii una transizione politica che allontani Assad dal potere ed in particolare Hollande ha affermato che le elezioni parlamentari indette dal regime di Damasco per aprile, a fronte della situazione in atto, sarebbero solo provocatorie ed irrealistiche.
Il “testamento politico” di Obama rovinato dagli alleati “scrocconi”
Gli Stati Uniti, a fronte della rivolta degli alleati, hanno dovuto riprendere a recitare la consueta retorica (pur non senza rinunciare a numerosi elementi di ambiguità fra i quali l’apertura all’ipotesi della partizione della Siria o l’allusione ad un “piano B” di cui non è stato mai riferito nulla di preciso), incentrata fondamentalmente sulla richiesta della fine del regime di Assad e dell’avvio di una transizione politica nel Paese. La necessità americana di soddisfare le esigenze dei propri partner mediorientali è forse una delle cause che stanno portando i Curdi ad abbracciare con “maggiore passione” Mosca rispetto a Washington, per quanto il Cremlino stesso, pur sostenendo l’ipotesi di una Siria federale, debba fare i conti con Damasco che non vuole sentir parlare di partizione del Paese, così come non ne vogliono sentir parlare neppure i ribelli siriani moderati. La Turchia, la quale ancora preme per l’istituzione di una zona di sicurezza nel nord della Siria sia a favore dei ribelli siriani che per evitare il paventato stato curdo, ha ripreso a far passare attraverso il proprio confine centinaia di oppositori al regime e di miliziani al fine di puntellare la resistenza anti-Assad mentre i Paesi mediorientali che avevano minacciato l’intervento armato hanno in parte ritrattato le proprie affermazioni e si accontenteranno di inviare forze speciali in Siria. Il presidente Obama, ormai a fine mandato, ha colto l’occasione per togliersi alcuni sassolini dalle scarpe e ha recentemente sfruttato l’occasione offerta dalla nota rivista statunitense “The Atlantic” per produrre una sorta di testamento politico sulla sua dottrina in politica estera e per sparare a zero contro i cosiddetti alleati di Washington definiti “free riders” (ovvero soggetti che “cavalcano senza pagare” un servizio di interesse collettivo, in questo caso riferito all’ambito militare). In buona sostanza Obama ha voluto sottolineare il fatto che ci sarebbero alcuni Paesi che pretenderebbero che gli Americani intervengano a loro favore nelle più svariate controversie internazionali e che sia nel corso dell’eventuale attacco bellico che nel successivo dopoguerra non vogliano pagare alcun costo di tale intervento ma trarre da questo solo i benefici, scaricando tutti gli oneri sugli Americani stessi. In buona sostanza molti alleati degli Stati Uniti, a cominciare dalla Gran Bretagna di Cameron e dalla Francia di Sarkozy/Hollande fino ad arrivare ai Paesi del Golfo, hanno preteso ed ancora pretenderebbero che gli Usa sposassero la propria politica estera e che poi pagassero il prezzo dell’azione militare al proprio posto, sia in termini di costi vivi di natura bellica che di esposizione mediatica. Obama ha dichiarato che era contrario all’intervento in Libia mentre si è detto “orgoglioso” di non aver bombardato la Siria nel 2013. In tal senso Obama non ha fatto altro che rimarcare quello che già ormai era chiaro da molti anni, ovvero che invece di “guidare da dietro” le ultime iniziative di “ingegneria geopolitica” occidentale, come alcuni insistevano ad affermare, in realtà l’inconsistenza di una politica estera obamiana, unita ad un isolazionismo presidenziale di natura ideologica, ha permesso agli alleati degli Stati Uniti di iniziare a manipolare l’agenda della politica internazionale statunitense con esiti per questi, evidentemente, non sempre soddisfacenti. Lo stesso Obama ha dichiarato che si è voluto opporre alla consuetudine rispetto alla quale Washington fosse costretta sia dall’establishment domestico che estero a promuovere in ultima istanza la propria visione politica o quella dei propri alleati attraverso l’esclusivo uso della forza, soprattutto in quegli ambiti dove l’interesse americano non apparirebbe particolarmente minacciato. In questo Obama, ponendosi in aperto contrasto con la tradizionale visione globale degli Stati Uniti promossa dai suoi predecessori, forse vuole apparire come una sorta di “homo novus”, anche se probabilmente non disdegnerebbe di paragonarsi ad una sorta di nuovo Marco Aurelio, l’ “imperatore-filosofo” al quale, ricordiamolo, succedette poi Commodo. Rimarcando la sua visione generale, Obama ha dichiarato che gli Stati Uniti non possono essere investiti del ruolo di “poliziotto del mondo” e che spetta agli alleati iniziare ad occuparsi dei propri problemi regionali. Quest’ultima posizione assunta dalla Casa Bianca può in effetti essere ritenuta condivisibile anche se Obama stesso dovrebbe ricordarsi che sono stati gli Stati Uniti, assieme all’Unione Sovietica, a spogliare definitivamente, dopo la fine del secondo conflitto mondiale e dopo la crisi di Suez, l’Europa da ogni ruolo sostanziale sullo scenario internazionale. In tal senso sarà indubbiamente interessante constatare se il prossimo presidente degli Stati Uniti vorrà proseguire la politica del disimpegno obamiano (politica legata, ad onor del vero, non solo ad una pulsione ideologica di Obama stesso ma anche ai rovesci finanziari, oltreché politici, subiti dagli Stati Uniti dopo la cosiddetta “guerra al terrore”), tuttavia, al di là di chi sarà il prossimo inquilino della Casa Bianca, occorreranno anni all’Europa, se effettivamente costretta dagli eventi, per rimettere in piedi un sistema militare in grado di tenere sotto controllo vaste aree globali, soprattutto in considerazione del fatto che il sempre più gradito e comodo “ombrello americano” ha permesso per decenni agli stati europei di far fiorire lo Stato sociale che tanta ricaduta ha avuto nelle competizioni elettorali delle democrazie del vecchio continente. E’, da questo punto di vista, possibile che il rifiorire del terrorismo di matrice islamista e le evidenti interconnessioni tra questo e l’imperante instabilità internazionale possano spingere l’elettorato a domandare ai propri esecutivi un maggior impegno nel settore della difesa.
Conclusione
A questo punto è difficile fare previsioni sul futuro e lo scenario che si staglia all’orizzonte si mostra piuttosto aperto. La presidenza Obama è ormai agli sgoccioli e sembrerebbe intenzionata a prendere tempo per lasciare la “patata bollente” delle varie crisi in corso al successore, preferendo calcare palcoscenici più temperati come la Cuba dei decrepiti fratelli Castro. La Russia di Putin, per quanto costretta dagli eventi ad uscire allo scoperto, al momento ha saputo sfruttare a suo vantaggio le divisioni interne al blocco occidentale e la riluttanza obamiana all’intervento. Indubbiamente la Russia stessa è gravata da condizioni economiche assai precarie e la disponibilità del Cremlino a trattare con gli Arabi sul prezzo del petrolio è indice di un sostanziale affaticamento finanziario, peggiore a Mosca di quanto lo possa essere nelle capitali del Golfo Persico. La recente decisione di Mosca di concludere le operazioni militari in Siria potrebbe proprio sottintendere una necessità cogente da parte della Federazione russa di togliere il piede dall’acceleratore di una situazione che rischia di sfuggire di mano al Cremlino, gravando pesantemente su di esso con conseguenze imprevedibili sia per l’economia che la politica moscovita. Ciononostante il ministro degli esteri britannico Hammond, il quale ha perso ormai ogni fiducia nelle dichiarazioni che provengono da Mosca, ha dichiarato di non attribuire alcuna importanza all’annunciato ritiro delle forze russe in Siria, aggiungendo, provocatoriamente, che Putin si comporta semplicemente come “un uomo che picchia sua moglie”. A dire il vero, al momento attuale, non sembrerebbe che il parziale ritiro del Cremlino abbia diminuito la capacità di fuoco del corpo di spedizione della Federazione russa; gli stessi Russi hanno dichiarato che non solo i bombardamenti sarebbero proseguiti contro l’ISIS ed Al Nusra ma che all’occorrenza avrebbero riportato nel paese mediorientale i mezzi finora apparentemente ritirati dal campo di battaglia. Alcuni commentatori avrebbero voluto leggere nell’annunciato ritiro russo dalla Siria un mezzo per mettere il regime sotto pressione e costringerlo al negoziato, altri ritengono invece che si tratti di una mera rotazione delle forze militari mascherato con i toni della distensione, come più volte accaduto in Ucraina. Francia e Regno Unito continuano naturalmente a fungere da importante cassa di risonanza per le istanze geopolitiche dei Paesi Arabi ed oltretutto la Gran Bretagna sta aiutando attivamente l’Arabia Saudita nella sua lotta in Yemen contro gli Houthi spalleggiati dall’Iran. Ciononostante l’atteggiamento anglo-francese di rinuncia all’azione militare senza un chiaro sostegno logistico americano non ha giovato né alla propria credibilità e né tanto meno alle istanze geopolitiche da questi promosse anche se, a dire il vero, neppure i Paesi del Golfo e la Turchia, salvo minacciare l’intervento armato come “extrema ratio”, si sono spesi eccessivamente per contrastare autonomamente le ambizioni russo-iraniane nella regione siriana. E’ altresì da rimarcare il fatto che il Regno Unito negli ultimi anni è stato pressato da numerose questioni di ordine interno, dalla vicenda del referendum scozzese alla “Brexit”, pertanto il premier Cameron ha dovuto concentrare la propria attenzione su molti fronti di capitale importanza nazionale. E’ altrettanto vero che oggi più di ieri la Gran Bretagna è gravata da una pesante responsabilità rispetto all’evoluzione della crisi siriana, nel senso che il fallito voto parlamentare del 2013 sull’azione in Siria ha avuto conseguenze all’epoca forse impensabili ma che oggi hanno permesso al presidente Putin di giocare un ruolo di assoluto rilievo sullo scenario mediorientale. In tale prospettiva è chiaro che se la politica estera americana continuerà sulla strada del disimpegno e dell’accomodamento con i rivali storici, attendersi che Washington risolva i problemi mediorientali secondo i desiderata di Londra, Parigi o Riyad, senza che questi ultimi mostrino la consistenza della propria forza sullo scenario internazionale, come al contrario fatto dalla Russia di Putin, sarà, a dir poco, alquanto arduo e problematico. Parimenti in Libia il governo di unità nazionale stenta a decollare e la mera presenza di forze speciali britanniche, francesi, americane ed italiane forse non basterà a riportare ordine nel paese, in particolare a fronte di una comunità internazionale e di un’Italia che se ne guarda bene dall’assumere qualunque iniziativa che possa in qualche modo travolgerla nel pantano libico. E’ pertanto chiaro che qualunque siano gli esiti futuri dello scontro in essere in Medioriente, in particolare a fronte di una progressiva crisi politico-economico-militare dell’ISIS (lotte interne per il potere, riduzione delle reclute e delle entrate economiche a fronte di un territorio troppo vasto per essere controllato con le risorse a disposizione) che potrebbe essere ormai irreversibile, se gli Stati europei o del Vicino oriente intendono subire il meno possibile le conseguenze degli accordi altrui, dovranno dotarsi degli strumenti adatti a far sentire il peso di tutta la propria influenza. Basti in tal senso pensare al caso della città di Palmira e a quanto giovamento porterà all’immagine mediatica e diplomatica di Damasco, Mosca e Teheran la riconquista militare dell’antico sito archeologico per opera del regime di Assad e degli alleati russo-iraniani (i quali spesso e volentieri si sono guardati bene da mettere seriamente in discussione il dominio del sedicente “califfo” preferendo piuttosto accordarsi con esso, perlomeno fino a quando l’ISIS avesse continuato a costituire una minaccia ovvero una utile forza regionale) e ciò a tutto svantaggio di chi si è limitato a supportare una guerra per procura cercando di esporsi il meno possibile sul piano sia della comunicazione che dell’impegno diretto. Oltretutto l’Iran, nonostante l’accordo sul nucleare iraniano (su cui la Francia ha promesso sorveglianza e sul quale Israele tutt’ora esprime il suo più estremo scetticismo) e la fine delle sanzioni sul suo programma atomico, continua a svolgere test missilistici incurante delle preoccupazioni internazionali, inducendo i Paesi arabi ad iniziare a considerare la possibilità di avviare una corsa agli armamenti per controbilanciare le mire di Teheran. Il parziale successo elettorale dei cosiddetti “moderati” in Iran potrebbe possedere proprio una valenza in gran parte nazionalistica, nel senso che il consenso ricevuto potrebbe derivare in buona misura dal fatto che i cosiddetti “moderati” (le cui candidature sono comunque selezionate dal regime) sono riusciti ad ottenere a beneficio del Paese ciò che i conservatori non sono stati in grado di garantire, ovvero preservare intatte le proprie potenzialità nucleari e contestualmente riportare il Paese nel consesso internazionale politico ed economico, facendo nuovamente pesare il ruolo dell’Iran nel mondo e travestendo Teheran quale attore “risolutore” delle crisi geopolitiche in corso. Addirittura lo stesso Iraq, una volta debellato l’ISIS, se abbandonato a se stesso, potrebbe nuovamente divenire teatro di una nuova guerra civile tra le milizie sciite sostenute dall’Iran, il debole governo centrale e i sunniti, riportando inutilmente indietro le lancette della storia di molti anni.
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