L’umanità convive da sempre con epidemie e pandemie che hanno avuto un impatto drammatico sulla società, come la peste esplosa intorno al 1347, che uccise un terzo della popolazione europea, oppure l’influenza Spagnola, una pandemia iniziata alla fine della Prima guerra mondiale che, secondo i dati del Ministero della Salute statunitense, colpì 500 milioni di persone e ne uccise quasi cento milioni in tutto il mondo. Eppure, esiste un legame profondo tra tali calamità e la letteratura e basti citare il Decameron di Boccaccio, ambientato proprio durante la Peste nera, o le splendide pagine dedicate alla peste dal Manzoni nei Promessi sposi.

Particolare del Trionfo della morte, opera della maturità di Bruegel, che ricrea esplicitamente le scene apocalittiche immaginate un secolo prima dal grande visionario Bosch e mostra in modo plastico le paure che serpeggiavano, come un fiume carsico, nell’opulenta società olandese del XVI secolo.

Per quanto riguarda l’Europa, la Peste nera del 1347 rappresentò uno spartiacque che ebbe un impatto profondissimo non soltanto sulla letteratura, ma anche sulla pittura, con le chiese che si riempirono di affreschi che riproducevano la “danza macabra” in cui la morte conduceva danzando le persone verso l’aldilà. Questa è anche la splendida scena finale del Settimo sigillo, diretto nel 1957 dallo svedese Ingmar Bergman. Dopo la tragedia della peste, il nostro continente seppe risollevarsi fino a produrre il Rinascimento che, dalla seconda metà del Quattrocento, si irradiò dall’Italia in tutti i Paesi europei che conobbero uno sviluppo culturale ed economico straordinario. Ma dietro il grande ottimismo, gli splendori delle arti e lo sfarzo delle corti, c’era un’inquietudine che serpeggiava, alimentata non solo dal ricorrente riaffacciarsi della peste, ma anche dalle guerre di religione che avevano atrocemente insanguinato l’Europa. Questi timori riemergono nel Trionfo della morte, uno dei capolavori di Peter Bruegel il Vecchio, databile intorno al 1562 e conservato oggi nel Museo del Prado di Madrid.

La peste e la letteratura

Nei secoli successivi, il tema rimane di enorme attualità poiché le epidemie continuarono a esplodere con impressionante regolarità, come possiamo vedere nella peste che nel 1630 colpì diverse zone dell’Italia settentrionale, raggiungendo anche il Granducato di Toscana, la Repubblica di Lucca e la Svizzera. Questa epidemia è ben conosciuta dagli italiani perché fu magistralmente ritratta da Alessandro Manzoni nei Promessi sposi e nel saggio Storia della colonna infame. Un’altra epidemia molto nota è quella denominata Great Plague, che colpì l’Inghilterra nel 1665 e venne minuziosamente descritta da Daniel Defoe (il popolare autore di Robinson Crusoe) nel suo A Journal of the Plague Year del 1722. Mary Godwin, più nota col cognome del marito, il grande poeta romantico Percy Bisshe Shelley, è famosa soprattutto per il suo romanzo gotico Frankenstein (1818), ma deve anche considerarsi un’antesignana della moderna fantascienza perché pubblica nel 1826 The Last Man, un romanzo apocalittico ambientato verso la fine del XXI secolo, in cui viene immaginata la fine dell’umanità a causa della peste.

Albert Camus è stato uno dei principali intellettuali francesi del secolo scorso. La motivazione del Premio Nobel recita: “ Per la sua importante produzione letteraria, che con serietà chiarificante illumina i problemi della coscienza umana nel nostro tempo”.

Uno dei più importanti romanzieri del secolo scorso che è stato ispirato da questo argomento è certamente Albert Camus, francese nato in Algeria nel 1913 e premio Nobel per la letteratura nel 1957, che diede alle stampe La peste nel 1947. Il romanzo è ambientato nella città algerina di Orano, in un momento imprecisato degli anni ’40, e la storia viene narrata dal dott. Rieux, un medico competente e coraggioso che si prodiga per  combattere un’epidemia di peste bubbonica, nonostante l’atteggiamento esitante delle autorità, molto restie a imporre misure che potrebbero scatenare il panico tra la popolazione. Ma quando l’epidemia esplode in tutta la sua violenza, da Parigi arriva l’ordine di chiudere la città in un cordone sanitario, per evitare il propagarsi dell’infezione. Alla fine, grazie anche all’opera del dott. Rieux, che perde molti amici e la moglie, la peste viene debellata.  Il romanzo di Camus, molto attivo durante la guerra nella resistenza, presenta la peste bubbonica come una metafora del male, riferito specificamente al nazismo, che deve essere combattuto con coraggio e abnegazione, fino alla vittoria finale.

Tra la fine del ‘900 e l’inizio di questo secolo, c’è stato un vero e proprio fiorire di romanzi su pandemie mortali, principalmente nel mondo anglo-sassone, lavori soprattutto commerciali e di scarso valore letterario, che puntano a solleticare le paure dell’uomo contemporaneo con lo sguardo rivolto al portafoglio. Fanno eccezione, tra gli altri,  The Andromeda Strain (1969) di Michael Crichton, The Stand (1978) di Stephen King, The Hot Zone (1994) di Richard Preston, Cecità (1995) di José Saramago e The Pesthouse (2007) di Jim Crace. La serie dei techno-thrillers o bio-thrillers è stata inaugurata nel 1969 da Crichton nel cui romanzo un satellite militare statunitense riporta sulla terra un organismo mortale che inizia a uccidere tutte le forme di vita intorno a sé.

Anche nel romanzo di King sono i militari americani che ci mettono lo zampino, perdendo il controllo di un letale virus influenzale che stermina il 99 per cento della popolazione mondiale. Il romanzo di Saramago, che non per niente ha vinto il Nobel per la letteratura nel 1998, descrive invece un’epidemia generale di cecità che colpisce una città non identificata. Al pari della Peste di Camus, si presta a una lettura metaforica e ha al centro della narrazione un dottore. Sulla scia di Saramago e intenzionato a non lasciare ai soli autori commerciali il genere distopico-pandemico, Crace immagina un’America infestata dalla peste in un non meglio specificato futuro, dove imperversano bande violente e sette millenaristiche, in quella che potrebbe essere un’allegoria degli Stati Uniti all’inizio del XXI secolo.

La tragica lezione di Poe

C’è però un racconto breve che rende plasticamente l’illusione devastante di chi si ritiene immune dall’assalto crudele della peste, ed è La maschera della Morte Rossa di Edgar Allan Poe, un “genio ribelle, sregolato e autodistruttivo”, come lo ha definito Claudio Magris. Redatto in una prima edizione nel 1842, compare in versione definitiva sulla rivista Broadway Journal del 12-19 luglio 1845. Un regno non specificato viene improvvisamente colpito da una terribile peste che si manifesta con orribili macchie rosse che compaiono principalmente sul viso, dolori atroci,  vertigini e sanguinamento diffuso che porta alla morte in mezz’ora. Ma il principe Prospero, raffinato intenditore d’arte e amante dei piaceri, indifferente alle terribili sofferenze dei suoi sudditi, convoca un migliaio di amici, scelti tra cavalieri e dame della sua corte, e ripara insieme a loro in una delle sue abbazie fortificate, dopo aver fatto una larga scorta di provviste. “Quando i cortigiani furono là dentro, col fuoco e dei buoni martelli saldarono ogni serratura, intendendo così di assicurarsi contro i possibili impulsi disperati di chi stava fuori, e di chiudere ogni via d’uscita alle frenesie di chi stava dentroIl principe aveva provveduto a tutti i mezzi del piacere. Si era portato dietro buffoni, improvvisatori, musici e ballerini. E poi la bellezza, il vino. C’era tutto questo, al di dentro. Fuori, la Morte Rossa”.

Edgar Allan Poe (1809-1849), poeta, critico letterario e giornalista, è considerato l’iniziatore del racconto poliziesco, della letteratura dell’orrore e del giallo psicologico.

Il tempo passa in feste e banchetti, perché il principe è un esteta dal gusto raffinatissimo, fino a che, dopo circa sei mesi, Prospero decide di organizzare uno splendido ballo in maschera a cui gli allegri ospiti partecipano in costumi dalle fogge inusuali, con colori sgargianti, travestimenti stupefacenti, “c’era del bello, del licenzioso, del bizzarro, un po’ di terribile anche”. Mentre le sale risuonano delle musiche e dei gridolini di piacere dei convitati, tutti notano improvvisamente una maschera che ha deciso di sfidare il buon gusto e le regole della corte, travestendosi addirittura da Morte Rossa. In un’atmosfera agghiacciata, Prospero grida furioso contro l’ignoto che ha osato profanare il clima di spensierata allegria e, insieme ai cortigiani, lo insegue fino all’ultima stanza “ma nell’afferrare lo sconosciuto, che se ne stava ritto e immobile nell’ombra dell’orologio d’ebano, rimasero inorriditi senza respiro trovando vuoti d’ogni tangibile forma il sudario e la maschera da cadavere che s’erano affannati a strappare con tanta rude violenza. Si conobbe così la presenza della Morte Rossa. Come un ladro era venuta, di notte. E a uno a uno i convitati caddero nelle sale dell’orgia irrorate di sangue, e come caddero, negli atteggiamenti della disperazione, rimasero morti…Le fiamme dei tripodi si spensero. E le tenebre, la rovina, la Morte Rossa stabilirono su ogni cosa il loro dominio senza limiti”.

L’illusione dei muri che proteggono

La storia ci avrebbe dovuto insegnare che l’idea degli happy few, che si chiudono dentro le loro splendide magioni per gozzovigliare in santa pace, mentre i pezzenti al di fuori crepano in modo atroce, non funziona nella realtà. Trincerarsi nella fortezza, tirare su il ponte levatoio e sigillare le porte può forse rivelarsi efficace con i nemici di un tempo ma, nell’era della globalizzazione, non sortisce alcun effetto, soprattutto contro i virus. La lotta dell’uomo contro i batteri va avanti da millenni. È certamente vero che, dalla seconda metà del secolo scorso, l’umanità si è illusa di aver trionfato definitivamente, con un atteggiamento di spericolato ottimismo simile a quello che trionfò in Occidente alla fine dell’Ottocento quando si volle credere che, grazie alla scienza e al progresso delle macchine, tutti i problemi dell’umanità sarebbero stati risolti in un batter di ciglia. Questo sogno illusorio affogò irreparabilmente nel sangue della Prima guerra mondiale, per poi ripresentarsi immutato e ancora più audace agli albori del XXI secolo, che avrebbe dovuto schiudere un’epoca di pace e prosperità mai conosciute prima dall’umanità. Purtroppo, se ci guardiamo intorno vediamo che non è così.

Il muro di Berlino nel 1989, nelle ultime settimane prima della sua caduta. La lezione che dobbiamo imparare è che i muri sono una protezione illusoria che, prima o poi, deve fare i conti con la storia.

Nel loro delirio di onnipotenza i profeti dello sviluppo inarrestabile e automatico si sarebbero dovuti accorgere che, mentre la tecnologia faceva passi da gigante nel settore del digitale, riemergevano nemici che ci si era illusi di aver sconfitto definitivamente. A partire dagli anni ’70 del secolo scorso, la lista delle malattie “nuove” ha continuato ad allungarsi: Hiv, hantavirus, febbre di Lassa, Marburg, legionella, epatite C, Lyme, Rift Valley Fever, Ebola, Nipah, West Nile virus, Sars, Bse, aviaria, Chikungunya, norovirus, Zika e, di drammatica attualità, Covid-19. Sono sicuro che, alla fine, il coronavirus sarà sconfitto ma ciò avverrà soltanto mettendo insieme, a livello mondiale, gli sforzi della ricerca, coordinando gli interventi e grazie alla collaborazione tra gli Stati, non certo tirando su nuovi muri e proteggendo il proprio orticello. Non ci possiamo più permettere di trascurare gli insegnamenti di questa lezione, perché la prossima volta che scoppierà un’epidemia rischiamo di veder trasformata la nostra vita in uno dei romanzi di Michael Crichton o Stephen King.

di Galliano Maria Speri

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