Le minacce congiunte di radicalismo religioso di matrice jihadista, arruolamento di foreign fighters e terrorismo sono al centro delle agende di sicurezza soprattutto dei paesi occidentali. Lo spaccato di insicurezza nel Mediterraneo non proviene solo dalle vicende irachena, siriana e libica, ma trova nei Balcani un ulteriore focolaio che la causa jihadista sta alimentando.
La minaccia del terrorismo è ancora relativamente contenuta all’interno delle comunità dei Balcani grazie ad una stragrande maggioranza musulmana moderata, e per questo i partner occidentali sono chiamati a cooperare in termini di sicurezza con i Paesi della penisola per evitare l’allargamento di questa minaccia.

Una terra ricca

Complice la posizione geografica che l’ha resa zona di transito tra diverse etnie, teatro di dissidi politici e religiosi ma anche terreno di incontro culturale, oggi l’area balcanica si presenta a metà tra opportunità da sfruttare e incognite da risolvere. Tra queste ultime, l’infiltrazione terroristica è un processo ancora difficile da monitorare, ma già nel 2013 Kosovo e Albania venivano annoverati tra i Paesi europei con più jihadisti in Europa.
Non è un caso che lo scorso dicembre, in un’operazione anti-terrorismo, la Polizia italiana abbia arrestato 4 cittadini kosovari con l’accusa di apologia di terrorismo e istigazione all’odio razziale.

La comunicazione

Così come non è un caso che lo stesso discorso di auto-proclamazione a Califfo di Abu-Bakr AlBaghdadi sia stato tradotto in inglese, francese, tedesco, turco, russo e albanese; non è   ancora un caso che un video di propaganda dell’Isis, dal titolo “Honor is in Jihad. A
Message to the People of the Balkans”, pubblicato nel maggio 2015, abbia raggiunto una grande notorietà.
Nel video di 20 minuti, prodotto da Al-Hayat Media, Daesh scuote i musulmani dei Balcani,
richiamando gli errori dell’Occidente e riaprendo vecchie ferite, come la Guerra di Bosnia
del ‘92-95.
Proprio la guerra civile esercitò una forza centripeta sui gruppi radicali di matrice wahabita: si stima che tra i 2.000 e i 5.000 mujaheddin si insediarono in Bosnia (Bosanski mudzahedini) al fianco delle popolazioni bosniache di fede musulmana in funzione anti-serba e anti-croata, componendo dei veri e propri battaglioni, come l’unità “El-Mujahed” che venne inglobata nel 7° Corpo dell’Esercito Bosniaco. Luogo di “smistamento” tra i principali centri di supporto per i mujaheddin fu il Centro Culturale Islamico di Viale Jenner a Milano, nel quale irruppe la Polizia italiana nel 1995. Al termine del conflitto, molti mujaheddin rimasero in Bosnia, integrandosi con il resto della popolazione e raccogliendo consensi tra i giovani locali, afflitti da un mix di criticità ancora oggi diffuse (disoccupazione; economia stagnante; corruzione; debolezza istituzionale; instabilità politica), e quindi più facilmente attratti dalle opportunità offerte dal messaggio wahabita. Tra questi si ricordano anche 3 dei terroristi coinvolti nell’attentato dell’11 settembre.

Lunga tradizione di Islam moderato

È doveroso, però, ricordare che i Balcani occidentali ospitano la più grande popolazione musulmana indigena in Europa e sono custodi di una lunga tradizione di Islam moderato risalente alla conquista ottomana della penisola nel XV° secolo. Se da una parte il regime comunista aveva spinto per la laicità, la sua caduta ha creato una volatilità politica ed ideologica significativa che ha lasciato spazio a movimenti, ONG ed enti religiosi, in maggioranza provenienti dalla penisola arabica, che giunsero durante la guerra bosniaca per finalità inizialmente umanitarie e caritatevoli.
Questi si fecero ben presto promotori di un’interpretazione di matrice wahabita, ultra-letterale e militante, presso le moschee e le madrasse (le scuole musulmane), attraverso progetti edilizi, forme di associazionismo giovanile, riviste e sussidi economici allo studio. Lo sviluppo di una vasta infrastruttura religiosa richiese, infatti, un aumento significativo di religiosi qualificati e centinaia di borse di studio vennero messe a disposizione presso gli istituti di istruzione islamici del Medio Oriente per gli imam balcanici. Proprio i giovani studenti sono stati un canale influente per la trasmissione di idee radicali islamiche nell’area.

Rapporti con gli ambienti jihadisti e foreign fighters

Se è possibile risalire al conflitto degli anni ’90 per tracciare la presenza dei jihadisti in Bosnia, nel resto della penisola balcanica il rapporto con gli ambienti jihadisti avrebbe avuto inizialmente un carattere commerciale, spesso legato al traffico della droga e degli organi.
Come nel caso bosniaco, le diverse cellule terroristiche attive nel reclutamento e addestramento fra Serbia, Albania, Macedonia, Kosovo e Montenegro vedono dei punti di riferimento privilegiati negli ex guerriglieri locali e sono spesso intrecciate alla criminalità organizzata del posto. La rete di attori estremisti comprende ora in primo luogo una nuova generazione di fondamentalisti religiosi locali formati in Medio Oriente. In Albania, ad esempio, il problema deriverebbe dal controllo delle moschee: 2 gli imam, Bujar Hysa e Genci Balla, che sono stati arrestati a Tirana per incitamento.
I dati rivelano una diversità tra i Paesi, soprattutto Albania, Kosovo e Macedonia, per quanto
riguarda l’età delle persone più vulnerabili al reclutamento, nonostante ampie analogie etnolinguistiche e culturali.
Mentre il tipico combattente straniero propriamente albanese è un maschio tra i 31 e i 35 anni, il tipico combattente straniero di etnia albanese del Kosovo e della Macedonia è un maschio tra i 21 e i 25 anni.
Con un rapporto di oltre 16 combattenti per 100.000 cittadini, il tasso di reclutamento del Kosovo è 8 volte superiore a quello della Francia, ed è il Paese con il più alto numero di foreign fighters in Siria in rapporto alla popolazione.
Uno sviluppo così alto del fenomeno è spiegato dalla prossimità geografica e una minore restrizione sui visti, sull’economicità dei trasporti, ma anche la confluenza di particolari fattori socio-politici e demografici: il Kosovo ha la popolazione più giovane d’Europa (il 44% ha un’età inferiore ai 25 anni) e un surplus di giovani uomini. Dati che, se combinati con un rapido processo di urbanizzazione, le sfavorevoli condizioni economiche, un alto tasso di disoccupazione giovanile (56%) e bassi livelli di istruzione per il 62% della popolazione adulta, rendono il Paese più suscettibile all’indottrinamento ideologico.

Misure anti-terrorismo

Non mancano in Albania come in Kosovo, Bosnia e Macedonia le iniziative legislative volte ad
aggiornare il quadro normativo relativamente alle misure antiterrorismo, e introdurre degli istituti soddisfacenti a criminalizzare l’incitamento ad azioni terroristiche, la creazione, guida e partecipazione a organizzazioni terroristiche. In questo senso è molto importante la cooperazione fornita dagli Stati Uniti in materia di antiterrorismo, senza escludere la necessità di ulteriori sforzi dal punto di vista dell’assetto interno ai vari Paesi per consentire sia una strategia di deradicalizzazione e campagne di contro-narrazione efficaci rivolte alle fasce più sensibili, sia un monitoraggio dell’evoluzione dei modelli di radicalizzazione nella regione.

 

On. Andrea Manciulli*
* Presidente della Delegazione italiana presso l’Assemblea Parlamentare della NATO e
Vicepresidente della Commissione Esteri della Camera
“Contributo tratto dal sito www.europaatlantica.it”

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