di Leonardo Servadio
C’è una verità profonda che con profetico afflato Trump ha evocato nel corso della sua campagna elettorale. L’idea del Muro al confine col Messico riassume e aggiorna tutta la storia di divisioni e guerre che hanno costellato la storia. E se nella seconda metà del XX secolo tale divisione s’è concretata nel Muro di Berlino, divisione fisica e simbolica assieme tra un modo di vita e un altro, tra un modello di società e un altro, tra un tipo di “impero” e un altro, l’una parte nell’altra ravvisando quanto di più turpe potesse immaginarsi e non trovando altra soluzione alla minaccia percepita che quella di rispondere con una identica minaccia, alla svolta del XXI secolo ci siamo scoperti con un mondo per vie culturali e tecnologiche e commerciali indirizzato verso la globalizzazione, ma di fatto impegolato in una nuova divisione: quella tra nord e sud.
L’auspicato da Trump muro sul Rio Grande, sul piano simbolico era inteso a difendere il modello di vita del consumismo scialacquone americano, tenendo lontani i piedi zozzi dai calzari rotti del migrante povero che sogna, compiendo un passo di ottenere lo stesso glamour che vede nella televisione e, come probabilmente capitò a tanti migranti dall’Europa tra Otto e Novecento, scopre che la via è ardua e che se si vuole fare in fretta bisogna ricorrere a scorciatoie pericolose ma potenzialmente redditizie. Il traffico di droga oggi sulle rotte sud-nord è probabilmente la più appetibile via per guadagni facili: vizio chiama vizio, e così il denaro cattivo (sudicio) scaccia il denaro buono. E si unisce ai flussi indistinti speculativi dove il denaro moltiplica il denaro senza mai fertilizzare alcuna attività umanamente produttiva, culturalmente significativa o moralmente accettabile.
Il muro tra nord e sud è valicato solo da coloro che dispongono dei mezzi per farlo: i contrabbandieri dei nostri giorni, trafficanti di stupefacenti e di esseri umani, indistintamente.
Avviene sul Rio Grande come in quella barriera acquatica ch’è diventata il Mediterraneo, che tra le terre a noi vicine si pone sempre più come luogo di divisione, su cui riescono a passare solo le imbarcazioni dei corrotti operanti il nuovo commercio di schiavi. E oggi questi ultimi pagano per essere ridotti in schiavitù, a differenza di quel che avveniva soltanto fino a poco più di un secolo fa, quando erano ridotti in schiavitù gratuitamente.
Anche in questo si vede la potenza corruttrice della guerra, madre di tutte le perversioni poiché strappa la dignità all’essere umano. Dignità che gli deriva dal potersi rispecchiare nell’altro visto come fratello; quando comincia a vedere l’altro come nemico, ipso facto l’essere umano diviene nemico anche a se stesso, e si condanna al regime della paranoia e del conflitto continuo.
La dottrina cristiana ben conosce il fenomeno e, non a caso, pur a fronte della violazione del diritto internazionale compiuto da Saddam Hussein, papa Giovanni Paolo II ammonì con forza contro il ricorso alla forza militare per liberare il Kuwait nel 1991. Non che le guerre nella zona mediterranea-mediorientale siano sorte in quel momento. Ma in quel frangente il mondo occidentale, dismesso l’abito della Guerra Fredda, si rivestiva del nuovo abito dello scontro nord-sud. E non ne è più uscito.
Il fanatismo islamico, con la sua cupa tradizione inveterata di fanatismo di ineguagliabile portata interpreta con sublime abilità quanto di più abietto v’è nell’aggressività umana, inseguendo sogni di restaurazione del Califfato, coltivando il deposito oscuro dell’inconscio che la civiltà da sempre cerca di addomesticare.
Vi sono momenti in cui forze strane emergono nella storia per rievocare questi fantasmi di morte. Accadde col nazismo: votato al cancellierato dalla maggioranza in cerca di riscatto dall’umiliazione, Hitler ha mostrato al mondo quanto grande è il potere dell’abiezione umana se si scatenano le forze oscure della violenza. Il suo primo impegno fu di trasformare il suo Paese in una grande fabbrica di armi.
Fabbricate armi e prima o poi saranno usate.
La barriera della Distruzione reciproca assicurata è ormai caduta: nel conflitto nord-sud non vi sono regole e non v’è limite che tenga, anche per via dell’arroganza tecnologica che illude il nord, e dell’arroganza demografica che dilaga nel sud, con l’uso massiccio di uomini bomba, fanaticamente votati agli omicidi suicidi.
Oggi siamo immersi in una nuova escalation di accumulo di armi: qualcosa che la Guerra Fredda, combattuta peraltro entro un universo che compartiva in essenza il senso del rispetto della vita, aveva invece cercato di contenere attraverso negoziati per la limitazione degli armamenti. Per quanto divenissero essi stessi uno strumento usato entro la logica dello scontro, pur sempre i negoziati rappresentavano anche un momento di incontro.
Nel conflitto nord-sud questo momento di incontro manca totalmente. Andrebbe ricercato, ma ora il più poderoso tra i contendenti lo sta rifuggendo. Con i nuovi contratti di forniture belliche stilati con Arabia Saudita, Qatar, Taiwan, Trump potrebbe forse (chi mai sa che cosa motivi la sua azione, oltre al desiderio di guadagno cui s’è abituato sin da ragazzino) supporre di acquisire una posizione negoziale vantaggiosa e fronte dei suoi “competitors” cinesi, russi, arabi, iraniani, nordcoreani.
Il problema è che in questo conflitto diffuso e brulicante e crescente, non vi sono i freni che tamponavano le azioni nella Guerra Fredda, e le teste calde del mondo sono abituate a usare indiscriminatamente i loro strumenti bellici.
Ci sono conflitti in Yemen, in Congo, in Sudan, l’India punzecchia la Cina, l’Afghanistan per tradizione ribolle.
E l’Amministrazione americana attuale non trova di meglio che disfare quanto tra Vaticano e precedente Amministrazione s’era fatto per dialogare con Cuba e attraverso essa con i vari gruppi (vedi le Farc in Colombia) che hanno insanguinato l’America Latina nei decenni passati.
Forse, nelle false alternative che la politica tende a presentare, la Clinton non sarebbe stata molto meglio. Ma oggi la demagogia dei tanti “generali” che punteggiano la nuova Amministrazione americana, nel vuoto che si è creato entro gli apparati che usualmente la accompagnano, non può che ricordare quanto sia cospicua la minaccia del complesso militare-industriale, che vede nella guerra come fatto in sé la sua finalità.
I fantasmi della violenza, sempre in agguato pur nel mondo civilizzato, vanno tenuti a bada, non scatenati. E quando qualcuno pensa di fare a modo suo e di tirarli fuori dal recondito deposito dell’inconscio collettivo, alimenta processi che divengono sempre più difficili da controllarsi.
Per ora, l’azione di Trump ha portato a un fatto relativamente nuovo: una sempre più stretta alleanza tra Cina e Russia (quanto fu profetica la visione di Orwell, in merito alla dinamica delle tre superpotenze!). Ma gli elementi di imponderabilità più ardui sono quelli che derivano dei tanti piccoli operatori di violenza, piccoli paesi impegnati in guerre intestine, regionali, dirette o per procura, che sono i recettori ultimi dei nuovi flussi di armi e i terreni di scontro privilegiati su cui liberare ogni sorta di violenza.
Mentre si misurano tra loro le superpotenze, si agita un vasto mare di aggressività che oggi dal sud preme verso il nord. Non basteranno muri o armi per fermarlo, perché nella lotta tra civiltà e barbarie la prima può vincere solo se convince la seconda che la pace è meglio della guerra. E che i ponti sono meglio dei muri: attraverso questi passano solo i trafficanti, sui primi passano gli esseri umani.
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