Aria di vittoria a Damasco
di Salvatore Santangelo
Nella capitale della Siria si è diffuso un clima di sollievo: ormai la “Primavera” è passata. Basta farsi un giro per le strade della città per capire come ha fatto il regime a resistere all’assedio internazionale
L’ingresso dell’ex Liceo francese di Damasco, intitolato a Jawdat al-Hashimi, è chiuso. I banchi accatastati all’esterno e le finestre sbarrate fanno da contraltare ai famosi versi de L’era del cinghiale bianco che Franco Battiato avrebbe composto proprio davanti a questo edificio dalle linee coloniali: «Profumi indescrivibili nell’aria della sera/ Studenti di Damasco vestiti tutti uguali/ L’ombra della mia identità mentre sedevo al cinema oppure in un bar».
In generale, nella capitale siriana si evitano gli assembramenti per paura di attentati suicidi (l’ultimo di una certa entità c’è stato domenica 2 luglio) ma nella città, come nel resto del paese, si respira un’aria di vittoria: è diffusa la consapevolezza che la parabola del conflitto è ormai discendente. Attorno agli alberghi internazionali ci sono persino sprazzi di vita notturna anche se qualche indirizzo più famoso è scomparso o ha visto, dopo 7 anni di guerra, le sue “ambizioni” ridimensionate.
Quello che stupisce, a Damasco e negli altri centri della Siria “utile” investiti dai combattimenti (a tutt’oggi Jobar, importante sobborgo della capitale, è fortemente infiltrato da elementi islamisti) è la presenza dello Stato, delle sue articolazioni amministrative ancor prima che dei suoi apparati di sicurezza. Anzi, tutti gli esponenti di governo (formatisi per lo più in Francia o in Italia), incontrando i rari visitatori occidentali, rifiutano sdegnosamente la definizione di “Stato fallito” rivendicando il fatto che persino l’ultimo dei dipendenti pubblici, anche nei territori occupati da Daesh o da altre formazioni islamiste, ha sempre ricevuto, in un modo o nell’altro, il suo stipendio.
Il conflitto siriano non può essere compreso o letto se non allargando il proprio sguardo a tutto lo scacchiere mediorientale e da qui alle capitali occidentali: nemesi storica dei nostri giorni, la stagione delle Primavere arabe – intesa come affermazione pacifica della dimensione politica dell’islam sunnita “moderato” tramite le diverse diramazioni nazionali del movimento dei Fratelli Musulmani – appare giunta a conclusioni deludenti, ben lontane da quei propositi di democratizzazione che ne avevano accompagnato gli esordi. In termini strategici, abbiamo assistito al fallimento del grande disegno geopolitico, caldeggiato (se pur con finalità diverse) dal Qatar e dall’Arabia Saudita, volto a rimodellare il profilo del Medio Oriente in funzione anti-iraniana. Sperimentato con successo in Tunisia, riproposto nello Yemen, nel Bahrein e su più larga scala in Egitto, il protocollo rivoluzionario ha incontrato sul terreno siriano, primo alleato della Repubblica islamica, la sua esplosione più drammatica e allo stesso tempo una decisiva battuta d’arresto. Tunisia, Egitto e successivamente Libia (che comunque presenta degli elementi assolutamente originali) sono stati attraversati da una violenta scarica di energia che si è nutrita del malessere economico, della frustrazione, della disperazione, delle differenze teologiche e geografiche. Un’onda che ha disegnato un poderoso arco di crisi che, al culmine della sua parabola, si è abbattuto sul cardine della porta sciita: la Siria appunto. Se questo cardine fosse stato abbattuto, quasi certamente anche il “Partito di Dio” in Libano e l’Iran sarebbero caduti come frutti maturi.
Ciò non è accaduto e l’arco di crisi è stato attraversato, al contrario, dalla stessa energia che ora sconvolge i delicati equilibri dell’eterogenea coalizione schierata contro Damasco e i suoi alleati. La rivolta – seppur abortita – di Ghezi Park nella Turchia del sultano Erdogan (altro grande sponsor dei Fratelli Musulmani) e il successivo tentato golpe, la restaurazione militare al Cairo ai danni del presidente Mohamed Morsi, la fragilità dello scenario politico-istituzionale tunisino, l’aperta contrapposizione tra sauditi e qatarini (e tra i loro alleati) sono tutti segnali evidenti del reflusso dell’influenza politica della grande confraternita sunnita.
Gli esiti della destabilizzazione
In termini umanitari, a conti fatti, i risultati della lunga parabola insurrezionale votata al rovesciamento di decennali e corrotti regimi autocratici si sintetizzano in un corollario di guerre civili, esecuzioni sommarie, conflitti internazionali, crimini contro l’umanità, odi settari e colpi di Stato da cui è emerso un panorama di desolante devastazione umana e socio-economica. Piuttosto che il preludio all’affermazione di inediti modelli di statualità democratica islamica, il ciclone rivoluzionario che si è abbattuto sul Maghreb e sul Mashreq sta assumendo le sembianze di una fase di destabilizzazione, interna ed esterna, dagli esiti imprevedibili.
Ne farebbe le spese quel poco che rimane delle aspirazioni al benessere e al rinnovamento dei giovani e meno giovani scesi in piazza a partire dal gennaio 2011, ma non meno ne sarebbero coinvolte l’Europa e soprattutto l’Italia. In virtù di tale coinvolgimento diretto, e per loro stesso interesse, i paesi della sponda nord del Mediterraneo sono chiamati ad adoperarsi per evitare che un simile scenario diventi irreversibile. E devono farlo con gli strumenti della diplomazia, dell’economia, della cooperazione e, qualora necessario, del peacekeeping. Sarebbe, tuttavia, deleterio addentrarsi nel caotico panorama mediorientale senza una propedeutica riflessione sistemica volta a chiarire sia le finalità e i limiti di una politica maggiormente assertiva, sia le aspettative sul futuro che egiziani, libici o siriani auspicano per se stessi e per i propri figli. In altri termini, gli europei – che non seppero prevedere né gestire i “terremoti” della Primavera araba – sono oggi chiamati a comprendere davvero cosa vuole e dove sta andando il mondo arabo-musulmano che si affaccia sulle coste meridionali e orientali del Mediterraneo.
Un primo tentativo di schematizzazione del conflitto siriano ci porta a individuare tre fasi distinte: quella delle proteste popolari (la cui portata, non solo in Siria, è stata fortemente amplificata dai media e in particolare da Al Jazeera); il jihad proclamato da alcune delle più importanti autorità religiose sunnite, che ha visto affluire in Siria combattenti e militanti da quasi 80 paesi diversi (i sopravvissuti dove andranno dopo la sconfitta di Daesh?); infine la presenza sul campo di tre eserciti stranieri (quello turco, quello russo e quello statunitense). Autorevoli centri studi, un fiume di petrodollari, migliaia di uomini sono stati mobilitati contro Damasco, e se è vero che non si può sottovalutare il tempismo di Mosca nel contrastare prima per via diplomatica e successivamente sul campo ogni iniziativa volta al “cambio di regime”, le ragioni della tenuta del paese – a differenza di altri situazioni, per esempio la Libia – vanno trovate anche altrove.
I tre pilastri del sistema
A lungo si è discusso della fine della geografia sorta dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano, sull’artificialità dei confini tracciati da Mark Sykes e da François Georges-Picot, sull’esigenza di ridisegnare il Medio Oriente su Stati confessionali; l’integrità dei confini è stato (e oggi lo è ancor di più) uno dei punti non negoziabili per Damasco e uno dei più delicati nei confronti del futuro assetto dei curdi che comunque hanno giocato un ruolo importante nella lotta contro lo Stato islamico. Allo stesso tempo sono emersi chiaramente tre pilastri del modello siriano.
L’esercito di leva multiconfessionale, che pur tra mille difficoltà non si è sbandato né disgregato vincendo fin da subito la “battaglia delle strade”, tenendo aperte, con le unghie e con i denti, le vie di comunicazione della capitale con l’est ma soprattutto con il sud del paese.
Il ruolo centrale dei cristiani, di cui la Siria ospita alcune delle più antiche comunità. La caduta del regime e la vittoria dei ribelli avrebbero riproposto uno scenario simile all’Iraq, dove sono praticamente scomparsi. Da qui la caparbia resistenza e la capacità di mobilitare a propria difesa i vertici cattolici e ancor più ortodossi. Inoltre i cristiani (assieme agli alawiti) sono anche il “motore ideologico” del nazionalismo siriano che si è rivelato una malta e un collante in grado di reggere alle suggestioni dell’internazionalismo salafita.
Infine l’organizzazione statuale di cui abbiamo già parlato. Tra l’altro lo Stato è uscito fortemente rinforzato anche rispetto al Baath, che pur rimanendo la prima forza politica con una salda maggioranza parlamentare, ha riconosciuto questa evoluzione rinunciando, anche nel suo statuto, al regime monopartitico. Va detto che comunque la Siria ha da sempre avuto una grande vivacità politica e oggi sono riconosciute più di quindici formazioni (che devono avere rappresentanti in almeno due terzi del territorio nazionale), tra cui un paio di partiti marxisti che vantano una storia secolare.
Le partite ancora aperte
Il punto di saldatura e di equilibrio di questa complessa architettura è la figura di Bashar al-Assad. Riconoscerlo per gli osservatori occidentali che ne chiedono costantemente l’allontanamento è difficile, ma oggi quella che nasceva come una leadership di ripiego (come sappiamo non era lui, ma il fratello Bassel, morto in un incidente stradale, la prima scelta per la continuità del regime) si rivela appunto come l’elemento stabilizzante dello scenario siriano e della multiconfessionalità dello Stato, che si nutre anche di elementi simbolici molto forti come il fatto di aver voluto festeggiare la fine dell’ultimo Ramadan ad Hama (roccaforte dei Fratelli Musulmani dove Assad padre represse nel sangue un primo tentativo di ribellione), o il fatto di aver accompagnato un’icona particolarmente venerata tra le comunità cristiane più colpite dalla furia salafita. Certo la battaglia per la Siria non è finita e se l’ordine presidenziale di Trump di interrompere il sostegno all’opposizione armata e l’escalation del confronto tra Qatar e Arabia Saudita sposta il baricentro geopolitico regionale, restano aperte alcune importanti partite: il futuro dei curdi, il pieno riconoscimento del pluralismo politico e dei diritti civili, il disarmo delle milizie e la ricostruzione.
Per quanto riguarda il nord del paese va detto che il regime ha avuto l’accortezza di riconoscere la centralità dei quadri del Pyd (gemello del Pkk) e delle altre formazioni curde attorno a cui costruire il nocciolo della resistenza anti-Isis. I curdi siriani a loro volta hanno costantemente dialogato con Damasco e i loro leader hanno più volte affermato che in caso di ulteriore sconfinamento turco avrebbero ceduto le posizioni da loro conquistate alle forze regolari siriane.
Per quanto riguarda la ricostruzione materiale del paese – per un costo stimato in quasi 200 miliardi di dollari – è chiaro che si tratterà di una partita fondamentale non solo per la Siria ma per tutta la regione, tra l’altro saldamente inserita nel grande progetto della Via della Seta 2.0. Se va registrata la lodevole iniziativa che ha visto a Venezia la recente nascita dell’Osservatorio per la ricostruzione della Siria, allo stesso tempo va detto che immaginare un ruolo da protagonista dell’Italia è assolutamente velleitario. Gli attori centrali saranno certamente i russi, i cinesi e gli indiani (protagonisti quest’ultimi di importanti iniziative diplomatiche).
La domanda che occorre porsi
Tra gli europei, l’Italia che nel 2011 era il primo partner della Siria oggi rischia di essere scalzata di nuovo dalla Germania, che a parole mantiene una linea dura (come anche nei confronti della Russia) ma che ha alimentato un importante canale di comunicazione tramite l’Austria, che assieme alla Spagna mantiene pieni rapporti diplomatici con Damasco. Tra l’altro i siriani hanno un asset importante da scambiare con i governi occidentali: la loro intelligence ha schedato decine di migliaia di foreign fighters, molti caduti (ma è sempre utile conoscerne le affiliazioni e le ramificazioni familiari), molti altri di ritorno in Occidente. Ma al di là di queste considerazioni, dovremmo porci la domanda che in tanti non hanno avuto il coraggio di formulare: cosa sarebbe accaduto se Damasco fosse caduta? Le porte dell’inferno che momentaneamente si erano aperte a Homs, Aleppo, Raqqa e Maaloula per ora sembrano essersi richiuse e forse gli “studenti di Damasco” torneranno nelle loro classi per costruire il proprio futuro e quello del loro paese.
Tratto da: http://www.tempi.it/aria-di-vittoria-a-damasco
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