Per ragioni storiche l’India ha solidi legami con la Russia, il suo principale fornitore di armamenti e alleato sin dal periodo della Guerra fredda. Le relazioni con la Cina sono molto più complesse, sia per questioni di rivendicazioni territoriali che per le esplicite mire egemoniche di Pechino nel Mar cinese meridionale. Entrambi mirano a guidare il Sud globale ma la loro compresenza in organizzazioni come il G20 e il gruppo dei Brics, sommata agli intensi scambi economici reciproci, rendono molto improbabile uno scontro vero e proprio. Ha fatto scalpore che, pochi giorni prima del G20 di Delhi, il Ministero delle Risorse Naturali cinese abbia pubblicato un documento con rivendicazioni territoriali, che includono aree intorno a Taiwan, in Russia e le zone contese nell’Arunachal Pradesh e nell’altopiano dell’Aksai Chin nel nord dell’India.

L’India è nota per le sue colossali dimensioni, per la sua cultura millenaria, per gli splendidi templi del passato, per essere diventato il Paese più popoloso del mondo, per i suoi filosofi e mistici, per la più grande industria cinematografica esistente nota come Bollywood e per tantissime altre cose. L’India moderna intende ricollegarsi alle sue antiche radici ma non può ignorare che il suo profilo è stato plasmato anche dal ruolo che la Gran Bretagna ha svolto nel subcontinente. Amartya Sen, l’economista e filosofo indiano, premio Nobel nel 1998, pur riconoscendo le oppressioni e lo sfruttamento coloniale, ha ammesso che l’India ha imparato molto dalla cultura industriale e scientifica britannica. Ma non si può dimenticare che l’India del XXI secolo nasce dalle lotte anticoloniali pacifiche di Mohandas Gandhi, più noto come Mahatma (Grande anima). Anche se il pacifismo gandhiano, che è diventato un esempio in tutto il mondo, è stato purtroppo abbandonato da tempo, l’identità indiana contemporanea è radicata nella sua lunga opposizione all’Impero britannico e questo elemento la colloca de facto al fianco di tutti i popoli e le nazioni che lottano per la loro indipendenza politica ed economica.

I rapporti con la Russia

Per capire le ragioni per cui Delhi non ha appoggiato apertamente l’Ucraina è necessario analizzare una serie di fatti storici. Da ex Paese coloniale, l’India è schierata dalla nascita contro l’imperialismo e, pur ricoprendo un ruolo centrale nel Movimento dei Paesi non allineati dal 1955 in poi, ha intessuto relazioni strette con l’Unione Sovietica prima e con la Russia poi, in nome del comune anti imperialismo. Fu l’Unione Sovietica che mediò la pace durante la guerra tra l’India e il Pakistan nel 1965 e che, storicamente, ha fornito gli armamenti a Delhi e l’ha sostenuta diplomaticamente all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Coloro che sono rimasti sorpresi e hanno condannato il rifiuto indiano di imporre sanzioni alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, dovrebbero ricordare che, nel 1998, Mosca si oppose alle sanzioni imposte da Stati Uniti, Giappone e pochi altri Paesi dopo i test nucleari indiani. La diffidenza di Delhi verso le varie amministrazioni USA è spiegata anche dal sostegno, spesso scriteriato, che è stato dato al Pakistan, nemico storico dell’India.

Il 70 per cento degli aerei dell’aviazione militare indiana, il 44 per cento delle navi e dei sottomarini e più del 90 per cento dei veicoli corazzati sono di fabbricazione russa. Delhi ha collaborato con Mosca nella messa a punto di un missile cruise supersonico denominato BrahMos che è già stato esportato nelle Filippine. Ma si cominciano a percepire segnali di cambiamento. Anche se Mosca rimane il principale fornitore di armamenti all’India, negli ultimi dieci anni le vendite sono crollate del 65 per cento, a 1,3 miliardi di dollari, secondo i dati 2022 del SIPRI, un istituto indipendente che monitora il commercio delle armi. Allo stesso modo, la vendita di armamenti statunitensi all’India è aumentata del 58 per cento, raggiungendo i 219 milioni di dollari, un valore molto inferiore ai dati russi ma in ascesa. Inoltre, gli acquisti di armamenti dalla Francia sono cresciuti del 6.000 per cento, fino alla cifra di 1,9 miliardi di dollari, che supera di molto l’ammontare della spesa per armamenti russi.

Il missile cruise BrahMos è uno degli esempi della collaborazione militare indo-russa. Nella foto un esemplare in mostra nel 2007.

Per quanto riguarda i prodotti energetici, Delhi si è avvantaggiata notevolmente dei prezzi scontati del petrolio russo ma a luglio 2023 i suoi acquisti sono diminuiti dell’8 per cento in volume a causa di una diminuzione stagionale della richiesta. Ma oltre a questo aspetto, gli sconti praticati da Mosca sul petrolio sono scesi dell’87 per cento e questo ha reso il barile russo molto meno vantaggioso, anche perché alcuni pagamenti sono stati fatti con yuan cinesi il che, considerando le tensioni crescenti con Pechino, non è certo molto incoraggiante per Delhi. A causa di tutti questi fattori, gli acquisti energetici indiani sono scesi del 13 per cento nell’agosto del 2023, anche se superano ancora del 63 per cento i rifornimenti del 2022. L’India non ha nessuna intenzione di tagliare tutti i ponti, né con la Russia né con la Cina, ma punta a una posizione indipendente di cerniera tra il Nord e il Sud del mondo, avendo ottimi titoli per rappresentare entrambi.

Come è ben comprensibile, l’Ucraina ha molto criticato il rifiuto indiano di invitare il presidente Zelensky a Delhi per il G20, ma è necessario inserire questa scelta in un contesto più ampio. In primo luogo, il mandato di arresto della Corte Penale Internazionale ha fortemente limitato gli spostamenti del presidente russo, che si sta progressivamente trasformando in un paria internazionale. Durante il vertice di Delhi, mentre Modi era al centro dell’attenzione mondiale, Putin incontrava nell’estremo oriente russo il despota nordcoreano Kim Jong-un per discutere di rifornimenti di munizioni al provato esercito russo. Dover elemosinare armamenti a un regime fanatico e oscurantista che non ha quasi relazioni internazionali, non è certo il massimo per una nazione che si descrive come una superpotenza militare che intende incutere timore a tutti. Cercando di garantirsi la partecipazione di Putin al prossimo G20 che si terrà in Brasile, il presidente Lula da Silva ha dichiarato da Delhi che lo zar non deve temere nessun arresto se si recasse in Brasile. Peccato che, quasi immediatamente, Lula ha dovuto rimangiarsi il suo impegno ed è stato costretto a ricordare pubblicamente che, in un Paese democratico, è il potere giudiziario che decide sugli arresti non la presidenza della repubblica.

Cina e India non sono più “fratelli”

Se è vero che India e Cina sono viste come alleati naturali dai Paesi del Sud del mondo che desiderano emanciparsi dalla povertà e dal sottosviluppo, è anche vero che i loro interessi e le loro strategie sono molto divergenti. Al momento dell’indipendenza dell’India nell’agosto del 1947, la Cina era ancora lacerata dalla guerra civile che sarebbe terminata nel 1949, con la presa del potere da parte del Partito comunista cinese guidato da Mao Zedong. Già nell’ottobre del 1949, durante le celebrazioni per la vittoria sulle forze nazionaliste del Kuomintang, Mao dichiarò che ben presto il Tibet sarebbe stato inglobato nella neonata Repubblica popolare cinese e “sottratto una volta per tutte allo sfruttamento da parte dei monaci e alle mire delle nazioni imperialiste”. Così, nell’ottobre del 1950, ingenti forze cinesi invasero il Tibet, travolgendo il piccolo esercito locale e costringendo il Dalai Lama alla fuga e all’esilio.

L’invasione cinese del Tibet fece però scomparire uno storico cuscinetto che separava Cina e India (i cui confini erano stati stabiliti dall’Impero britannico) e questo portò a una serie di tensioni e

Zhou Enlai, Primo ministro cinese dal 1949 al 1976, dichiarò nel 1956 che la Cina non aveva nessuna rivendicazione sul territorio indiano dell’Aksai Chin, mentre operai cinesi costruivano segretamente un’autostrada che collegava l’area al Tibet e alla Cina che l’avrebbe invasa nel 1962.

rivendicazioni territoriali ancora irrisolte e costante fonte di scontri diplomatici e militari. Dopo l’invasione, il Primo ministro indiano Jawaharlal Nehru dichiarò alla stampa internazionale: “Oggi i cinesi si sono presi il Tibet, ovvero il palmo della mano. Domani si prenderanno anche le singole dita”. Questa dichiarazione si rivelò profetica anche se, nonostante tutto, Nehru riteneva che India e Cina avrebbero potuto stabilire una solida amicizia, essendo entrambi Paesi non allineati che si sarebbero ispirati ai “cinque princìpi di pacifica coesistenza” e alla Conferenza di Bandung del 1955, che segnò l’affermazione del movimento dei non allineati sulla scena mondiale. Il 1 luglio 1954 il Primo ministro indiano ufficializza la validità della rivendicazione del territorio di frontiera dell’Aksai Chin. Due anni dopo, il Premier cinese Zhou Enlai dichiara che Pechino non ha alcuna situazione territoriale da dibattere con l’India e non intende rivendicare alcun possedimento. Allo stesso tempo, però, le mappe cinesi mostravano 120mila chilometri quadrati di territorio indiano che erano stati inglobati nella Repubblica popolare.

Era successo che, con una strategia ormai consolidata e costantemente replicata, gli operai cinesi avevano iniziato a costruire un’autostrada nel cuore dell’Aksai Chin, collegando l’area al Tibet e alla regione del Xinjiang. Questo episodio, svelato da rilievi fotografici dell’aviazione americana e, successivamente, dalle mappature cinesi, fece aumentare le tensioni e rese esplicito il fallimento della romantica politica di Nehru denominata Hindi-Chini, bhai-bhai (indiani e cinesi sono fratelli). Le tensioni continuarono ad aumentare, rinfocolate anche dall’ospitalità concessa dall’India al Dalai Lama in esilio, fino a quando, il 20 ottobre 1962, l’esercito cinese lanciò un attacco devastante che colse l’esercito indiano completamente alla sprovvista e mostrò tutta la sua impreparazione logistica. La sconfitta gettò l’India nello sconforto e le costò perdite territoriali pari all’estensione della Svizzera.

La Cina volle dimostrare platealmente la propria superiorità assicurandosi il controllo di un crocevia importante come l’Aksai Chin, invadendo l’Arunachal Pradesh, superando le pendici himalayane e arrivando nella pianura dell’Assam, da cui si ritirò successivamente, in seguito al cessate il fuoco unilaterale del 21 novembre. L’aggressione cinese non ebbe nessun serio contraccolpo internazionale perché coincise con il culmine della crisi missilistica di Cuba, quando il mondo si avvicinò pericolosamente a uno scontro nucleare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. L’espansione territoriale fu completata nel 1963, quando Pechino riuscì a impadronirsi di una parte del Kashmir pakistano. L’unico aspetto positivo della disfatta indiana fu che rivitalizzò il sentimento patriottico e la coesione nazionale, fondamentale in una nazione fortemente frammentata da secoli di colonialismo britannico. Delhi decise anche un riarmo accelerato che, in circa due anni, potenziò notevolmente l’apparato militare consentendo all’India una vittoria durante il successivo conflitto con il Pakistan.

Confermando un atteggiamento di sfrontatezza strategica che caratterizza da tempo la politica estera di Xi Jinping, il 28 agosto 2023, a pochi giorni dell’apertura del vertice del G20 a Delhi, il Ministero delle Risorse Naturali cinese ha pubblicato un documento definito “nuova mappa standard”. In questo documento vengono riproposte le rivendicazioni di una precedente mappa cinese, già respinte dal tribunale dell’ONU per il diritto del mare, che includono territori intorno a Taiwan, in Russia e le aree contese nell’Arunachal Pradesh e nell’altopiano dell’Aksai Chin, nel nord dell’India. In modo molto beffardo, la pubblicazione ha seguìto di pochi giorni l’incontro dei Brics in cui Xi Jinping aveva solennemente dichiarato che “l’egemonismo non è nel DNA della Cina”. Arindam Bagchi, portavoce del Ministero degli esteri indiano, ha dichiarato: “Respingiamo queste rivendicazioni perché non hanno alcun fondamento. Questi passi da parte cinese non fanno altro che complicare la risoluzione della questione dei confini”. L’irritazione è aumentata anche dalla fornitura di armi cinesi al Pakistan, dal sostegno di Pechino alla minoranza musulmana e ai terroristi naxaliti, una formazione maoista che, dagli anni Settanta del secolo sorso, ha esteso le proprie operazioni dal Bengala Occidentale a molti altri Stati dell’India ed è arrivata a rappresentare una delle principali minacce alla sicurezza interna.

India tra Sud e Nord

Già nel 2017 l’India, preoccupata per lo sfrontato espansionismo marittimo della Cina nel Mar cinese meridionale, aveva aderito al Quad (Quadrilateral Security Dialogue), un’alleanza di cui fanno parte USA, Australia e Giappone. Questo, oltre all’annuncio di un potenziamento della marina indiana, è stato un segnale molto chiaro, sia per Xi Jinping che per Putin. È un dato di fatto che la popolazione indiana si sente culturalmente più vicina all’Occidente che a Mosca. Mentre in Russia ci sono circa 14.000 indiani, di cui 4.500 sono studenti, quasi 5 milioni di cittadini originari dell’India vivono negli Stati Uniti, tra cui spiccano Kamala Harris, la vice di Biden, e Ajay Banga, un dirigente d’azienda indiano naturalizzato statunitense che, dal 23 febbraio 2023, guida la Banca Mondiale. Per non parlare di Rishi Sunak, il miliardario di origini indiane che è Primo ministro del Regno Unito. E non dobbiamo poi dimenticare che, per il proprio passato coloniale, l’inglese non solo è parlato in tutto il subcontinente ma, a volte, è il mezzo di comunicazione tra indiani di lingua diversa (ci sono 21 lingue ufficiali e 392 lingue locali).

Anche se Delhi è ancora sospettoso di Washington, storicamente alleato del Pakistan, l’arcinemico da sempre, sono ormai tramontate le speranze indiane di usare la Russia per bilanciare la minaccia cinese. L’avanzato sistema missilistico russo S-400 è stato infatti venduto sia a India che Cina, vanificando così il desiderio di rafforzarsi di Delhi. Gli interessi geopolitici dell’India si sono spostati nella regione dell’Indo-Pacifico, dove l’unico concorrente da confrontare è la Cina, un altro fattore che spinge il Primo ministro Modi a stringere rapporti di cooperazione con l’America e i suoi alleati nel Pacifico, pur mantenendo una collocazione indipendente sullo scacchiere globale. Questo significa che Delhi potrebbe essere un mediatore credibile per una soluzione diplomatica al conflitto che insanguina l’Ucraina.

Nonostante le proteste degli ucraini per non essere stati invitati al G20 di Delhi, l’assenza di Putin, i cui movimenti internazionali sono fortemente limitati, ha evidenziato la sua perdita di influenza a livello mondiale e il suo sostanziale indebolimento. L’India è riuscita a far firmare a Brasile e Sud Africa documenti che, senza arrivare a sostenere le sanzioni contro Mosca, condannano in modo esplicito l’invasione russa. La stessa diplomazia ucraina si è resa conto, dopo lo shock delle numerosissime astensioni al voto di condanna dell’ONU, che doveva cambiare strategia perché il Sud globale non percepiva l’espansionismo del Cremlino nello stesso modo di Stati Uniti ed Europa. Il 9 settembre 2023, durante una conferenza organizzata a Kyiv dalla Fondazione Viktor Pintchouk, Oleksandr Korniyenko, vice presidente del parlamento ucraino, ha dichiarato: “Non ci aspettavamo minimamente astensioni cosi elevate e ci siamo resi conto che dovevamo iniziare a riflettere su un cambio di strategia” per convincere i Paesi che avevano assunto un atteggiamento equidistante. Cercando di riguadagnare il terreno perduto, negli ultimi mesi il Ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba ha visitato dodici Paesi africani e invitato in ucraina giornalisti latino americani e africani.

L’indiano, naturalizzato americano, Ajay Banga è presidente della Banca mondiale, chiamata a svolgere un ruolo crescente nel finanziare grandi reti infrastrutturali nei Paesi in via di sviluppo.

Nella situazione attuale l’India non ha grandi possibilità di mediare nel conflitto ucraino, ma è certamente in una posizione centrale tra i Paesi del Sud del mondo per rilanciare una politica di grandi progetti di sviluppo infrastrutturale ai quali l’Occidente si è dimostrato poco interessato negli ultimi decenni e che potrebbero certamente contribuire a svelenire il clima internazionale e modificare la percezione che il Sud globale ha dei Paesi occidentali. Nel discorso di Biden al G20 un ruolo importante è stato affidato alla Banca mondiale, guidata dall’indiano Ajay Banga e quindi anche nel prossimo futuro Delhi ha molte carte da giocare. Un limite all’influenza internazionale dell’India è però rappresentato dal nazionalismo indù che non solo tende a limitare i diritti della popolazione di religione musulmana, ma può rendere più difficili i rapporti con Stati potenzialmente alleati come l’Indonesia, che è il Paese musulmano più popoloso al mondo.

Il prossimo anno lo scenario potrebbe cambiare a causa delle elezioni negli Stati Uniti, in India, e in Europa. Ma la nascita di un G20 allargato, con una sostanziale partecipazione dei Paesi del Sud del mondo, apre ottime prospettive di cooperazione economica con l’ASEAN, con i Paesi dell’America Latina (il Brasile è parte del G20 e dei Brics) e con la Cina stessa che potrebbe accedere a un mercato immenso ma sarebbe anche costretta a rispettare le regole dell’onesta concorrenza commerciale, senza rubare i brevetti, copiare in modo truffaldino i prodotti altrui, obbligare gli investitori in Cina a cedere il proprio know-how. L’unica costante dei vari scenari è la presenza dell’India, a cui dovremmo abituarci a pensare come a una potenza globale (in fieri) che, a differenza della Cina, non ha mire egemoniche e può rappresentare un utile fattore di dialogo tra Nord e Sud del mondo in un contesto sempre più multipolare.
(fine)
(La foto di copertina ritrae Jawaharlal Nehru, che sarebbe diventato Primo ministro al momento dell’indipendenza, col Mahatma Gandhi nel 1937)

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