di Galliano Maria Speri
Il 16, 23 e 31 maggio 2018, il Centro Astalli, sezione italiana del Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, ha organizzato presso la Pontificia Università Gregoriana un corso di formazione su “Sviluppi e scenari della politica europea sulle migrazioni”. Le tre giornate di studio e approfondimento, rivolte agli operatori, ai giornalisti e ai cittadini interessati, hanno dato un importante contributo di comprensione a un fenomeno drammatico e complesso che però arriva in modo totalmente falsato e distorto alla popolazione che ha una percezione del fenomeno che non corrisponde ai fatti reali.
“L’Europa mi ha accolto, nonostante le resistenze, le chiusure, i muri, nonostante avrebbe preferito non farlo. L’Europa accoglie ogni giorno me e tanti rifugiati che non si lasciano fermare. Perché a scappare dalla morte si impara in fretta e un muro, un filo spinato, il mare, anche se d’inverno, come è successo a me, non fanno paura a chi non ha più nulla da perdere”. Ogni incontro è stato introdotto da P. Camillo Ripamonti, Presidente del Centro Astalli, e dalle parole di un migrante: quelle riportate sopra sono di Soumaila, rifugiato dal Mali. La breve testimonianza di un rifugiato all’inizio di ogni incontro aveva la funzione cruciale di trasformare dati, cifre, analisi e statistiche in carne e sangue, perché i numeri, anche se impressionanti, non possono mai rendere tangibilmente il senso di questo fenomeno di dimensioni epocali.
Il titolo dell’iniziativa “Aiutiamoli a casa loro?” intende sottolineare, non troppo nascostamente, l’ipocrisia del nostro continente che si riempie la bocca di paroloni sulla grande tradizione di civiltà di cui siamo eredi e portavoce ma che, di fronte al più esteso fenomeno di migrazione dalla Seconda guerra mondiale, non si dimostra in grado di elaborare strategie adeguate per dare una risposta alla crisi migratoria attuale. Tutti si dichiarano d’accordo a modificare il Trattato di Dublino, che obbliga il Paese di prima accoglienza a farsi carico dei richiedenti asilo, ma una sua modifica che redistribuisca i migranti tra tutti i membri della UE diventa sempre più difficile e questo lascia tutto il carico sulle spalle di Italia e Grecia, i primi Paesi in cui arrivano coloro che fuggono da guerre, fame e disastri naturali. Al contrario, ci sono segnali preoccupanti di una progressiva chiusura verso coloro che bussano alle porte dell’Europa.
Casa loro. Il caso dell’Afghanistan
Durante il primo incontro, intitolato “Casa loro”, il prof. Christopher Hein, docente alla LUISS, ha analizzato come sta cambiando la politica dell’accoglienza dell’Unione Europea, dopo il trauma del 2015 quando arrivarono 1,6 milioni di migranti. In pratica le varie proposte di riforma del diritto d’asilo mirano semplicemente a scoraggiare e rendere meno desiderabile il continente europeo. Va in questa direzione l’accordo siglato il 18 marzo 2016 con la Turchia che, in cambio di 3 miliardi di euro, si è impegnata a trattenere sul proprio suolo i disperati in fuga dalla guerra civile siriana. La nuova strategia si basa su una “esternalizzazione” del problema che viene affidato a Paesi che non danno molte garanzie democratiche e non vanno troppo per il sottile quando si tratta di rispetto dei diritti umani. L’Unione Europea ha elaborato il concetto giuridico di “Paese di origine sicuro” che viene definito così sulla carta per cui tutti i migranti che fuggono da tale Paese perdono automaticamente il diritto di chiedere l’asilo politico in Europa.
Questo concetto è stato poi approfondito dal giornalista della RAI Nico Piro che ha ricordato come nel dicembre del 2014 la guerra in Afghanistan è stata dichiarata ufficialmente finita e quindi il Paese è diventato formalmente “sicuro”. Il dramma è che non solo non regna la pace ma che ogni anno ci sono più di 10mila morti. Nonostante questo, l’Unione Europea ha stretto un accordo con l’Afghanistan per facilitare il rimpatrio di migliaia di richiedenti asilo che rischiano di essere rispediti a casa in un contesto di grande pericolo personale. Piro ha poi tracciato un quadro preciso della politica fallimentare dell’Occidente che ha riversato nel Paese miliardi di dollari che sono però finiti per la maggior parte nelle tasche di politici corrotti e non hanno contribuito alla nascita di un’industria locale e all’innesco di un processo di sviluppo economico. Oggi l’Afghanistan è invaso da merci cinesi e pachistane e l’unica industria locale che prospera è la coltivazione dell’oppio che è aumentata dell’87%. Secondo il giornalista, c’è il rischio concreto che il Paese diventi una nuova base terroristica, grazie ai fanatici islamici che arrivano a frotte dalle ex repubbliche sovietiche. Piro ha ricordato anche il ruolo negativo del Pakistan che fa di tutto per mantenere l’Afghanistan instabile poiché teme che, una volta raggiunto un equilibrio politico, l’etnia pashtun maggioritaria possa rivendicare alcuni territori pakistani abitati dalla stessa etnia. Finita la presentazione, un partecipante ha chiesto chi fossero i finanziatori del terrorismo e Piro ha risposto senza troppi giri di parole che i soldi arrivano dai Paesi del Golfo (gli stessi che hanno rotto con il Qatar accusato di “finanziare il terrorismo internazionale”), mentre le armi provengono dal Pakistan tramite i potentissimi servizi segreti locali. Il giornalista RAI ha poi ricordato come l’Italia, che ha un numeroso contingente militare sul territorio, potrebbe giocare un importante ruolo diplomatico ma non è in grado di farlo perché non ha mai elaborato una vera e propria politica estera.
Casa Libia
L’incontro del 23 maggio è stato dedicato alla Libia e ha visto la partecipazione del giornalista di Avvenire Nello Scavo e di Francesco Petrelli, portavoce di Concord Italia e membro di Oxfam. Il 2 febbraio 2017 l’Italia firma un memorandum di intesa con il governo libico che ha lo scopo di limitare gli arrivi sul nostro territorio ma mira anche a rafforzare il ruolo di interlocutore privilegiato che giochiamo nel Paese africano. Nelle tre pagine del testo, però, non sono mai citate le parole “diritti umani” e il governo libico non si assume nessun impegno a tale proposito. Un secondo punto critico è rappresentato dal fatto che il governo di al-Sarraj, riconosciuto internazionalmente ma con uno scarsissimo controllo del territorio, non è stato obbligato alla firma della Convenzione di Ginevra. Scavo ha ricordato che, grazie a questo accordo, nel 2018 sono arrivati in Italia il 75% in meno di migranti ma questo non può farci gioire perché i centri di detenzione libici sono simili a campi di concentramento dove vengono perpetrati stupri e violenze inimmaginabili contro i migranti, soprattutto provenienti dall’Africa sub-sahariana. Su questo aspetto non ci possono essere dubbi, dopo la diffusione di un rapporto del segretario generale dell’ONU, trasmesso al Consiglio di sicurezza il 12 febbraio di quest’anno, secondo il quale “i migranti sono stati sottoposti a detenzione arbitraria e torture, tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale”. Gli aguzzini indossano molto spesso una divisa appartenente a una delle forze armate finanziate anche dall’Italia e dall’Europa. “I perpetratori – assicura il segretario generale – sono funzionari statali, gruppi armati, contrabbandieri e bande criminali”.
La grande ipocrisia dell’accordo italiano con la Libia è emersa esplicitamente il 7 giugno scorso quando l’ONU ha imposto sanzioni personali contro sei personaggi che hanno avuto un ruolo centrale nella firma degli accordi, come Abd Al Rahman al-Milad, capo della Guardia costiera libica a Zawiyah o Abu-Qarin, l’organizzatore del viaggio dalla Libia verso l’Italia del 18 aprile 2015. In quell’occasione il barcone di circa 20 metri, sovraccarico di disperati, fece una manovra sbagliata e provocò una collisione con il mercantile King Jacob, che si era avvicinato per prestare aiuto. I superstiti furono 28 e morirono circa 800 persone, anche se un sopravvissuto parla di 950 passeggeri a bordo. È la più grave sciagura del mare dal dopoguerra, peggiore anche della strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando perirono 366 migranti. Scavo ha poi raccontato del suo incontro toccante con una ragazza nigeriana, lacera e incredibilmente sporca, che faceva di tutto per avere un aspetto repellente e disgustoso nel tentativo disperato di evitare di essere stuprata. “Voglio essere più brutta possibile”, aveva confessato in lacrime. Il giornalista di Avvenire ha poi continuato dicendo che la vera posta in gioco in Libia sono i 168 miliardi di dollari della famiglia Gheddafi su cui tutte le fazioni in lotta vogliono mettere le mani. Francesco Petrelli ha ricordato che nel 2015 il Parlamento europeo votò una risoluzione per la distribuzione e l’accoglienza dei migranti tra i vari Paesi UE che è però rimasta semplicemente lettera morta. L’oratore ha poi invitato a non usare il termine “populismo” ma quelli più corretti e aderenti alla realtà di “razzismo, sovranismo o xenofobia”, visto anche il ruolo attivo giocato da queste forze nella criminalizzazione delle ONG che si occupano di migranti e dell’impatto devastante di definizioni come “taxi del mare” usate dall’on. Di Maio.
Casa Europa
Il principale relatore dell’ultimo incontro è stato Enrico Letta, ex Primo ministro italiano e attualmente presidente dell’Istituto Delors di Parigi, che ha risposto alle domande di P. Camillo Ripamonti.
Letta è stato presentato come “professor Letta” e certamente questo titolo gli si addice perfettamente poiché ha usato toni pacati, un argomentare rispettoso e coerente, ricorrendo alle uniche armi della dialettica e del ragionamento. È chiaro che Letta si distingue dalla classe dei politici, visto che rifugge dal linguaggio rozzo e semplicistico, non criminalizza chi non concorda con le sue tesi e non usa mai argomenti demagogici. L’oratore ha toccato immediatamente il cuore della questione quando ha analizzato la differenza tra percezione e realtà che si ha in Europa sul tema delle migrazioni. I dati statistici dimostrano che la percezione dei cittadini sulle migrazioni è il doppio del fenomeno reale, tanto che è ormai invalso l’uso del termine “invasione” che però non ha alcun riscontro nei fatti. Molto saggiamente però, Letta ha affermato che prima di ogni elaborazione politica sia necessario un lungo e complesso lavoro da fare sulla società per ristabilire il ruolo della verità.
Il “professore” ha ricordato come inizialmente la politica migratoria riguardi soprattutto l’allargamento ad Est dell’Unione. Non è infatti un caso che la sede di Frontex, l’organismo europeo che deve occuparsi di migrazioni, viene collocata a Varsavia per fronteggiare i milioni di migranti economici che fuggono dai Paesi ex comunisti verso la prosperità dell’Ovest. “Le cosiddette “primavere arabe” – ha proseguito Letta – hanno invece rimesso tutto in discussione e oggi la grande ondata migratoria arriva dal Medio Oriente e dall’Africa. Da tre anni a questa parte, la quasi totalità dei richiedenti asilo proviene da Siria, Irak e Afghanistan e in questo caso non possiamo tacere le gravi colpe dell’Occidente”. L’unico caso di “invasione” si è verificato nel 2015, quando quasi un milione di siriani giunse in Germania, che però riuscì a gestire l’impatto e mettere in atto politiche di accoglienza e integrazione. Il presidente dell’Istituto Delors ha sottolineato come le crisi migratorie acute vadano gestite immediatamente con misure adeguate, poiché ogni scelta dilatoria non fa altro che peggiorare la situazione e viene sfruttata dai movimenti xenofobi. L’esempio del Regno Unito è emblematico perché, pur non avendo alcun migrante che premeva sul suo territorio, le immagini della cosiddetta “giungla” di Calais o quelle di Lampedusa hanno contribuito alla Brexit, “un evento catastrofico – ha affermato Letta – anche per l’Italia. Quell’ondata migratoria avrebbe potuto dimostrare l’insostituibilità dell’Europa, ma purtroppo non è andata così”. L’ex premier ha poi puntualizzato che è molto importante non far confusione tra “Europa” e “Paesi europei”. Sono i singoli Paesi che hanno messo il veto sulle decisioni e sulle riforme che avrebbero dovuto affrontare l’immigrazione, per cui il problema non è l’Europa, diventata una specie di capro espiatorio per qualunque guaio nazionale, ma la non-Europa voluta da molti Paesi, tra cui l’Italia, che si sono rifiutati di concedere le deleghe necessarie.
Alla fine dell’intervento, in risposta alle domande del pubblico, Letta ha prospettato le scelte necessarie per affrontare i problemi futuri: “In primo luogo, sarà molto importante superare il dualismo Stati-Europa. Inoltre, la prossima Commissione europea dovrà creare un organismo di peso che si occupi di migrazioni. Bisognerà mettere a punto adeguate politiche di integrazione e sarà fondamentale costruire una via legale europea per le migrazioni, con un percorso selettivo. Voglio inoltre evidenziare che nei prossimi trent’anni l’Africa raddoppierà la propria popolazione mentre l’Europa la vedrà diminuire. Se aggiungiamo a questa prospettiva le migrazioni dovute ai cambiamenti climatici il quadro diventa drammatico. L’Europa si è dotata di un fondo comune per affrontare le crisi economiche, mentre non possiede ancora nessuno strumento per una questione strategica come le migrazioni”. Un esempio di non-Europa è la “totale assenza di una politica verso la Tunisia, l’unico Paese arabo che ha fatto un percorso positivo ma che viene lasciato completamente solo ad affrontare i propri problemi”. Il tema dell’immigrazione è diventato oggi, anche per colpa dei mezzi di comunicazione pigri e, a volte, succubi, una questione che incide profondamente sulle grandi scelte che abbiamo di fronte ma non dobbiamo dimenticare, come ha ricordato Letta, che l’Europa ha circa 500 milioni di abitanti ed è l’area economicamente più prospera e stabile del mondo. Possiamo davvero farci terrorizzare dall’arrivo di qualche milione di persone in cerca di un futuro dignitoso per sé e per i propri figli?
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