Il 7 ottobre 2023 Hamas ha lanciato un attacco terroristico contro lo Stato ebraico che ha fatto 1.139 vittime e ha portato al rapimento di 233 ostaggi, di cui 139 (vivi o morti) sono ancora a Gaza. La sanguinaria risposta israeliana ha ucciso finora quasi 35.000 palestinesi, ma la vittima principale è stato il sistema del diritto internazionale che fa capo all’ONU. Il premier Netanyahu, disperatamente abbarbicato alla poltrona, sta guidando il Paese alla “vittoria finale” su Hamas, indifferente agli appelli alla moderazione di USA ed Europa. La tolleranza verso i crimini di guerra israeliani sta smascherando l’ipocrisia della politica di difesa dei “diritti umani” e rende sempre più attrattivi per il Sud del mondo i nemici dei sistemi democratici occidentali.
Il 27 ottobre 2023, lo stesso giorno in cui l’esercito israeliano entrava a Gaza, l’Assemblea generale dell’ONU, su proposta della Giordania, votava la risoluzione ES-10/22 che chiedeva una tregua umanitaria immediata. La risoluzione veniva approvata con 121 voti a favore, 14 contrari e 44 astensioni. Le nude cifre non danno l’idea del consenso, ma se guardiamo la cartina che riassume il voto riprodotta nell’immagine di copertina, ci rendiamo conto che la stragrande maggioranza del mondo è contraria a come lo Stato ebraico esercita il suo diritto alla difesa, un mantra che ha coperto negli anni crimini orribili. Israele non è mai stato così isolato a livello internazionale e gli Stati Uniti, che ne sostengono nei fatti la politica militare, mostrano al mondo una netta divaricazione tra i princìpi democratici alla base della loro nascita e il sostanziale appoggio a una inaccettabile politica di pulizia etnica che viola qualunque disposizione della legge internazionale. Il fatto che gli Stati Uniti usino costantemente il loro potere di veto per difendere, sempre e comunque, Israele condanna l’ONU all’irrilevanza. Prima dell’invasione di Gaza si era levata qualche voce più razionale, ma non è servita a molto.
Esistono ancora i diritti umani?
Il 14 ottobre dello scorso anno, Marc Lynch ha pubblicato una lucida analisi sull’autorevole rivista statunitense Foreign Affairs in cui affermava: «L’imminente invasione di Gaza sarà una catastrofe umanitaria, morale e strategica. Non solo indebolirà la strategia di sicurezza a lungo termine di Israele e infliggerà profondissimi costi umani ai palestinesi, ma minaccia anche interessi cruciali degli Stati Uniti in Medio Oriente, in Ucraina, e anche la competizione di Washington con la Cina per l’ordine nell’Indo-Pacifico». Sono trascorsi sei mesi e, puntualmente, tutti le ipotesi formulate da Lynch si sono verificate. Quattro giorni dopo, lo stesso Biden, parlando a Tel Aviv durante un viaggio lampo nella regione, aveva esortato Israele a non farsi “consumare” dalla rabbia durante la propria risposta e a non “commettere gli stessi errori” degli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. I fatti dimostrano che il governo Netanyahu, sotto la spinta dell’estrema destra che esprime due ministri di peso, non si cura minimamente di quello che pensa il resto del mondo e che può tranquillamente proseguire nella sua strategia di pulizia etnica per espellere la popolazione palestinese da Gaza e dalla Cisgiordania, anche se questo significa violare ogni principio umanitario che si è affermato dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Purtroppo, la carneficina attualmente in corso a Gaza dimostra ampiamente che diventa sempre più difficile parlare di legge internazionale e di rispetto dei diritti perché gli Stati Uniti (e, a ruota, l’Europa) applicano un ipocrita sistema di “due pesi e due misure” per giudicare i reati commessi. Ci sono “massacri di prima classe”, che risvegliano l’orrore e il biasimo della cosiddetta opinione pubblica mondiale, e “massacri di seconda classe”, che cadono nel silenzio e vengono subito accantonati. Faccio un esempio per rendere tangibile quello di cui sto parlando. Nel marzo del 2022, durante l’occupazione russa della località ucraina di Buča vennero commesse terribili atrocità contro la popolazione civile, mutilazioni, torture, esecuzioni sommarie di persone che erano andate a fare la spesa e seguire tutte le piccole incombenze della vita quotidiana. Dopo la liberazione della città da parte delle truppe ucraine, fu scoperta una fossa comune con i cadaveri di 280 persone, secondo Anatoly Fedoruk, sindaco della cittadina.
Dopo il ritiro delle truppe israeliane dalla cittadina di Khan Yunis il 7 aprile, nei pressi dell’ospedale Nasser è stata scoperta una fossa comune con 310 cadaveri in avanzato stato di decomposizione, tanto da rendere quasi impossibile il riconoscimento. Secondo Raed Saqr, un portavoce della Protezione civile palestinese che ha parlato con l’emittente USA CNN, si stanno ancora cercando i corpi di altre 400 persone scomparse. Molti dei corpi erano stati seppelliti a gennaio dai parenti nel cortile dell’ospedale in modo provvisorio. Dopo il ritiro dell’esercito israeliano, i parenti sono ritornati nell’area dell’ospedale e hanno scoperto che i corpi era stati riesumati e sottoposti a un test del DNA (compiuto spedendo i cadaveri in Israele) per individuare l’eventuale presenza di ostaggi israeliani. Un portavoce dell’esercito ha dichiarato: «Gli esami sono stati fatti in modo rispettoso e salvaguardando la dignità dei deceduti. I cadaveri esaminati, che non facevano parte degli ostaggi, sono stati riportati sul luogo del prelievo».
Un palestinese che ha parlato alla CNN ha detto di aver seppellito suo fratello Alaa vicino a una palma abbattuta, ma non lo trova più perché il corpo è stato spostato dagli israeliani. Le affermazioni di fonte palestinese secondo le quali alcune vittime avevano le mani legate dietro la schiena prima di essere uccise non sono state confermate. Ma è un dato di fatto che tutte le vittime palestinesi sono morte sotto i missili, i droni, le bombe e le cannonate degli israeliani, vittime collaterali di una strategia spietata e fallimentare per distruggere Hamas. Per dare un’idea della scala del massacro, in sei mesi le vittime palestinesi sono arrivate a quasi 35.000, il numero di abitanti di una cittadina come Spoleto, mentre i morti civili ucraini, in oltre due anni di guerra, sono stati 30.457 (dati dell’OHCHR, l’Alto commissariato dell’ONU per i diritti umani).
L’irrilevanza dell’ONU
Dal 1947 a oggi il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha formulato circa una settantina di risoluzioni di condanna di Israele. Altre 29 risoluzioni sono state bloccate dal veto degli Stati Uniti perché considerate lesive degli interessi dello Stato ebraico. Si parte dalla risoluzione 194 del 1947 che riconosce ai profughi palestinesi il diritto di tornare sulle proprie terre, fino alla Risoluzione 2728 del 25 marzo 2024 in cui, per la prima volta, gli Stati Uniti si sono astenuti, consentendo l’approvazione della risoluzione. Qualche analista ha visto in questa astensione un evento storico, un segnale minaccioso rivolto a Israele, l’inizio di un cambiamento di atteggiamento. Non è proprio così, visto che il 20 aprile la Camera di Washington ha approvato un colossale pacchetto di aiuti per 95 miliardi di dollari, passato poi al Senato e già firmato dal presidente Biden. L’Ucraina riceverà 61 miliardi di dollari, Taiwan 8 e Israele ben 26 miliardi. Niente male come risultato, dopo aver messo Gaza a ferro e fuoco e bloccato l’arrivo di aiuti umanitari ai palestinesi. Diversi funzionari ONU hanno denunciato che l’uso della fame come arma di guerra è un crimine contro l’umanità, gli USA hanno chiesto decine di volte di aprire nuovi varchi per consentire l’arrivo di aiuti a una popolazione che sta letteralmente morendo di fame e di sete. Nulla è cambiato.
Israele non solo non ha mai rispettato le risoluzioni dell’ONU ma ha attaccato ripetutamente l’unico organismo riconosciuto a livello internazionale. A gennaio 2024 il governo israeliano aveva accusato l’Unrwa, l’Agenzia dell’ONU per gli aiuti ai palestinesi, di complicità nell’attacco terroristico del 7 ottobre. Questa accusa gravissima ha causato un crollo drammatico nei finanziamenti e peggiorato una situazione che è già tragica. Dopo le pesanti accuse di Israele, l’ONU ha nominato una commissione di inchiesta per accertare i fatti, presieduta da Catherine Colonna, ex ministro degli Esteri francese. Il rapporto Colonna, diffuso il 22 aprile 2024, e che si è avvalso del supporto di tre importanti istituzioni nordeuropee, non ha trovato elementi che facciano venir meno la neutralità dell’Unrwa e ha definito quell’organismo «insostituibile e indispensabile per lo sviluppo umano ed economico palestinese». Secondo gli estensori, l’Unrwa ha fornito regolarmente a Israele la lista dei propri collaboratori per i controlli del caso e che «il governo israeliano non ha mai informato l’Unrwa di qualunque preoccupazione sui collaboratori dell’organismo dal 2011». Il rapporto precisa inoltre che, dopo molti mesi, il governo israeliano non è riuscito a fornire alcun elemento concreto per suffragare le sue accuse che vanno quindi ritenute inconsistenti.
È vero che, nei decenni, gli israeliani si sono fatti una solida fama di grandi esperti nel combattere il terrorismo ma, il fallimento drammatico del 7 ottobre, dimostra che tale fama è ampiamente immeritata. Tutti gli apparati statali israeliani, dal governo, all’esercito, ai servizi segreti si sono fatti cogliere impreparati e non si capisce su quale base pretendano di dare lezioni di antiterrorismo al resto del mondo. Tel Aviv si è comportata spesso in modo grezzo, aggressivo e controproducente. L’ultimo esempio è il messaggio diffuso il 21 aprile su X (ex twitter) da Israel Katz, ministro degli Esteri dello Stato ebraico. Per sensibilizzare il mondo sul pericolo terroristico proveniente dall’Iran, Katz non ha trovato niente di meglio che mettere in rete un’immagine del Colosseo e della Torre Eiffel che stanno per essere colpiti da diversi missili. Il testo dice: «Il recente attacco dell’Iran a Israele è solo un’anteprima di ciò che le città di tutto il mondo possono aspettarsi se il regime iraniano non verrà fermato. Il mondo deve designare l’IRGC (l’esercito iraniano) come organizzazione terroristica e sanzionare il programma iraniano di missili balistici, prima che sia troppo tardi». Forse Katz non lo sa, ma l’Italia ha avuto un serio problema col terrorismo eversivo e lo ha risolto usando metodi democratici, senza ricorrere a bombardamenti di massa.
Prime dimissioni
In Israele, dopo la tragedia del 7 ottobre ci sono costantemente dimostrazioni di protesta che chiedono misure concrete per il ritorno degli ostaggi. Il premier Netanyahu, il principale responsabile di quanto è accaduto, sembra ancora saldamente al potere e, facendo appello alla situazione di guerra, punta a protrarre le ostilità per arrivare a novembre, quando spera nel ritorno di Trump alla presidenza USA. Dal novembre dello scorso anno, il leader dell’opposizione Yair Lapid chiede le dimissioni del primo ministro, ma Netanyahu fa orecchie da mercante. Il 22 aprile Lapid è tornato nuovamente alla carica, dopo le dimissioni del maggior generale Aharon Haliva, capo dei servizi segreti militari. Haliva ha dichiarato: «La direzione dell’intelligence sotto il mio comando non è stata all’altezza del compito ricevuto… porterò sempre con me il dolore terribile della guerra». A dicembre 2023 il New York Times riferiva che Israele aveva ricevuto i piani di attacco di Hamas con un anno di anticipo, ma i servizi segreti lo avevano ritenuto un sogno a occhi aperti e di realizzazione troppo difficile per il gruppo terroristico.
Secondo la rete pubblica israeliana KAN un secondo militare, il maggior generale Yehuda Fox, a capo del Comando centrale che include la Cisgiordania, ha annunciato l’intenzione di dimettersi ad agosto, senza entrare dei dettagli delle motivazioni. Ma le critiche più forti sono venute da Yitzhak Brik, un esperto militare e generale in pensione, che il 21 aprile ha concesso un’intervista al sito di notizie Maariv. Brik ha dichiarato: «Israele deve proclamare la fine della guerra; in ogni caso abbiamo le truppe fuori da Gaza. Non c’è modo di distruggere Hamas completamente ed entrare a Rafah non aiuterà granché. Se non si capisce questo principio abbiamo già perso». Il 24 febbraio 2024, sempre parlando a Maariv, Brik aveva denunciato i problemi che affliggevano l’esercito. «C’è il caos totale –aveva dichiarato il generale– equipaggiamenti, logistica, cibo e tutto il necessario per avanzare non funzionano, perché l’esercito ha affidato il compito a imprese private».
Nonostante le proteste interne e le dichiarazioni critiche dell’amministrazione USA, il voto bipartisan sugli armamenti a Israele
mostra che quelle di Biden sono solo chiacchiere. L’attuale governo di Tel Aviv non sembra nemmeno troppo preoccupato dalla ventilata minaccia di applicare sanzioni contro il battaglione Netzah Yehuda, l’unità dell’esercito formata da ebrei ortodossi che opera in Cisgiordania, ripetutamente accusato di violazioni dei diritti umani. Il 21 aprile Netanyahu ha dichiarato che si «batterà con tutte le forze» contro qualunque piano di tagliare gli aiuti all’unità da parte degli Stati Uniti. Gli ha fatto eco il ministro della Difesa Yoav Gallant che ha chiesto agli USA di fare marcia indietro affermando che mai come ora il mondo sta osservando le relazioni tra Israele e gli Stati Uniti. «Qualunque tentativo di criticare un’intera unità -ha continuato Gallant- getta un’ombra pesante sulle azioni dell’esercito» e ha aggiunto che «questo non è il percorso giusto per chi è partner e amico».
Il segretario di Stato Anthony Blinken ha dichiarato che sul battaglione Netzah Yehuda «ho già preso una decisione e ne vedrete i risultati nei prossimi giorni». Noi aspettiamo con fiducia ma non è mai successo prima che gli Stati Uniti sospendessero gli aiuti militari all’esercito israeliano e, visti i precedenti, c’è il serio rischio che questa sia la solita aria fritta. In realtà, se volesse, la Casa Bianca ha lo strumento perfetto per trasformare le proprie parole in azioni grazie alla “Legge Leahy” del 1997, voluta dall’allora senatore Patrick Leahy. La legge vieta il finanziamento o l’addestramento di unità militari straniere che siano implicate in gravi violazioni dei diritti umani. Nel frattempo, l’ONU continua a lanciare inutili appelli per una tregua umanitaria a Gaza che convincono sempre di più i Paesi del sud globale che dall’Occidente c’è poco da aspettarsi.
(Il grafico di copertina è stato realizzato dall’ISPI)
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