È passato alla storia come “il Braghettone”.
Daniele Ricciarelli avrebbe una sua carriera di artista con opere di rilevanza oggi esposte in vari musei, ma la sua opera più famosa è destinata a rimanere quella relativa alle velature disposte nel 1565 sulle parti sensibili dei nudi dipinti da Michelangelo nella cappella Sistina: in ossequio alle delibere del Concilio Tridentino. In un’epoca che pure riaffermava la rilevanza della corporeità (non solo nella transustanziazione, ma anche nella bellezza e abbondanza delle forme ricercata dal Barocco) in contrapposizione con la nuda spiritualità presentata dalle famiglie Protestanti (non solo nel rito ma anche nell’architettura e nell’arte).
Si pensa a questo nel vedere le scatole frettolosamente approntate per occultare le nudità presentate nelle statue dei Musei Capitolini, quali la formosa “Venera Capitolina”, per non offendere la sensiblità del Presidente iraniano Hassan Rohani in visita a fine gennaio 2016. La cosa ha sollevato un vespaio: indignazione per quella che alcuni presentano come un sottomettersi a una cultura aliena.
Ma d’altro canto lo dice la Bibbia: ad Adamo ed Eva accadde che, mangiata la mela, “… si aprirono gli occhi… e si accorsero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture” (Gen 3, 7). Ergo: conscenza e vergogna sono equiparate.
Non è così nella tradizione greca: e le statue dei musei capitolini derivano da questa tradizione.
La nostra “tradizione” attuale è frutto delle divese contaminazioni avvenute nel tempo, del sommarsi di diverse tendenze, e di rivoluzioni nel pensiero e nel modo di comportarsi. Nella cinematografia e nelle televisione del secondo dopoguerra vigeva un preciso codice censorio che evitava l’esposizione di nudità: la cosa è cambiata negli anni Settanta e Ottanta con l’irrompere del femminismo e del relativismo.
Ogni manifestazione culturale sul sorgere tende a estremizzare: la novità colpisce e infimma, provoca passioni e da queste nascono le contrapposizioni. L’affermazione di un’identià culturale si fonda spesso sulla sottolineatura delle diversità. Poi col tempo l’animosità si stempera e subentra l’abitudine.
Certo oggi nessuno a Roma, né alcuno nell’enclave vaticana, si sognerebbe di mettere in campo il Braghettone per censurare Michelangelo, ma a metà del ‘500 la cosa evidentemente parve non solo opportuna ma doverosa.
Nell’iniziativa di facilitare la visita di Rohani limando aspetti che avrebbero potuto essere fonte di imbarazzo, in fondo c’è rispetto per l’alterità: e anzitutto il rispetto è dovere dell’ospitante. Che l’ospite sia tenuto come sacro è tradizione antica e diffusa in diverse culture.
Mostrando rispetto è poi legittimo che la risposta sia pure di ottenere rispetto: che valga al reciprocità.
D’altro canto anche l’ondata di critica cui è stata sottoposta la decisione di occultare le statue potenzialmente “imbarazzanti” è parte di un fenomeno culturale tipicamente nostrano: alzare forti grida per qualsiasi idiozia avvenga soprattutto se ha a che vedere con aspetti spettacolari, e magari far passare inosservati fenomeni di maggionre rilevanza.
Nel caso della visita di Rohani il fenomeno maggiore è il consolidarsi di un legme che s’è mantenuto nel tempo tra Italia e Iran pur nei momenti di maggiore difficoltà seguiti alla Rivoluzione khomeinista del ’79; è la visita stessa e l’incontro con papa Francesco. Questi son fatti che segnano il procedere di un cammino di intesa di rilevanza storica, che non riguardano solo le forniture di petrolio o altri accordi commerciali, ma riguardano il dialogo tra popoli e culture.
Diverte chiedersi che cosa penseranno gli Iraniani, sia del gesto di riverenza offerto con l’occultamento delle statue minacciose, sia dell’arruffar di penne sollevato dal medesimo. Sono entrambi fenomeni culturali tipicamente nostrani. Magari tra qualche anno li vedremo non tanto dissimili anche a Teheran… (LS)
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