Come ci ha insegnato Machiavelli, non dovremmo mai confondere i nostri desideri con il mondo reale per cui è necessario guardare agli eventi con occhi sgombri da pregiudizi. Un saggio, inquietante e controintuitivo, ricostruisce con perizia un quadro globale in cui la distinzione tra pace e guerra comincia a perdere di significato e la rete di interconnessione, che avrebbe dovuto creare un mondo piatto e progressivamente democratico, si sta invece rivelando come un fattore di divisione e rivalità.

Il 24 febbraio 2022, inizio dell’infausta invasione russa dell’Ucraina, verrà probabilmente ricordato nei libri di storia non solo come il ritorno di una guerra su larga scala in Europa, ma come uno spartiacque negli eventi mondiali che ha contribuito a far evaporare le illusioni su una realtà globale che marcia sicura verso la prosperità e la coesistenza pacifica. Non solo ci troviamo di fronte a un cambiamento climatico sempre più grave, ma ci dibattiamo in una profonda crisi politica, esacerbata proprio dalla connettività che ha reso il mondo più piccolo e collegato. Questa è la tesi dell’ultimo lavoro di Mark Leonard, il politologo britannico che ha fondato nel 2007 lo European Council on Foreign Relations e di cui è tutt’ora il direttore esecutivo. La distinzione tra guerra e pace rischia di diventare obsoleta perché, come ci dimostra l’invasione dell’Ucraina, si possono avere conflitti senza coinvolgere soldati, trasformando le forniture di energia, i rapporti commerciali, i movimenti delle persone in armi.

I fatti e le illusioni

Molti politici e studiosi avevano teorizzato che il mondo globalizzato, in cui gli scambi commerciali univano e consolidavano interessi reciproci, avrebbe aperto un’era di pace e prosperità per tutti i Paesi che, sulla base di scelte razionali, si sarebbero dati istituzioni aperte alle istanze e alle necessità delle popolazioni. Nel 1910 il politico britannico Norman Angell (poi insignito del premio Nobel per la Pace nel 1933) sostenne in un pamphlet che l’espansione del libero scambio avrebbe creato una maggiore interdipendenza tra gli Stati e, oltre al miglioramento dell’istruzione, avrebbe reso la guerra irrazionale e incivile. Lo scoppio della Prima guerra mondiale nell’agosto del 1914 sembrò confutare la sua tesi principale. Argomentazioni simili sono state avanzate circa l’apertura di Richard Nixon nei confronti della Cina, la Ostpolitik di Willy Brandt e la strategia di distensione con l’Unione Sovietica di Henry Kissinger.

Purtroppo, le tesi dei tecno-utopisti, secondo i quali la rete avrebbe progressivamente spazzato via le strutture autoritarie, favorendo la nascita e lo sviluppo di società democratiche, si sono rivelate inconsistenti. Il Partito comunista cinese è riuscito a usare internet per rinsaldare la sua presa, facendone un prezioso strumento di controllo sociale. La Russia di Putin ha portato a termine la stessa operazione, creando all’interno dei suoi servizi segreti una branca molto attiva di hacker che conducono sofisticate operazioni di dezinformacija e manipolazione dei processi elettorali, come è avvenuto nel 2016 negli Stati Uniti. A dire il vero, i nuovi media digitali hanno frammentato così tanto la realtà che oggi non si riesce nemmeno ad essere d’accordo sui fatti.

Secondo l’autore, “gli economisti hanno dimostrato come la globalizzazione alimenti le tensioni mettendo il turbo alle disuguaglianze e creando una categoria di ‘vinti’ che

La rete, che avrebbe dovuto essere una struttura universale e pacifica, si sta invece balcanizzando. L’aumento della connettività ha scatenato l’empatia, ma anche una pericolosissima invidia sociale.

ha interesse a rovesciare il sistema. Gli esperti di politica estera ci hanno spiegato che la connettività può portare a tensioni geopolitiche modificando l’equilibrio di potere”. Questo avviene perché, tramite la rete, ogni aspetto della vita di ciascuno può essere paragonato all’immagine splendente e patinata dei super-ricchi, generando quello che viene definito un “risentimento permanente”. Nel XIX e XX secolo le persone si riunivano in classi e comunità ampie che spesso si mobilitavano per il progresso a favore di vasti gruppi sociali: un servizio sanitario nazionale, l’istruzione pubblica per tutti, una rete di sicurezza sociale o pensioni universali. Ma le molteplici identità dell’era digitale tendono a produrre una crescente frammentazione per cui è sempre più difficile difendere valori universali. Secondo Leonard, invece di stimolare la nascita di concezioni sempre più aperte al dialogo e alla tolleranza, internet ha favorito un processo di tribalizzazione, in cui gli utenti della rete si collegano solo a coloro che percepiscono come affini. La stessa politica ha rinunciato a convincere ma si è ridotta a ricercare e selezionare quelli che hanno già certe idee.

L’ordine dei “quattro mondi”

Il saggio cita la studiosa e diplomatica Anne-Marie Slaughter secondo la quale, nel nuovo contesto, dobbiamo sviluppare una “mentalità di rete” per comprendere le dinamiche dei sistemi non gerarchici che incidono su energia, commercio, malattie, crimine, terrorismo e diritti umani. Stiamo assistendo al “passaggio da un mondo di Stati autosufficienti a un’enorme rete di intrecci, uno spostamento che sta modificando profondamente la politica globale”. Quindi è necessario prendere atto che “la connettività non ha portato alla fine dell’antagonismo. La globalizzazione non sta creando un mondo piatto, ma piuttosto una nuova topografia del potere”.

La Cina è stata abilissima a ritagliarsi uno spazio centrale in tutti questi sviluppi. Quando Pechino ha aderito all’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001 (con l’assistenza degli Stati Uniti), la sua economia era poco più di un decimo di quella americana. Nel 2019 l’economia cinese era pari a oltre due terzi di quella statunitense. Questo cambiamento economico ha trasformato anche le relazioni dei due Paesi con altri attori. Nel 2001 oltre l’80 per cento delle nazioni commerciava più con Washington che con Pechino. Nel 2018 questa percentuale è scesa al 30 per cento, e 128 Paesi su 190 commerciavano più con la Cina che con gli Stati Uniti. Inoltre, rifacendosi alle teorie dell’industriale tedesco Werner von Siemens, la Cina ha spedito i suoi massimi funzionari ai vertici degli organismo globali di definizione degli standard, come la International Telecommunication Union, la International Organization for Standardization e la International Electrotechnical Commission.

Nel suo notissimo romanzo 1984, George Orwell (1903-1950) immagina che il mondo sia diviso in tre grandi potenze totalitarie, l’Oceania, l’Eurasia e l’Estasia che si combattono costantemente.

Secondo l’autore, invece di andare verso un mondo bipolare o verso il caos ingovernabile di un mondo non-polare, stiamo assistendo all’emergere di un “ordine dei quattro mondi”. “Per i prossimi due decenni almeno, potenze come la Turchia, la Russia, l’Arabia Saudita, l’Iran e l’India non saranno abbastanza forti da poter fissare le condizioni della competizione globale. Solo tre blocchi possono contare su connessioni, denaro e potere istituzionale sufficienti per armare l’intero sistema: gli Stati Uniti d’America, la Cina e l’Unione europea. Non siamo lontani dalla visione distopica di George Orwell di un mondo diviso in Oceania, Eurasia ed Estasia”.

Ma non sono soltanto gli interessi a dividere le tre potenze egemoniche. ”Washington – scrive Leonard- guarda il mondo e vede gli snodi della rete, e cerca di capire come usarli per scopi di sorveglianza o sanzionatori. Pechino guarda il mondo e vede i legami, e punta a collegare altri paesi al suo mercato e a usare questi collegamenti infrastrutturali per agganciarli alla sfera d’influenza cinese. Bruxelles guarda il mondo e vede i singoli nodi – o più segnatamente il benessere dei consumatori e delle imprese europee – e pensa a quali norme o regole possano servire al meglio i loro interessi”. È chiaro che queste tre visioni potranno portare a scontri o conflitti in futuro.

I Balcani del XXI secolo

Il professor Yan Xuetong, docente alla prestigiosa Tsinghua University di Pechino, ritiene che lo scontro militare tra gli Stati Uniti, prima potenza mondiale e la Cina, potenza emergente, sia ineluttabile. Parlando con l’autore nel 2002, il prof. Xuetong aveva auspicato che “quando la Cina entrerà in guerra con gli Stati Uniti, ci auguriamo che l’Europa si manterrà quantomeno neutrale”. Leonard nota che, riferendosi al conflitto, Xuetong non dice “se”, ma “quando”. L’autore ricorda che sia Washington che Bruxelles avevano sperato che l’aver legato la Cina al sistema globale attraverso commerci e filiere in forte espansione avrebbe reso la guerra un’opzione irrazionale. Pensavano che l’apertura alla Cina di istituzioni come l’Organizzazione mondiale del commercio avrebbe convinto Pechino di avere voce in capitolo nell’assetto esistente e speravano che internet avrebbe eroso le divergenze politiche residue. Purtroppo, gli eventi non sono andati in quella direzione e il prof. Xuetong potrebbe aver ragione.

Se i Balcani sono stati la polveriera dei primi del Novecento, l’Indo-Pacifico si appresta a diventarne l’equivalente nella prima metà del XXI secolo. Pensatori come Yan Xuetong hanno denunciato il pericolo di una guerra su Taiwan o su un qualsiasi atollo o isola nei mari della Cina orientale e meridionale. Ma l’antagonismo potrebbe giocarsi anche in aree remote dell’Oceano Pacifico, su Stati minori come Vanuatu, Papua Nuova Guinea o Tonga. La posta in gioco non è il Lebensraum, lo spazio vitale delle epoche passate, ma il controllo delle rotte commerciali e della connettività nel mondo globalizzato del XXI secolo. Non dobbiamo poi dimenticare che le Hawaii hanno avuto un ruolo centrale nella nascita della potenza imperiale degli Stati Uniti e che, dopo Pearl Harbor, l’America si è affermata come potenza globale del XX secolo.

Più di recente, è alle Hawaii che Barack Obama è maturato intellettualmente e ha abbracciato l’idea di un nuovo modello di leadership americana, basato su una “rotazione” o “ribilanciamento” verso l’Asia. Ed è a Camp H.M. Smith, un centro militare nevralgico che ha sede sull’isola di Oahu, che ci si sta preparando alla possibilità di una guerra con la Cina. È meno noto che Sun Yat-sen, padre della Cina moderna, abbia studiato alle Hawaii e proprio qui abbia messo a punto alcune delle visioni e degli slogan utilizzati da Xi Jinping nei suoi primi discorsi sul “sogno cinese” e sulla “rivitalizzazione della nazione cinese”.

È su queste isole remote –scrive Leonard-, posizionate esattamente a metà strada tra il Nord America e l’Asia, che nel XIX secolo si sono forgiati i sogni americani e cinesi, che la convergenza delle due superpotenze è proseguita nel XX secolo e che ci si prepara alla possibilità di un conflitto militare nel XXI secolo. Sono la prova che il mondo non è abbastanza grande per ospitare due massime visioni su come organizzare il pianeta (per non parlare della terza opzione, meno militarista, avanzata dall’Europa) – e che se non si troverà il modo di separarle lo scontro sarà inevitabile”.

Mark Leonard
L’era della non-pace
Perché la connettività porta al conflitto
Bocconi University Press
Pag. 244, 29,50 euro

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