Mario Lettieri e Paolo Raimondi
Gli ambienti economici internazionali più attenti alle possibili tendenze future incominciano a porsi delle domande rispetto al pericolo di una ripresa dell’inflazione. Temono che possa superare il target ottimale d’inflazione del 2%. La preoccupazione maggiore riguarda gli Stati Uniti.
Lungi da noi l’idea di introdurre un altro elemento di tensione e di paura in una situazione già sovraccarica di problemi. Ci sembra, però, doveroso riflettere sulle conseguenze di alcune decisioni, che, se pur necessarie, meritano di essere tenute sotto controllo.
A inizio marzo 2021 il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha voluto rassicurare i mercati che l’aumento dei tassi di rendimento dei Treasury bond rifletterebbe l’ottimismo per la ripresa economica e non l’attesa di una ripresa inflazionistica.
Ci sembra, però, opportuno rilevare che storicamente la crescita dell’inflazione è sempre stata legata all’eccessiva offerta di liquidità rispetto alla domanda. Ciò che governi e banche centrali hanno fatto nel 2020 e faranno nel 2021, per contenere gli effetti gravemente recessivi della pandemia, è di grande rilievo. Negli Usa la Fed ha immesso liquidità portando il suo bilancio a oltre 7.600 miliardi di dollari, un aumento di quasi 3.500 miliardi.
Il governo di Washington ha stanziato fondi pubblici per sostenere l’economia e l’occupazione portando il deficit annuale al 17% e il debito pubblico americano ai massimi livelli, pari al 132% del pil. Inoltre, Biden già a metà gennaio ha annunciato altri 1.900 miliardi per far fronte all’emergenza Covid e preparebbe un altro deficit del 9%. Da febbraio 2020 a oggi l’indice M2, che misura la disponibilità di moneta e di altre attività finanziarie molto liquide, è cresciuto del 26%, l’aumento più forte nell’intera storia americana. L’Europa ha fatto una simile politica.
È importante evidenziare la situazione degli Stati Uniti, anche perché ciò che avviene in quel Paese ha sempre forti ripercussioni nel resto del mondo, in primis in Europa.
Negli Usa molti negano la crescita dell’inflazione. Nel 2020, dicono, c’è stata una deflazione, con una perdita di Pil e un aumento annuo dei prezzi inferiore all’1,4%. Se è vero ‘è da chiedersi dove sia andata tutta la liquidità messa a disposizione. Certo, una parte, per fortuna, ha permesso alle famiglie e alle piccole imprese di superare l’emergenza. Una grande parte, però, è finita in Borsa. Negli Usa, da marzo a fine 2020 il Pil ha perso il 3,5% mentre l’indice Dow Jones ha guadagnato il 65%! Anche il risparmio delle famiglie è cresciuto a dismisura: a settembre 2020, rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, è stato di 2.200 miliardi di dollari in più.
Gli sviluppi e gli effetti sono alquanto incerti. “C’è una possibilità che uno stimolo macroeconomico, su una scala più vicina ai livelli della seconda guerra mondiale che ai normali livelli di recessione, inneschi pressioni inflazionistiche di un tipo che non abbiamo visto in una generazione”, ha avvertito Larry Summers, già segretario al tesoro con Clinton.
Dopo i vaccini e i lockdown, i menzionati risparmi potrebbero trasformarsi in un’intensa domanda di consumi di beni e servizi. Il che potrebbe portare a una fiammata dell’inflazione. Il rifinanziamento di un debito cresciuto enormemente potrebbe richiedere un aumento dei tassi d’interesse offerti per trovare gli acquirenti.
I prezzi delle materie prime sono già in movimento, nonostante le produzioni siano inferiori a quelle pre pandemia. Ad esempio il prezzo della benzina negli Usa è tornato ai livelli dell’inizio del 2020, nonostante che la gente viaggi molto di meno. Nel 2020 il prezzo del rame è salito del 56%, quello della soia del 54%, del legname del 117% e quello dei noli per il trasporto di merci del 215%.
In Europa cresce una certa preoccupazione, espressa soprattutto da economisti tedeschi che hanno sempre il terrore dell’esperienza della Repubblica di Weimar. Anche l’economista capo della Bce ai tempi di Mario Draghi, Peter Praet, avverte la necessità di prepararsi ai nuovi scenari. È un’analisi condivisa anche da Jens Weidmann, capo della Bundesbank.
La domanda che sta circolando è: la Fed e le altre banche centrali stanno pensando adeguatamente all’inflazione? Speriamo di sì, purché non pensino solo all’inflazione ma anche all’occupazione e allo sviluppo.
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