Il 22 novembre scorso alle Nazioni Unite il gruppo dei paesi africani, guidato dalla Nigeria, ha presentato una risoluzione (A/C.2/78/L.18/Rev.1) sulla “Promozione di una cooperazione fiscale inclusiva ed efficace presso l’Onu” per un trattato e una riforma fiscale internazionale.

Globalmente ogni anno si perdono centinaia di miliardi di dollari per l’evasione fiscale da parte di aziende private e multinazionali e anche per i cosiddetti flussi finanziari illeciti (Iff), cioè movimenti illegali di denaro e beni. Anche il continente africano è molto penalizzato.

Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad), ogni anno quasi 90 miliardi di dollari, equivalenti a poco meno del 4% del Pil africano, viene “trafugato” dal continente sottoforma di Iff. Dal 2000 al 2015, i capitali in fuga hanno raggiunto la stratosferica cifra di 836 miliardi di dollari. L’importo è enorme e supera gli aiuti allo sviluppo dati dai paesi donatori.

125 paesi del cosiddetto Global South hanno votato a favore – tra cui Cina e Russia insieme a 51 delle 54 delegazioni africane. I voti contrari sono stati 48 e 9 le astensioni.

Stati Uniti, Giappone e Unione europea hanno votato contro. Al riguardo Washington ha esercitato la massima pressione sugli alleati per il voto contrario.

Già prima del voto all’Onu, nell’ottobre scorso, i ministri delle finanze dell’Ue si erano detti contrari a una convenzione fiscale dell’Onu, finalizzata alla definizione delle regole di contrasto dell’evasione fiscale, poiché sarebbe stata «una duplicazione del lavoro internazionale in corso riguardo all’attuale quadro fiscale globale». L’Ue preferirebbe un approccio più flessibile auspicando «un’agenda multilaterale non vincolante».

Tale posizione è paradossalmente in contrasto con una risoluzione dello stesso Parlamento europeo di giugno che, in seguito alle rivelazioni dei “Pandora Papers” [circa 12 milioni di documenti scoperti e pubblicati nell’ottobre 2021 dal International Consortium of Investigative Journalists, che mostravano che tra i 5,6 e i 32 trilioni di dollari erano stati esportati su mercati offshore e nascosti al fisco da 35 leader politici di levatura nazionale e da oltre 400 amministratori pubblici di un centinaio di Paesi e da oltre cento miliardari – ndr], sosteneva l’avvio di una convenzione dell’Onu per affrontare l’evasione fiscale e i flussi finanziari illeciti.

La scusa di un eventuale doppione si riferisce ai negoziati multilaterali per un trattato fiscale globale in seno all’Ocse che, però, dopo un decennio non ha prodotto progressi significativi.

È stata proprio questa incapacità dei paesi industrializzati a spingere i paesi africani a intraprendere l’iniziativa Onu, anche con il sostegno dei paesi non allineati del Gruppo dei 77.

Gli interessi in gioco sono enormi. Tra le clausole dei trattati fiscali vigenti figurano quelle che trattano le affiliate di imprese multinazionali come entità separate e indipendenti. Queste ultime sono spesso registrate nei paradisi fiscali per evitare di pagare le tasse nei paesi africani in cui operano. È lo stesso problema di cui noi europei ci lamentiamo rispetto ai giganti internazionali delle comunicazioni, e non solo, che non vogliono pagare le tasse nei paesi europei in cui operano.

Secondo uno studio del progetto Africa Growth Initiative presso la Brookings Institution di Washington, tra i primi 10 paesi che registrano il maggior volume di flussi finanziari illeciti, ben 9 dipendono dalle esportazioni di risorse naturali: il Sud Africa, la Repubblica democratica del Congo, il Botswana e lo Zambia per l’industria mineraria; la Nigeria, la Repubblica del Congo, l’Angola, il Sudan e il Camerun per la produzione di gas e petrolio.

I paesi africani hanno creato l’African Continental Free Trade Area, la più grande area di libero scambio al mondo dopo l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). È una grande opportunità di sviluppo che rischia di essere bloccata da un iniquo regime fiscale interno e internazionale. In altre parole, per unificare le leggi e i regolamenti relativi allo scambio di beni e servizi nel continente, non basterà la prevista rimozione delle barriere commerciali, ma occorrerà procedere alla scrittura di regole comuni per le imprese straniere, particolarmente per le multinazionali.

Per i paesi in via di sviluppo, la risoluzione dell’Onu pone le basi per l’ottenimento di quelle risorse finanziarie tanto necessarie e cruciali per rispondere all’attuale crisi del debito e per facilitare il raggiungimento dello sviluppo sostenibile. Per le nazioni più sviluppate e industrializzate, invece, si prevedono delle condizioni per ridurre evasione ed elusione fiscale che minano l’equità economica. 

Crediamo che bloccare la risoluzione sarebbe un segnale negativo. Ciò rivelerebbe resistenze ingiustificate da parte di chi a gran voce rivendica nuove regole senza esserne convinto. Infatti, la questione non è mai stata affrontata adeguatamente nella sede del G20 da parte dei rappresentanti dei cosiddetti grandi paesi della terra.

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