Mario Lettieri e Paolo Raimondi
I cambiamenti veri in campo economico e politico non si misurano con gli aggettivi ma con azioni concrete. Quando c’è molto, troppo, fumo vuol dire che l’arrosto si è bruciato. È un po’ la sensazione che si ha analizzando il summit internazionale con i Paesi dell’Africa di Parigi.
Il 18 maggio il presidente francese Emmanuel Macron ha ospitato una conferenza con 20 capi di stato e di governo africani, leader europei, tra cui il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Mario Draghi, e tutte le maggiori organizzazioni internazionali, Fondo monetario internazionale e Banca mondiale compresi.
L’obiettivo è un “new deal” per e con l’Africa, anche perché “la pandemia ha e avrà un impatto enorme sull’economia del continente africano, più grande di qualsiasi crisi precedente”. Il Fmi stima un fabbisogno di almeno 285 miliardi di dollari di nuovi finanziamenti e investimenti nel quinquennio 2021-2025 per non pregiudicare il graduale raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu e quelli dell’Agenda 2063 dell’Unione africana. Cioè, non per fare un rilevante balzo in avanti ma per non tornare indietro.
La conferenza era stata convocata sulla scia dell’appello dell’aprile 2020, firmato da 18 leader europei e africani, sull’impatto della crisi sanitaria in Africa.
La Francia è particolarmente interessata a riprendere il suo ruolo d’influenza, in particolare negli Stati francofoni sub sahariani, dopo la decisione dei Paesi africani coinvolti di andare oltre il sistema monetario del cosiddetto franco CFA. Come parte del cambiamento, pochi giorni fa, la Francia avrebbe trasferito 5 miliardi di euro di riserve di valuta estera alla banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale.
Il problema è capire a chi si appoggeranno le future monete africane. Da sole non possono reggere eventuali attacchi speculativi. Se, al riguardo, l’Unione Europea non fa sentire la sua voce in modo chiaro e univoco, allora, di fatto, le cose rimarrebbero come prima, cioè sotto il controllo francese, eventualmente un po’ modificato, più edulcorato. Purtroppo, sembra che l’Ue non stia sollevando questo tema.
I leader africani sono stati molto chiari. Ad esempio, il presidente del Ghana Nana Akufo-Addo ha dichiarato: “Proprio come 77 anni fa le istituzioni di Bretton Woods hanno contribuito a ricostruire l’economia globale del dopoguerra e hanno riacceso la cooperazione economica internazionale, ora c’è un’opportunità storica per ripristinare le regole economiche del sistema finanziario globale e dare ai paesi africani pari possibilità di sviluppo”. Nel 2050, l’Africa avrà un quarto della popolazione mondiale, più della metà della popolazione globale di giovani e un PIL di circa 29.000 miliardi di dollari.
Fra gli argomenti discussi c’è stato l’alleggerimento del debito pubblico africano. La pandemia ha fatto crescere il deficit totale di bilancio dell’Africa dal 4,7% del 2019 all’8,7% del 2020. Anche il rapporto debito/Pil è aumentato dal 57% del 2019 al 70% del 2021.
Al riguardo è doveroso notare che lo scorso aprile era stata messa in atto una sospensione dei pagamenti sul servizio del debito per 5,7 miliardi di dollari da parte del Club di Parigi e del G20. 31 paesi africani ne hanno beneficiato.
Il vertice di Parigi ha auspicato “una decisione rapida su un’assegnazione di Diritti speciali di prelievo, (la moneta di conto del Fmi), per un importo di 650 miliardi di dollari, di cui quasi 33 miliardi destinati ad aumentare le attività di riserva dei Paesi africani”. 24 miliardi sarebbero per l’Africa sub sahariana. In realtà, le organizzazioni internazionali della società civile avevano chiesto una nuova assegnazione di 3.000 miliardi di dollari in Dsp, tre volte tanto.
Questa è l’unica cifra concreta contenuta nella dichiarazione finale del summit, che altrimenti è ricchissimo d’idee e di suggerimenti, anche molto condivisibili. Con riferimento ad alcune importanti iniziative e sostegni, riappare, però, l’annotazione “su base volontaria”. Cioè varie iniziative sono lasciate alla buona volontà e alla sensibilizzazione dei singoli Stati del settore industrializzato e ai privati.
I cittadini italiani e degli altri Paesi dell’Unione europea conoscono bene la differenza tra le promesse e la realtà dei fatti. L’hanno visto con il Recovery Fund, che è andato avanti e indietro sulle scrivanie dei governi fino a che non è diventato politica di bilancio e di investimenti a tutti gli effetti. Per l’Africa i bilanci ancora “piangono”.
Il tema centrale del summit non poteva che essere la pandemia e l’emergenza creatasi in Africa. Al riguardo, il presidente Macron ha affermato: “Sosteniamo i trasferimenti di tecnologia e l’iniziativa che è stata richiesta dall’Organizzazione mondiale della sanità, dall’ Organizzazione mondiale del commercio e dal Medicines Patent Pool per rimuovere tutti i vincoli in termini di proprietà intellettuale che bloccano la produzione di qualsiasi tipo di vaccino”. Una linea sostenuta anche da Mario Draghi e dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
Fino ad oggi l’Africa ha ricevuto circa 32 milioni di vaccini, non più dell’1% della produzione mondiale. L’80% delle dosi prodotte è stato somministrato nei Paesi ricchi. Anche Draghi ha definito la situazione “inaccettabile”. La Commissione europea si è impegnata ad acquistare, a prezzo di costo, 1,3 miliardi di dosi nel 2021 e altrettanti nel 2022 per i Paesi poveri. Naturalmente le imprese dovrebbero rinunciare al profitto, dopo averne già fatto tantissimo.
La dichiarazione finale, nel mezzo di tante affermazioni di buona volontà,come la piena condivisione, lo sblocco dell’export, il sostegno al commercio lungo tutta la filiera del valore, lo sviluppo delle capacità locali per la somministrazione e la produzione dei vaccini, afferma che “ abbiamo anche bisogno di partnership con il settore privato, per accelerare la produzione di vaccini, sviluppando localmente capacità produttive in Africa. Ciò può essere facilitato dalla condivisione volontaria della proprietà intellettuale e il trasferimento attivo di tecnologie e know-how, coerenti con quadri giuridici internazionali, ad esempio attraverso l’adesione al pool di licenze e accordi per consentire la produzione locale.”.
Ecco di nuovo la “condivisione volontaria”. Eppure la liberalizzazione dei brevetti è prevista nei cosiddetti accordi TRIPS (accordi sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale) dell’’Organizzazione mondiale del commercio in casi di particolare gravità.
Manca, cioè, la volontà dei governi di imporre, anche se in forma limitata nel tempo, il superamento dei limiti previsti dai brevetti esclusivi delle case farmaceutiche. Da Parigi, la palla è passata nelle mani del G20. Vedremo se dai summit di Roma di quest’anno scaturirà qualche decisione più coraggiosa e lungimirante.
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